In questo intervento ci proponiamo di indagare su di un fenomeno che si è verificato alla fine del cinquecento, in modo preponderante nella musica veneziana: la nascita di un linguaggio musicale che tenesse conto anche dell’aspetto verticale oltre che di quello orizzontale. Parleremo dei nuovi processi di caduta e ascesa di quinte del basso e del loro inserimento nel sistema polifonico esistente, ma per far questo dobbiamo liberarci dei nostri occhi (e orecchi) tonali e imparare a guardare quella musica con gli occhi di quel tempo.La nostra cultura musicale, che lo si voglia o no, è radicata nel cosiddetto “sistema tonale”, codificato per la prima volta da J. P. Rameau nel suo Traité d’Harmonie pubblicato nel 1722 e più volte rielaborato dai teorici successivi fino a giungere ai manuali di Armonia che ancora oggi vengono utilizzati in tutto l’orbe. Elementi imprescindibili di questo sistema sono: a) una visione sostanzialmente verticale della musica, in cui tutti i suoni simultanei risultano accorpati in accordi; b) l’individuazione di un baricentro temporale e temporaneo detto tonica destinato a stabilire una gerarchia tra gli accordi individuati; c) il tentativo persistente di schematizzare le successioni degli accordi cercando di stabilire quelle da privilegiare. Una certa storiografia, ma anche una certa musicologia, hanno tentato, in un passato anche non molto lontano, di far apparire il sistema tonale come la naturale evoluzione del preesistente, come se la tonalità avesse finalmente messo ordine nel caos che fino a quel momento aveva regnato. Nelle abbondanti trascrizioni di musica rinascimentale e medievale, effettuate in questo periodo, non si incontra nessuna remora a “tonalizzare” le opere antiche, quasi a compiere un gesto di pietosa redenzione. In realtà il preesistente ha avuto caratteristiche ben diverse dal sistema tonale e, spesso, non è andato verso di esso ma anzi, qualche volta, è andato in direzioni del tutto differenti. Nella seconda metà del cinquecento, per una serie di circostanze, la musica conobbe una certa tendenza all’omoritmia. Per omoritmia non si intende che le durate dei suoni dei frammenti musicali siano tutteuguali ma che tutte le voci si muovano sulla stessa sequenza di durate. Esistevano già composizioni tipicamente omoritmiche come la lauda e la villanella e, qualche volta, poteva capitare che anche all’interno di un mottetto vi fossero sezioni omoritmiche. In questo periodo si cominciò a ritenere che alcuni testi, quali ad esempio i salmi, oppure il Gloria in excelsis e il Credo in unum Deum dell’Ordinarium Missae, fossero di dimensioni troppo elevate per permettere un’elaborazione integralmente imitativa, per cui gli autori iniziarono a musicarli utilizzando prevalentemente l’omoritmia. Ne è esempio l’incipit del Gloria della celebre Missa Papae Marcelli di G. Pierluigi da Palestrina.

