nel territorio Reggiano, dal crinale al Po

Comincerei cercando in breve di tracciare la storia, certamente non esaustiva, di quasi due secoli di ricerche, studi o saggi sulla poesia popolare, perché quel percorso ha portato in qualche misura alla attuale situazione per ragionare sulle cosiddette “aree omogenee” anche se, come dice il Conati: “stabilire rigorosi confini territoriali fra culture contigue è pura utopia. Mentre i documenti etnofonici in genere hanno delle precise linee di demarcazione, l’esistenza di un intreccio di rapporti culturali che si estende oltre queste linee dimostra spesso il prevaricare dello spirito campanilistico delle popolazioni, quindi l’insussistenza di ”aree regionali o provinciali” vere e proprie.

 Si può partire con la data del 1760 con la pubblicazione dei “Canti di Ossian” che rivendica la bellezza delle ballate inglesi nazionali contro quelle franco-italiane, si giunge al 1765 con la grande raccolta del Percy e fino alla fine del secolo ne verranno pubblicate diverse. Intanto in Germania più che in Inghilterra si fa strada la cosiddetta ”chiarificazione teoretica” e nel 1778 si pubblica una vasta raccolta dell’Herder dal titolo: “Voci di popolo nelle loro canzoni”. E’ il periodo in cui si teorizza la originalità “nazionale” della poesia popolare come unico elemento, ma in seguito nella prima metà dell’ottocento, si rinnegherà questa “creazione collettiva” dei canti popolari. Nel frattempo in Italia erano scesi i primi romantici anglo-sassoni, assetati ricercatori di poesia popolare; il Goethe per esempio nel 1768 fa un lungo viaggio e gira quasi tutta la penisola raccogliendo molto materiale… poi per tutto il secolo successivo si ricercherà da Roma alla toscana fino alla lontana Venezia. Ma intanto già la nuova passione era venuta di moda anche fra gli studiosi italiani anche se in maniera scientificamente modesta così per un quarantennio alcuni pionieri pubblicheranno diversi canti o poesie contadinesche.

Si arriva così al biennio 1841-42 in cui a Venezia esce la grande raccolta del Tommaseo dal titolo: “Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci”; siamo cioè alla prima fase storica dei nostri studi, quella che si potrebbe chiamare romantica della ricerca, che terminerà con intatta passione ma anche con uno spirito già rivolto al romanticismo scientifico con il Rubieri e la sua” storia della poesia popolare in Italia” del 1877. Nello stesso anno si pubblica la poderosa “Poesia popolare italiana” del D’Ancona che si può presentare come opera inauguratrice di una fase seconda che chiameremo (con cautela) scientifica. Per la prima volta, assistiamo ad una spiegazione storica dei canti popolari e soprattutto ad un vastissimo accentramento di confronti, modello di comparazione per ogni futuro lavoro di ricerca e base d’operazione. Il D’Ancona a che teoria era arrivato, pur nel limite della sistemazione confusa del materiale regionale? Alla monogenesi dei canti popolari italiani che semplicisticamente consiste nel dare alla Sicilia il titolo di “culla del canto popolare”, il trecento come secolo di diffusione di tale canto in tutta la penisola secondo la direttrice sud-nord e la toscana come suo principale centro irradiatore ed elaboratore.

Si delinea così una differenza tra settentrione e centro-meridione, ed è su questa divisione del canto in due specie: lirico ed epico-lirico, con la susseguente localizzazione geografica meridione=canto lirico, nord=canto epico-lirico che imposterà la sua ricerca filologica Costantino Nigra, che durerà diversi lustri culminante con la famosa ricerca etnomusicologica dal titolo: “Canti Piemontesi” del 1888.9

Costantino Nigra: Villa Castelnuovo 1828 – Rapallo 1907

In buona sostanza il Nigra parte dallo studio dei caratteri esterni cioè comparando la composizione metrica della poesia popolare arrivando a sostenere che la presenza di una struttura come lo strambotto o il ritornello (endecasillabo con desinenza piana o ossitona…) bastava di per sé ad indicare la provenienza dall’Italia inferiore-media; per contro la poesia con struttura simile alla canzone (potremmo chiamarla BALLATA) si marca la provenienza dall’Italia settentrionale.

