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Giuseppe Verdi (1813-1901)

Le celebrazioni del bicentenario verdiano stanno volgendo all’epilogo. Per ognuno di noi, devoto o indifferente al melodramma, è lecito formulare un piccolo bilancio su quanta di questa musica possa essere entrata nelle nostre orecchie rispetto al consueto. Scopriremmo che, dai jingle pubblicitari al programma di concerto, scampoli piccoli o grandi dell’opera di Verdi si sono moltiplicati intorno a noi. Bisognerà anche chiedersi perché proprio quelle frasi si sono staccate dalla loro sede originaria, quella macchina del racconto così perfetta da lasciarsi difficilmente manomettere. Senza dubbio, il fenomeno si perde nella notte dei tempi e riveste un interesse tutto particolare quando questi scampoli sono assegnati al coro. L’impegno di cantarli ancora e tornare a ragionare sul loro senso è molto più di un omaggio. In primo luogo, ci permette di ripercorrere la carriera del maestro bussetano dal punto di vista di una risorsa sonora ed espressiva cui di volta in volta erano affidati nuovi compiti, competenze e peculiarità di scrittura. La ragione più eminente risiede però nella strada che queste melodie hanno percorso dall’istante della loro elaborazione fino ai nostri giorni, una rete intensa e capillare, che ha ben presto superato le porte dei teatri risuonando nelle città e nei paesi per mezzo delle bande, delle voci più o meno allenate, dell’organista intento ad accompagnare il rito, e tanto altro. Da molti decenni i cori più ‘chiacchierati’ di Verdi sono quelli che, per nascita e inclinazione, appartengono più schiettamente alla sensibilità risorgimentale ed è per la loro evidenza che fin dalla fine dell’Ottocento è stata accollata una patente di militanza al loro creatore. Pur non desiderando in queste pagine assumere posizioni o formulare corollari, si invita a festeggiare la ricorrenza rileggendo queste musiche accanto ai loro preludi, interludi e postludi. 1. L’antefatto Nel melodramma di fine Settecento il coro svolgeva soprattutto una mansione complementare: al pari degli arredi scenici forniva il corredo alla trama senza incidere concretamente nel suo svolgimento; sovente alle numerose persone convenute a cantare in scena si chiedeva di indossare i panni (sia nel senso del costume, sia in quello vocale) necessari a ricreare un dato ambito folclorico. Nell’età di Rossini il coro ha un brano convenzionale, in cui non è difficile individuare un modello assoluto e sempre appropriato: ne è testimone lo stesso Mazzini, che nella sua Filosofia della musica (1836) dimostra di essere un attentissimo ascoltatore: “se il dramma musicale ha da camminar parallelo allo sviluppo degli elementi invadenti progressivamente la società -perché il coro, che nel dramma Greco rappresentava l’unità d’impressione e di giudicio morale, la coscienza dei più raggiante sull’anima del Poeta, non otterrebbe nel dramma musicale moderno più ampio sviluppo, e non s’innalzerebbe dalla sfera secondaria passiva che gli è in oggi assegnata, alla rappresentanza solenne ed intera dell’elemento popolare? […] Perché, relativamente al protagonista o a’ protagonisti, non costituirebbe quell’elemento di contrasto essenziale ad ogni lavoro, drammatico, -relativamente a se stesso -non darebbe più sovente immagine, col concertato, coll’avvicendarsi, coll’intrecciarsi di più melodie, di più frasi musicali, intersecate, combinate, armonizzate l’una coll’altra a interrogazioni, a risposte, della varietà moltiplice di sensazioni, di pareri, d’affetti, e di desiderii che freme d’ordinario nelle moltitudini?” Un nuovo genere di coro, quello invocato in queste righe, dove l’effetto popolare riesca a determinare una inedita funzionalità, progettata nel libretto e nella partitura. Ma qualcosa stava già accadendo. In quegli anni, infatti, la presenza del ‘popolo’ in scena, specie in drammi di evidente implicazione politica ha reso le sue invocazioni alla libertà e al patriottismo dei perfetti strumenti di propaganda. È assai arduo determinare il punto esatto che sta all’origine di questa particolare vocazione ideologica del melodramma, ma si suole iniziare il percorso che conduce al Risorgimento con l’opera napoleonica Fernando Cortez di Gaspare Spontini, rappresentata all’Opéra di Parigi nel 1809. Fra i titoli più spesso evocati vi sono quindi Mosé (1818) e Guillaume Tell (1829) di Rossini, Otto mesi in due ore o sia gli esiliati in Siberia (1827) e Gemma di Vergy (1834) di Donizetti, Norma (1831) e I Puritani (1835) di Bellini. Dei tanti esempi che dispongono a riflettere sull’argomento ci limitiamo a citarne un paio. Il primo si trova in Caritea Regina di Spagna di Saverio Mercadante (1826), che narra le peripezie di una principessa spagnola alle cui nozze è legato il destino di una nazione. Al culmine del primo atto Don Alfonso, re del Portogallo, decide di prenderla con la forza e un reggimento di soldati spagnoli intona un coro: Aspra del militar benché la vita, al lampo dell’acciar gioia l’invita. Chi per la gloria muor vissuto è assai; la fronda dell’allor non langue mai. Piuttosto che languir per lunghi affanni è meglio di morir
sul fior degli anni. Chi muore e che non dà di gloria un segno alla futura età, di fama è indegno. Sebbene oggi si possa incontrare Caritea più che altro nel dizionario (e forse la si incontra perché la sua voce precede quella di Carmen), questo brano è passato alla storia. Diciotto anni dopo la prima rappresentazione dell’opera avvenne la dimostrazione di come fossero riposte forti incombenze di ordine ideologico tra le file del coro, poiché fu proprio quel tema che i fratelli Bandiera cantarono nell’atto di salire al patibolo. Le cronache dell’avvenimento, oltre a sottolineare il fermo stoicismo con cui s’intonò questo canto, ne riportano anche le parole, che non concordavano del tutto con la stesura originale: «gloria» fu sostituito con «patria», mentre il verso «per lunghi affanni» divenne «sotto i tiranni». Indubbiamente, non si trattava di un adattamento ‘alla circostanza’, ma risulta ovvio che da tempo quei versi avessero già ricevuto un significativo ritocco, le cui ragioni non sono difficili da immaginare (non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta). Si può anche legittimamente sospettare che a questa invocazione morale fosse stato applicato un ‘ammortizzatore lessicale’ all’atto della prima esecuzione veneziana allo scopo di scongiurare indesiderati interventi della censura, ma per riappropriarsi subito della sua veste più autentica attraverso il canale popolare. Altro caso, sempre riguardante una donna virtuosa e astuta in cerca di marito. Nel secondo atto de L’italiana in Algeri di Rossini si ritenne opportuno, replicandola a Roma dopo la prima a Venezia, sostituire nel rondò di Isabella «patria» con «sposa»; al momento di eseguirla a Napoli si ritenne rischiosa anche questa modifica, per cui l’intero numero venne cambiato con «Sullo stil de’ viaggiatori», aria comune di tema turistico. Nonostante il coro in «Pensa alla patria» svolga la funzione di “pertichino” (ossia, intervenga con brevi battute a commento del solista) anziché essere protagonista della scena, è doveroso marcare la sua presenza sul palco quando il libretto dell’opera ‘strizzi l’occhio’ allo spettatore evocando sentimenti e concetti oscillanti fra la finzione e la realtà. La «rappresentanza solenne ed intera dell’elemento popolare» cui si riferiva Mazzini era già entrata in campo. 2. Il popolo in scena Negli anni dell’apprendistato di Verdi la composizione polifonica ebbe un indiscusso rilievo; fra i tredici e i vent’anni, sotto il controllo del maestro Ferdinando Provesi, scrisse musica per l’uso liturgico come alcune Lamentazioni di Geremia e una Messa di Gloria in cui ancora oggi si può scorgere l’attento intervento del mentore. La produzione di musica corale indipendente dal teatro lo accompagnò per tutta la vita, con le vette che tutti conosciamo, ma sempre manifestando il dominio di un naturale esercizio speculativo. I suoi melodrammi creati entro la metà del secolo si collocano appieno in una fase di trasformazione della drammaturgia in cui anche gli episodi corali rivedono il proprio assetto funzionale. In Verdi è evidente il valore attribuito a questo elemento per la frequenza con cui i suoi propri temi sono enunciati a partire dall’apertura orchestrale: Nabucodonosor, La battaglia di Legnano e Stiffelio sono le opere di questi anni la cui sinfonia anticipa più temi che nel dramma saranno cantati dal coro. Le tante occorrenze in cui questo è impiegato nei lavori di quegli anni rivela in modo palese la determinazione di Verdi a considerarlo parte