G.P. Da Palestrina: incipit del Gloria dalla Missa Papae Marcelli

G.P. Da Palestrina: incipit del Gloria dalla Missa Papae Marcelli

La scrittura omoritmica permetteva una maggiore compattezza degli elaborati e soprattutto favoriva una migliore comprensione del testo (argomento divenuto piuttosto assillante in quel periodo). Non erano solo gli ambienti ecclesiastici riformisti a chiedere una maggiore intelligibilità del testo ma anche alcuni ambienti laici, specialmente letterari. L’appiattimento, che la presenza di omoritmie produceva all’interno di una partitura, spinse i compositori a porre maggiore attenzione all’unica altra variabile in campo: il ritmo. Una scrittura compattata, che rinuncia volontariamente all’efficace avvicendamento contrappuntistico, deve per forza cercare nuovi elementi di interesse, e uno di questo non può che essere l’alternanza di differenti durate. Nel citato esempio di Pierluigi da Palestrina si può già intravedere un inizio di differenziazione delle durate in cui l’omoritmia non è più caratterizzata da note di lunga  durata tutte uguali ma lentamente si accosta sempre più al ritmo insito nella parola declamata. Se, dunque, tutte le parti procedono con lo stesso ritmo allora è importante che questo ritmo sia il più interessante possibile. C’è però un’altra variabile che inizia a fare capolino, ma per evidenziarla è necessario qui citare un altro antefatto. Le opere rinascimentali sono caratterizzate da un severissimo controllo di tipo verticale, vale a dire: tutte le voci attive in un determinato momento devono essere in consonanza perfetta o imperfetta con la nota più grave (la quarta giusta è già trattata da molto tempo come una dissonanza). Le consonanze possono essere in qualunque sequenza temporale, tranne la successione immediata di due consonanze perfette. Dunque massima libertà di movimento, nessuna regola di concatenazione tra le consonanze (di cui invece sarà intriso il futuro sistema tonale), nessuna sequenza preferenziale tra le stesse. Il fluire della musica viene interpuntato solo da cadenze verso le “toniche” modali, le quali non sono così condizionanti come quelle tonali. La scrittura imitativa permetteva di concentrare l’attenzione su un raffinato ritmo di avvicendamento vocale, ma, nel momento in cui l’omoritmia diventa una forma di scrittura importante, è necessario imparare a curare anche la successione delle consonanze in modo che anch’essa risulti il più gradevole possibile. Quindi, la nuova variabile, di cui ci occuperemo, è quella verticale, ovvero, cercheremo di indagare circa la preoccupazione che certi autori, principalmente quelli attivi a Venezia, svilupparono nel curare le successioni delle note al grave delle forme omoritmiche. Più tardi questo problema diverrà di capitale importanza e darà vita al concetto moderno di Armonia come arte di concatenazione degli accordi. I motivi per cui tutto questo succede proprio a Venezia sono molteplici, ma ne enunciamo solo due. Il primo e più importante, è che la Serenissima, in questo momento storico, è un immenso laboratorio di produzione e di diffusione di materiale sonoro. La quantità di musica prodotta a Venezia è di gran lunga superiore a quelle di altre capitali europee per cui è naturale che le novità siano sperimentate proprio qui. Il secondo motivo va ricercato nel fatto che queste sperimentazioni avvengono principalmente nelle chiese, ovvero in luoghi in cui si verifica un significativo prolungamento del suono. Questo riverbero produce una fugace compresenza tra il suono prodotto un attimo fa e quello attuale. Ciò obbliga il compositore a ben ponderare la successione delle consonanze altrimenti l’impasto sonoro potrebbe risultare sgradevole. La polifonia di provenienza fiamminga, pur essendo scritta senza seguire nessuna regola in merito alle successioni temporali di consonanze, ha una certa tendenza ad accostare note al grave ad intervalli di terza l’una dall’altra. Ciò accade per una serie di motivi, anche teologici, cui non è qui il caso di accennare. Comunque si può affermare che, storicamente, i fiamminghi hanno in un certo qual modo imposto il dominio delle consonanze imperfette a scapito di quelle perfette per cui è giocoforza pensare che questo dominio sia stato esteso anche alle scelte di tendenza per quanto riguarda le successioni di consonanze verticali. Il seguente esempio mostra quanto questo gioco possa divenire anche molto scoperto. Il frammento è tratto dalla sequenza di Pentecoste del Choralis Costantinus di H. Isaac. La successione di terze melodiche discendenti produce una successione di consonanze verticali in cui la nota al grave si sposta anch’essa prevalentemente di terza.