Per scendere alle ragioni più interne, storiche ed etniche si spinse a studiare i substrati (dialetti), concludendo che l’Italia rispetto alla poesia popolare (come ai dialetti) si divide in due zone:

l’Italia inferiore con substrato italico cioè di derivazione latina, dalla Toscana in giù e dall’Italia superiore con substrato celtico.

Roberto Leydi nella sua pubblicazione “i canti popolari Italiani” del 1972 spiega bene i confini dell’area settentrionale che ci riguarda: “…territorio che possiamo in termini generali, considerare comprendere la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia occidentale, il Veneto, con l’eccezione forse della fascia costiera, fino all’Istria”. L’area settentrionale si collega lungo diverse direttrici con la più grande area europea, pur presentando alcune caratterizzazioni specifiche. I suoi legami sono sia verso la Francia sia verso i vicini paesi di lingua tedesca e slovena, con propaggini, da un lato fino alle isole della Bretagna e dall’altro fino alla Germania e ai Carpazi. Siamo così arrivati al nostro secolo; dopo la fase romantica e la fase scientifica, si può pensare ad una fase estetica o teorica di ripensamento filosofico. E’ con il saggio di Benedetto Croce del 1929 intitolato “poesia popolare d’arte” che cambia l’approccio con la ricerca e lo studio.

Come esempio di questa nuova impostazione prenderei le conclusioni che ha ripreso per altro il Gramsci, a proposito di una divisione e distinzione dei canti popolari formulata da quel Ermolao Rubieri citato prima: 1) i canti composti dal popolo per il popolo, 2) quelli composti per il popolo ma non dal popolo, 3) quelli scritti né per il popolo né dal popolo ma da questo adottati, perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire. Mi sembra questa terza categoria molto vicina alle caratteristiche che contraddistinguono il canto popolare come mezzo per concepire la vita e il mondo in contrasto spesso con la società ufficiale.

Dopo Benedetto Croce operano in Italia studiosi come il Barbi o il Novati e l’etnomusicologia diventa una disciplina autonoma. La problematica si fa capillare e visto l’allargamento del campo di studi, dovuto all’aumento del materiale raccolto in Italia e l’aggiornamento con le grandi ricerche folcloristiche anglosassoni, francesi e spagnole, si richiede necessariamente un apporto, da parte dello studioso, sempre più dotto e istruito.

A questo punto sarebbe troppo lungo elencare tutte le raccolte, i piccoli o grandi contributi dati alla ricerca “sul campo”, in questo periodo, perché in ogni regione o provincia c’è qualche studioso letterato o semplice appassionato che raccoglie cataloga i canti popolari. Si deve altresì notare come già da tempo riviste popolari accolgano volentieri saggi o piccole raccolte etnomusicologiche e questo aumenta di molto le possibilità di comparazione e analisi del materiale raccolto.

Ma per tornare al tema iniziale: “divisioni territoriali…..” non sarà apparso difficile dopo tante ipotesi, teorie, intuizioni assai diverse fra loro, capire chiaramente che non si può parlare di confini ben delineati; troppi fattori sociali, culturali e storici hanno contribuito ad assottigliare nel tempo quelle divisioni che sembravano nette agli studiosi ottocenteschi.

Volendo provare a ragionare su elementi conosciuti circa la conformazione geografica, di condizioni sociali, ecc… riguardo alla nostra regione, diremo che: l’Emilia dal punto di vista etnomusicale, si differenzia molto dalla Romagna, l’asse ovest-est che si allontana progressivamente dalla pianura padana fino a confondersi con il litorale adriatico e l’Appennino forlivese con l’Italia centrale, divide benissimo due zone distinte e diverse: l’Emilia e la Romagna.

