Il recupero della musica antica e della sua prassi è incominciato con gli strumenti, mentre al problema della vocalità ci si è avvicinati molto più tardi. Non dimentichiamo che, mentre ai tempi in cui la musica antica era moderna gli strumenti erano tributari della voce, oggi avviene esattamente il contrario: la voce segue la prassi strumentale e il fatto si riflette anche nell’esecuzione della musica antica. È comunque mancata, in tutti questi anni, una seria ricerca sulla vocalità per un equivoco: si è creduto, infatti, che fosse sufficiente allontanarsi dalla prassi romantica e verista per fare vocalità antica, ma ci si è dimenticati del fatto che ogni epoca ha le sue radici in quelle che la precedono. Ecco allora, ad esempio la “guerra del vibrato”.

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Meccanismo del vibrato: a ogni aumento di pressione la trachea si allunga e la laringe risale. La cartilagine tiroide, vincolata allo sterno dai muscoli sterno-tiroidei, si inclina in avanti e in basso stirando le corde vocali e modulandone la frequenza di vibrazione.

Sembrava che bastasse cantare con voce fissa per realizzare la prassi antica, senza capire, fra l’altro, che il vibrato è una componente fondamentale dell’espressione vocale umana e non di questa o quell’epoca. La problematica psicocustica del vibrato è poi così complessa che fare affermazioni in materia senza un minimo di conoscenze scientifiche è piuttosto pericoloso.

Superata questa fase che io definisco “calvinista”, di reazione a tutto ciò che potesse avere un qualche riferimento con Romanticismo e Verismo, si è arrivati ad accettare un tipo di vocalità che avesse almeno caratteri liederistici. Di fatto, la pratica attuale del canto antico deriva più dalla tradizione liederistica che da un ricerca autentica sulla vocalità preromantica.

La ricerca dovrebbe consistere, ad esempio, nella disamina dei caratteri dell’espressione verbale nelle diverse culture ed epoche. E a questo punto il discorso si fa ampio. Si dimentica intanto che le due grandi scuole vocali, prima che si formasse quella tedesca, furono quella italiana e quella francese, ciascuna delle quali aveva caratteristiche legate alla propria cultura e alla propria lingua. Pensiamo al problema della prosodia. Nell’italiano abbiamo un’articolazione in frasi principali e secondarie, con un accento principale che, di solito, cade sulla penultima sillaba della frase mentre quelli secondari lo precedono con una intensità molto variabile. Il periodo ha quindi una dinamica assai varia e un andamento morbidamente ondulato. Il francese, viceversa, non distingue fra accenti principali e accenti secondari. Nella lingua tedesca, come in quella italiana, si hanno accenti principali e secondari, ma l’accentuazione viene ottenuta sottolineando le parole importanti col risultato, al nostro orecchio, di una prosodia “puntuta”, che calchiamo quando vogliamo farne la caricatura. Il merito del recupero della vocalità italiana antica compete certamente agli inglesi. Il guaio è che essi cantano usando spontaneamente la prosodia della propria lingua, che è affatto diversa dalle altre tre e i risultati sconfinano sovente nel grottesco. Non solo: bisogna ricordare che la prosodia cambia anche nel tempo, per cui c’è una grossa differenza tra l’affrontare la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri o un melodramma di Vivaldi.1

Un esempio dei problemi legati alla prosodia: se consideriamo il caso dei madrigali di Monteverdi, ad esempio l’inizio della Sestina composta in morte di Caterinuccia Martinelli (“Incenerite spoglie, avara tomba / fatta del mio bel Sol terreno cielo”, ecc.), vediamo in modo inequivocabile che le esclamazioni e le sottolineature del testo, date dalle note puntate, si trovano in coincidenza degli aggettivi, mentre quasi tutte, per non dire tutte, le esecuzioni moderne sottolineano i sostantivi seguendo la logica espressiva d’oggi. La conseguenza è che tutta l’esecuzione, anche se presentata come filologica, prende i caratteri di un corale tedesco invece che di un madrigale italiano.

Purtroppo non esiste una corretta scuola vocale per la musica antica. E dirò di più: è anche ferma la ricerca su tutta la musica antica, perché, dopo aver scoperto gli aspetti più superficiali del problema – intendendoli come quelli che, stando alla superficie, potevano essere più facilmente coltivati – ci si è accontentati e si è smesso di ricercare. Si sono capite fondamentalmente due cose: la prima, che l’espressività moderna è caratterizzata da una tensione continua (carattere che ha in comune con tutte le altre arti) mentre quella antica presenta un’articolazione che viene progressivamente riducendosi nel tempo per essere sostituita da altre componenti espressive. Di conseguenza si è compresa la necessità del recupero della variabilità, dell’ineguaglianza, fattori senza i quali la musica antica rimane poco comprensibile e quindi noiosa. In secondo luogo, si è capito che le musiche antiche erano da abbellire, ma è mancata la ricerca sulla funzione rappresentativa degli abbellimenti e dei loro codici espressivi. L’esecuzione delle diminuzioni, soprattutto da parte dei cantanti, risponde quasi sempre a una schematizzazione elementare e ripetitiva, che non tiene conto, ad esempio, di quanto si potrebbe ricavare dall’analisi sistematica del rapporto fra parole e musica nei casi, che sono infiniti, in cui le diminuzioni sono scritte.

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Alessandro Moreschi (1858-1922): l’ultimo dei castrati

Per eseguire correttamente la musica antica occorrerebbe indagare, per esempio, su quanto c’è di idiomatico nelle espressioni musicali vocali strumentali, in quanto la voce e ciascuno strumento hanno modi espressivi propri, che, oltre a tutto, cambiano a seconda delle culture e delle epoche. Sarebbe opportuno approfondire la ricerca sulle culture nazionali (culture in senso antropologico), che nel passato erano molto diverse fra loro. Nel caso della musica vocale dovremmo anche considerare i guasti provocati dal successo commerciale odierno dei falsettisti, che hanno fatto certamente parte della cultura francese, ma che sono sempre stati estranei a quella italiana in quanto da noi, e non c’è da vantarsene, si preferiva castrar bambini in omaggio al santo principio paolino e papalino: “mulieres in ecclesiis taceant”.

A proposito di parti scritte per castrati si presenta il problema di optare per esecuzioni moderne con falsettisti o quelle con voci femminili. Certo, sia l’impiego di falsettisti che di voce femminili implicano un tradimento: i falsettisti hanno gravi limiti espressivi perché la tecnica del falsetto riduce drasticamente la variabilità fonetica della voce con la conseguenza che gioia e dolore vengono espresse con lo stesso colore vocale; le voci femminili rispettano certamente la gamma originale della scrittura, ma tradiscono il personaggio. Io, di fronte ad una donna che sul palcoscenico manifesta sentimenti d’amore per un’altra donna, rimango sempre perplesso. Allora, tradimento per tradimento, anche se so di scandalizzare molti, tolti i casi in cui esigenze concertanti non impongano di impiegare voci acute – e allora opto per le donne in quanto più espressive – preferisco una terza soluzione: utilizzare voci maschili di classe corrispondente. So benissimo che Haendel a Londra, non avendo a disposizione castrati, utilizzava voci femminili; ma la situazione socio-culturale era diversa dalla nostra e, per quanto mi riguarda, credo che a teatro siano fondamentali l’espressività della parola cantata e la credibilità del personaggio, per cui preferisco le voci maschili e quelle femminili al falsetto. Quando si tratterà di cantare le arie delle Remarques curieuses di Benigne de Bacilly sarà tutto un altro discorso.