H. Isaac: frammento dalla sequenza di Pentecoste del Choralis Costantinus

H. Isaac: frammento dalla sequenza di Pentecoste del Choralis Costantinus

I vantaggi che derivano da questo modo di accostare le consonanze sono molteplici. In questo caso, in cui si è operato a due e tre voci, le consonanze hanno quasi sempre una nota in comune con quelle che le precedono. In un contesto a quattro voci, lo stesso procedimento può provocare la comunanza anche di due note tra consonanze verticali in successione temporale. Già gli italiani della metà del XVI secolo hanno allargato la gamma di possibilità aggiungendo la quarta a questi intervalli in successione al grave. Tornando al primo esempio, l’incipit del Gloria della Missa Papae Marcelli, possiamo notare che entrambi i bassi si muovono su una successione di quarte e terze per moto contrario. Se si controllano le note in comune si può verificare che il salto di quarta ascendente permette la comunanza di una nota, mentre il salto di terza discendente permette quella della altre due. E’ molto importante puntualizzare che, nonostante vi sia una grande libertà nel scegliere le consonanze verticali, quasi tutti i compositori di questo periodo scelgono in gran parte di utilizzare le consonanze simultanee di terza, quinta e ottava (la futura triade maggiore o minore), più raramente impiegano quelle di terza, sesta e ottava (il futuro primo rivolto della triade) spesso solo su tempo debole, o comunque non in posizioni di primaria importanza ritmica, e, con molta circospezione, associano quinta, sesta e ottava. Quest’ultima combinazione, dopo una lunga evoluzione, diventerà la prima quadriade del sistema tonale.

Andrea Gabrieli (1533 circa - 1585), Maestro di Cappella in San Marco

Andrea Gabrieli (1533 circa – 1585), Maestro di Cappella in San Marco

Il fatto che due gruppi sequenziali di consonanze abbiano o non abbiano note in comune è importante per diversi motivi. Il primo motivo è di tipo concettuale. L’ascoltatore è continuamente alla ricerca di punti di riferimento durante l’ascolto e laripetizione di un elemento, come ad esempio un frammento di testo, oppure di una piccola sezione musicale, di una successione di accenti ritmici o, più semplicemente, la ripetizione di una nota all’interno di un contesto in evoluzione, è logica fonte di appiglio per la fruizione cerebrale del brano musicale. Il secondo motivo, cui abbiamo già brevemente accennato, consiste nel fatto che se tra due situazioni verticalisuccessive vi è almeno una nota in comune, questo favorirà la gradevolezza fisica dell’ascolto, specialmente in situazioni fisiche in cui il riverbero sia di consistente intensità. Un terzo motivo va ricercato nella necessità di alternare diverse situazioni durante l’ascolto. E’ stato più volte dimostrato che il nostro sistema di apprendimento si muove per approssimazioni successive, e, tra uno stadio e l’altro di acquisizione, è necessaria una seppur breve fase di stasi. Tutti i linguaggi sono costruiti in modo da permettere questa alternanza tra un momento di forte impatto e uno successivo di relativo riposo. Quest’ultimo permette la riflessione e l’elaborazione interna che prepara ad una nuova e più positiva capacità di ricezione. Anche la musica, alterna continuamente situazioni di forte comunicazione ad altre più riflessive. Ciò succede sia al livello macroscopico delle grandi strutture (alternanza di movimenti, di situazioni dinamiche, timbriche e ritmiche) sia nel veloce fluire dei singoli suoni. Il mantenere o ripetere anche un singolo suono tra due gruppi sequenziali di consonanze verticali è una possibile garanzia di questa necessaria fase di riposo. Inoltre, l’inserimento di questo elemento di stasi, permette a sua volta un gradito avvicendamento, anche repentino, degli altri suoni. Andrea Gabrieli è il primo autore veneziano che affronta queste problematiche con una certoraziocinio. Nelle sue partiture le successioni di consonanze verticali si trovano ordinate in un modo che sembra studiato con cura. Non dobbiamo aspettarci una organizzazione globale come il successivo sistema tonale Una vera e propria strutturazione del linguaggio musicale esisteva solo per la costruzione dei canoni ed era un sistema che utilizzava il controllo verticale solo come ambiente di formazione dei movimenti e non come fine principale. In ogni caso, anche se ci fosse stato un qualunque sistema di organizzazione, il clima di sperimentazione di quel momento induceva al superamento di ogni forma di schematizzazione. Nell’esempio che segue, un frammento omoritmico del mottetto O Salutaris Hostia tratto dai Concerti del 1587, abbiamo nominato con una serie di lettere maiuscole in grassetto poste tra i due cori i gruppi di consonanze verticali. E’ necessario per noi non considerare questi gruppi come delle triadi anche se ai nostri occhi lo sono a tutti gli effetti, per cui assoceremo a questi gruppi una lettera dell’alfabeto in ordine di apparizione. Se compiamo questo piccolo sforzo di dissociazione dal nostro sistema, potremo entrare nel loro modo di considerare la questione e capirne meglio gli sviluppi. A indica le consonanze di terza, quinta, ottava e replicate con un Re al grave (in entrambi i cori), B indica le stesse consonanze con un Sol al grave, C idem con un Fa al grave, D idem con un Do, G idem con un Sol. E e H indicano le consonanze verticali di terza e sesta, rispettivamente con un Si bemolle e un Mi bemolle al grave. Come già evidenziato in precedenza, questi due insiemi di consonanze si trovano su accento debole della battuta. F e I indicano la dissonanza verticale di quarta (percussione di un ritardo preparato che risolve nell’insieme successivo) e le consonanze di sesta e ottava, rispettivamente con un La e un Re al grave. Questo insieme (che successivamente è diventato il secondo rivolto della triade) si trova solo in prossimità di cadenza.