L’Emilia è profondamente sbilanciata verso nord dal punto di vista dell’etnomusicologia, quasi chiusa da un Appennino che le ha impedito sostanzialmente, di subire importanti influenze toscane. Se togliamo la zona di confine regionale (l’alto crinale nel nostro caso) ove tale influenza a volte è netta, si può dire che gran parte del territorio emiliano fa parte della cultura dell’Italia settentrionale, seguendo due direttrici: la pianura, omogenea con quella lombardo – veneta e l’Appennino profondamente legato alla montagna e collina ligure ma soprattutto al Piemonte. In Emilia si fa inoltre palese l’imprecisione dei confini amministrativi regionali. Per esempio alcune zone del piacentino sono decisamente influenzate dalla cultura lombarda e non emiliana; addirittura recenti studi comparativi evidenziano che molte lezioni della Val Nure o Val Trebbia possono essere influenzate dal “trallallero” genovese ancor più dal canto corso o sardo. In altre zone come i territori che costeggiano il Po, appartengono musicalmente all’Emilia e non al mantovano come ci si aspetterebbe. Cito ancora il Conati a proposito di contaminazioni culturali nella zona della val d’Enza che ci riguarda da vicino: “…a parte il fatto che per alcuni secoli , fino al 1847, tutta la riva destra del fiume Enza (quella reggiana) da Ramiseto a S.Ilario, con Ciano e Rossena fece parte del ducato di Parma e Piacenza, è da osservare che i rapporti socio-economici ancor oggi sono orientati verso il parmense…” In ogni caso la riva destra dell’Enza rientra nell’etnofonia parmense allo stesso titolo per cui la Lunigiana vi entra anche se in territorio amministrativo toscano; viceversa i documenti dell’alta Val di Taro risentono di influenze liguri e quelli della zona del Po partecipano a quella lombarda o meglio cremonese. Per contro molti documenti dell’alta val d’Enza e Cedra nonostante il dialetto sia simile al dialetto parmigiano partecipa alla tradizione toscana. Di più difficile collocazione è il territorio bolognese situato al termine dell’Emilia e non ancora in Romagna nettamente, dove è possibile trovare le matrici della musica popolare emiliano – romagnola, quella settentrionale e quella centrale che integratesi hanno generato uno stile per così dire nuovo specialmente nella musica popolare strumentale “a ballo”. Soprattutto per quanto riguarda l’Emilia c’è poi un altro fattore che ha inciso profondamente: la netta e storica separazione fra montagna e pianura sancita come una linea ideale dalla via Emilia. Questi due territori hanno sempre avuto vite differenti soprattutto economicamente e di tale distanza è possibile cogliere tracce sensibili nelle culture musicali: moderna, attiva “padana” la pianura, arcaica e conservatrice la montagna (appenninica), anche se la qualità del materiale etnofonico raccolto sull’Appennino, dimostra che c’è una vivacità culturale assai presente a dispetto di chi ha sempre messo in relazione la decadenza o arretratezza dei “montanari” con la scarsità culturale. La provincia Reggiana pertanto, ci appare culturalmente molto unita ed omogenea dotata di caratteri autonomi; essa partecipa direttamente ad una cultura musicale che la unisce a sud con l’Appennino toscano e ad ovest con quello ligure e tramite questo alla più vasta e arcaica cultura musicale popolare piemontese.

Se dunque la montagna appare protagonista 10 di una produzione culturale profondamente radicata nel tempo, non altrettanto si può così facilmente affermare per la pianura. A tutti sono noti i grandi cambiamenti economici e culturali che hanno caratterizzato le campagne emiliane negli ultimi cento anni; cito ancora il Leydi: “….non è altro che il riflesso della vicenda storica e sociale del nostro paese, giunto all’unificazione in epoca assai recente passando attraverso esperienze varie e contrastanti…”. Soltanto il repertorio popolare e popolaresco si presenta con una certa superficiale uniformità. La pianura si è così trasformata modernizzandosi non solo economicamente ma anche dal punto di vista culturale e musicale. Se c’era una cultura contadina prima per esempio delle grandi opere di bonifica è stata quasi cancellata da quella recente bracciantile, modificando nella sostanza gli aspetti principali portando alla ribalta per esempio il canto teso, sforzato, corale…          Confrontando le raccolte del secolo scorso con le attuali, si può meglio capire l’influenza dei cambiamenti sociali nel repertorio; se prima era relativamente facile reperire canti narrativi, ballate epico-liriche ecc…ora in gran parte è perso o radicalmente trasformato. I grandi lavori di bonifica, il lavoro nelle risaie con annesso il fenomeno di migrazione, il servizio militare nazionale, la scolarizzazione obbligatoria, le guerre, la resistenza, i mezzi di comunicazione di massa ecc. hanno reso la musica popolare della pianura, sostanzialmente simile a quella delle altre regioni dell’Italia settentrionale, annullando quasi di colpo secolari differenze.     