A. Gabrieli: frammento dal mottetto O Salutaris Hostia

A. Gabrieli: frammento dal mottetto O Salutaris Hostia

Infatti le successioni GA a cavallo delle battute 32/33 e AB tra le battute 34/35 sono due cadenze (più tardi chiamate perfette) con procedimento al basso di quinta inferiore, la prima al nono modo trasportato e le seconda al primo trasportato, entrambe con innalzamento della terza (piccarda). Come era facilmente prevedibile le sequenze di lettere non sono assolutamente casuali. Vi sono un certo numero di ripetizioni di cui, viste le premesse sin qui delineate, è possibile capirne la ragione. Alcuni andamenti, come le due sequenze BEFGA (batt. 32/33) e DHIAB (batt. 34/35) hanno moltissime attinenze con la futura cadenza composta. I due accostamenti BE (batt. 32) e DH (batt. 34), che per noi sono dei normalissimi scambi di parti all’interno dello stesso accordo, erano per Gabrieli delle non comuni successioni di due insiemi aventi ben tre note in comune che gli permettevano, proprio a motivo di questa totale comunanza, una migliore stabilità del frammento. Ma le similitudini con le future sistematizzazioni si fermano qui, benché questo che abbiamo presentato sia uno degli episodi in cui il compositore veneziano più si presta ad una lettura tonale. Anche il fatto che i due episodi totalmente simili alternanti (batt. 31/33 il primo e 33/35 il secondo), in cui l’antecedente ha una funzione dominantica sul seguente, va ben al di là delle funzioni tonali e ci introduce nel vero cuore della questione. Se osserviamo i tre momenti in cui ci appare la sequenza AB (batt. 29, 33 e 34/35) dove la nota in comune è un Re, vediamo che, pur avendo tutte le caratteristiche della futura cadenza perfetta, nei primi due casi non lo è assolutamente, cioè non ha quelle caratteristiche risolutive verso una tonica di cui essa sarebbe inequivocabile segnale nel sistema tonale. Questa sequenza si inserisce infatti in quella serie reiterativa di procedimenti alla quinta inferiore del basso (o quelli analoghi e più frequenti alla quarta superiore), detti anche caduta di quinte e che spesso venivano utilizzati come elementi strutturali trainanti nella polifonia di questo periodo.

Giovanni Gabrieli (1557 - 1612), Maestro di Cappella in San Marco

Giovanni Gabrieli (1557 – 1612), Maestro di Cappella in San Marco

La sequenza speculare ad essa, avente funzioni analoghe, è quella in cui il basso procede per quinte ascendenti (o più frequentemente per quarte discendenti) e viene comunemente chiamata ascesa di quinte. La prima successione di questo secondo tipo che incontriamo è CDB (batt. 30/31). Se leggiamo questa sequenza basandoci unicamente sul secondo coro, il basso procede prima di quinta ascendente (nota in comune Do) e poi di quarta discendente (nota in comune Sol). Questi cambi di direzione del basso sono spesso dovuti unicamente a ragioni di tessitura vocale. Se invece leggiamo entrambi i bassi, la sequenza diventa una successione di quarte discendenti. Il fatto che l’autore veneziano introduca un procedimento di tale spinta di continuità nel momento in cui spezza i due cori, indica chiaramente che il susseguirsi delle quinte ha la funzione di collegarli più strettamente. La doppia ripetizione di DB (batt, 30/32) conferma e stabilizza il movimento. Analoga funzione di collegamento tra i due cori ha la sequenza in caduta di quinte GABD (batt. 32/34). Come si può ben immaginare, queste sequenze hanno lo scopo di dinamizzare fortemente la partitura, mentre tutti gli altri elementi, come i gruppi cadenzanti già notati, ma anche le note in comune, divengono invece elementi chiaramente stabilizzanti. Per inciso è interessante notare che le successioni di quinte al grave (alla base di alcune fatidiche progressioni dei secoli successivi) divennero, al contrario, elementi di riposo. Analizziamo ora un frammento del mottetto Jubilate Deo di Giovanni Gabrieli, tratto dalle Sacrae Simphoniae del 1597.

G. Gabrieli: frammento dal mottetto Jubilate Deo

G. Gabrieli: frammento dal mottetto Jubilate Deo

Notiamo immediatamente alcune analogie con il succitato frammento di Andrea Gabrieli. Questa volta tutti gli insiemi di consonanze verticali, tranne l’H, sono costituiti da terza (maggiore o minore), quinta, ottava e replicate. L’insieme H, formato dalle consonanze di terza e sesta (maggiore alterata), è tipicamente cadenzante. In questo caso la cadenza HB conduce al primo modo trasportato (sempre con terza piccarda). Dunque, in questo esempio, il materiale accordale è ancora più fortemente connotato che in quello precedente. La sequenza AB, che ha casualmente identiche caratteristiche di quelle che aveva nel frammento di Andrea Gabrieli, appare anche qui in tre situazioni diverse (batt. 18, 19 e 20/21), senza giungere mai ad una connotazione veramente risolutiva, quale più tardi avrà la analoga cadenza perfetta. Potremmo avere dei dubbi nel secondo caso, quello di battuta 19 e più ancora nel terzo (batt. 20/21), ma se guardiamo più a fondo vediamo che in entrambe le situazioni siamo all’interno di un’ascesa di quarte (o caduta di quinte), ABE nel primo caso e ABEC nel secondo, che collegano l’alternarsi dei due cori. E’ interessante notare che qui, in maniera più evidente che nell’esempio precedente, appare uno dei più efficaci elementi di riposo tra una sequenza di quinte e l’altra: la sequenza BCDEA (batt. 18/19) e la successione EF di battuta 20, le quali sono costituite prevalentemente da una discesa di grado congiunto del basso. Specialmente nel secondo caso è evidente che tale elemento di riposo permette alla sequenza di quinte, in cui è immesso, di condurre l’azione in maniera più efficace. Infatti, pur non avendo i due insiemi di consonanze verticali alcuna nota in comune, ciò permette alla voce superiore di procedere con una scala ascendente e quindi di tracciare un nuovo elemento di riconoscimento molto individuabile. Un altro artificio, che in questo esempio è più evidente che nel precedente, è l’uso del passaggio da una sequenza in caduta di quinte ad uno in ascesa. Una specie di “inversione di marcia” che provoca una brusca interruzione nel dinamismo progressivo. La sequenza in caduta ABECE (batt. 20/23) una volta giunta a C inverte la propria rotta e torna su E bloccando l’azione espressiva della successione. La ripetizione a stretto giro di questo ultimo insieme di consonanze verticali (E) lo rende nuovo punto di riferimento su cui l’autore si sofferma per inserire una cadenza. La differenza, che invece balza immediatamente agli occhi, tra i frammenti di Andrea e Giovanni Gabrieli, consiste nel fatto che la successione ritmica di quest’ultimo è decisamente più caratterizzata di quella di Andrea, con inserzioni di frammenti ternari veloci (minima seguita da semiminima, vedi batt. 18/20) all’interno di un andamento binario canonico. Nel frammento di Andrea le lettere di riconoscimento verticale valevano per una durata di una semibreve o di una minima, mentre possiamo ben vedere che in quello del nipote Giovanni tali lettere valgono per una gamma di valori che va dalla breve alla semiminima. Concludiamo questa mini-rassegna di frammenti omoritmici di autori veneziani della fine del XVI secolo con un inciso di Giovanni Croce. Questo autore non possiede la spinta innovativa dei due precedenti ma, anzi, in lui si ravvisa la tendenza alla sistematizzazione di ciò che altri proponevano. Forse ciò è dovuto alla stretta vicinanza che egli ebbe con il conterraneo Gioseffo Zarlino. Il seguente frammento è tratto dal terzo Laudate Pueri dei Salmi del 1597.