Ma finora si è ragionato solo sulla poesia popolare cioè sulla composizione metrica del componimento, tralasciando la parte musicale. Non è possibile però cercare distinzioni geografiche o aree di influenza senza studiare o comparare le melodie. E’ proprio la comparazione purtroppo la ricerca più in ritardo, solamente da una sessantina d’anni i ricercatori hanno capito l’importanza di trascrivere anche la parte melodica. Il primo vero lavoro organico di trascrizione è stato fatto da Alan Lomax e Diego Carpitella che nel ’45 iniziano a girare l’Italia in lungo e in largo e poi nelle successive pubblicazioni compaiono scritte le melodie, lasciate così come erano state registrate dagli informatori. Se togliamo l’empirico lavoro di un maestro friulano ceco, che per conto della Società Filologica Friulana pubblica nel 1930 la sua ricerca con le melodie scritte a mano, si deve costatare il ritardo rispetto alla tradizionale e incompleta ricerca etnofonica comparata solo nei testi poetici. Nella nostra regione ci sono da citare opere di ricerca importanti: a Bologna il grande lavoro del compianto M° Giorgio Vacchi, pioniere di questo appassionato lavoro, il centro provinciale di Piacenza, a Parma molti contributi da singoli, in particolare: il M° Giorgio Branchi, la ricerca di Marcello Conati, la ricerca accurata del M° Giacomo Monica, di assoluta importanza è il centro etnografico Ferrarese diretto da G.P. Borghi, nella provincia Reggiana ricorderei il grande lavoro di Giorgio Vezzani (in particolare sui “maggi e le compagnie di maggiarini”), la raccolta trentennale del coro “La Baita” di Scandiano e la ricerca del M° Mario Fontanesi nel territorio Toanese.

Alla luce di queste considerazioni credo che la conclusione sia che rimane certamente un’utopia la divisione in territori o aree geografiche “ben definite”, il cammino di studio ricerca, catalogazione di questo meraviglioso patrimonio è ancora lungo, e soprattutto che il canto popolare non ha confini ma appartiene “a tutti…” pertanto mi auguro che in futuro ci siano sempre più appassionati ricercatori di canto popolare con materiale a disposizione per poter continuare in questa affascinante opera di esplorazione etnomusicale.

(*) Presidente AERCO e Direttore del Coro “La Baita” di Scandiano (RE)

Bibliografia:

Marcello Conati “canti popolari della val d’Enza e della val Cedra”-1975 a cura delle comunità delle valli dei cavalieri

Roberto Leydi “ i canti popolari Italiani”-1978 Oscar Mondadori-MI

Giuseppe Ferraro “canti popolari Piemontesi ed Emiliani-1977 ed. Rizzoli-MI

Giuseppe Ferraro “canti popolari della prov. Di Reggio Emilia”-1969 Forni editore-BO

Costantino Nigra “canti popolari del Piemonte”-1888 reprints Einaudi 1974-TO

Giuseppe Vettori “i canti popolari Italiani”-maggio 1995 Newton-ROMA

Maria Elena Giusti “ballate della raccolta Barbi”-1990 Arnaldo Forni editore-BO

Franco della Peruta, Roberto Leydi, Angelo Stella a cura di: “Milano e il suo territorio”-1985 Silvana editoriale-MI

Benedetto Pergoli “saggio di canti popolari Romagnoli” 1894-ristampa 1967 Forni editore-BO

Vittorio Santoli “i canti popolari Italiani ricerche e questioni” 1940-riedizione ampliata 1968 G.C.Sansoni s.p.a.-FI

Diego Carpitella “l’etnomusicologia in Italia”-1975 S.F.Flaccovio-PA

Maria Angela Marzola “ballate e canzoni narrative in Emilia”-2000 università degli studi di Bologn