G. Croce: frammento dal terzo Laudate Pueri dei Salmi del 1597

G. Croce: frammento dal terzo Laudate Pueri dei Salmi del 1597

In questo frangente la scrittura del compositore chioggiotto è piuttosto lineare, molto vicina a quella di Andrea Gabrieli. La disposizione delle lettere ci rivela che, mentre i Gabrieli utilizzavano una o al massimo due sillabe di testo per ogni insieme di consonanze verticali, Croce si sofferma più volte sui gruppi, movendo le parti all’interno di essi e utilizzando fino a quattro sillabe per ognuno di essi. Ciò delinea una situazione fortemente affermativa in cui la staticità dei movimenti verticali è compensata da una certa vivacità ritmica e, quindi, in questo frammento il testo e il ritmo sono sganciati dalle successioni delle sequenze verticali. Anche in questo caso, l’unico insieme che non ingloba consonanze di terza, quinta, ottava e replicate è F (batt. 48). Le sequenze ABCD (batt. 44/47) e ABC (batt. 49/50) sono due successioni analoghe in caduta di quinte di cui la prima, piuttosto plateale, ci mostra quanto questa tipologia di consequenzialità fosse ampiamente entrata nell’uso. L’aspetto più interessante è che queste sequenze non dovevano per forza concludersi su di un punto fermo ma anzi più spesso accadeva che portassero a una situazione instabile che poteva prendere qualunque direzione. In questo caso è rimarchevole il fatto che la prima di queste sequenze concluda a sorpresa su E dopo essersi temporaneamente appoggiata su A. Il fatto che la coppia AE costituisca un’ascesa di quinta ci riporta all’analoga ”inversione di marcia” dell’esempio precedente. La sequenza ABCD (batt. 44/47) conclude su E invertendo la propria direzione. La differenza è che questa volta c’è stata una deviazione improvvisa verso A. Il fatto che gli insiemi D e A abbiano in comune due note rende questa rottura della sequenza appena percettibile anche se, per il nostro orecchio, D e A sono due situazioni accordali molto differenti. Concludendo, possiamo riassumere quanto detto ed evidenziato negli esempi, mettendo in luce il fatto che a Venezia, alla fine del sedicesimo secolo, inizi un processo di verticalizzazione in cui le parti tendono sempre più frequentemente all’omoritmia. Ciò comporta l’affermarsi sempre più prepotente della triade come gruppo verticale preferito. Questo gruppo non comporta nessun intervallo di quarta tra le parti in causa per cui è un elemento molto sicuro e molto facile da manovrare. Ma, prima che tutto ciò preluda al sistema tonale, prende vita un’ampia ricerca di come queste nuove serie di situazioni che si vengono a creare, la cui comunicatività è molto veloce ed immediata, possano muoversi agilmente ed elegantemente senza creare inciampi. Vengono messe in campo tutte le abilità al fine di trovare un certo numero di elementi retorici che ne permettano la fruizione. Vengono messe a punto le serie che abbiamo denominato caduta e ascesa di quinte che danno grande slancio alle opere degli autori veneziani. La forza vincente di queste serie è spesso dovuta ad aspetti per noi marginali come ad esempio la comunanza di una sola nota: un legame debole che però permetteva un’alta velocità; oppure la possibilità di “invertire la marcia” per stabilizzare il movimento veloce delle serie. Vengono sondate le possibilità di movimento delle sequenze miste in cui le nuove successioni di quinte inglobano i vecchi passaggi melodici alla terza o alla seconda. Ciò produce nuovi elementi di riferimento uditivo mediante la formazione delle successioni scalari nelle voci acute che dinamizzano visibilmente le partiture. Il tutto porta ad una nuova gamma di elementi che arricchiscono ed accentuano l’alternarsi di situazioni di forte comunicatività con altre più riflessive di cui è costituito il piacevole fluire della musica.