Coro del Teatro alla Scala, “Va Pensiero”, Nabucco 2013

Coro del Teatro alla Scala, “Va Pensiero”, Nabucco 2013

integrante del codice narrativo del melodramma e non più come un convenzionale accessorio timbrico e segnaletico.

In questo modello vi è anzitutto il pezzo chiuso corale, che ha il compito di dichiarare all’istante il contesto geografico e temporale del dramma; non sviluppa mai un’azione e sovente manifesta un sentimento di gioia destinata presto a spezzarsi per la presenza in scena di uno o più solisti alle prese con i propri guai. Sono questi i brani che si collocano all’inizio di un atto (di rado all’interno). Più variamente si assiste all’intervento del coro nello svolgersi della «solita forma»: apparecchia la scena mediante acclamazione o sottolinea il comportamento psicologico del protagonista nel cantabile (I due Foscari, Aria di Lucrezia I,7); è messaggero che giunge a mutare o esasperare l’atteggiamento del personaggio nel tempo di mezzo, come accade in Ernani quando un gruppo di ancelle entra un scena porgendo a una inquieta Elvira lo sgradito dono di gioielli da parte di Silva (I,4); infine l’intervento corale giunge a incastonarsi nei ritornelli della cabaletta, secondo un procedimento ben stabilito da Rossini. I duetti sono tradizionalmente proibiti al coro ‐ a meno che questo non sia ‘interno’ – e assai raramente questo compare nei concertati o con un proprio quadro autonomo (tale è la scena nona nel primo Atto de I due Foscari, «Tacque il reo»). In considerazione del loro forte carico drammaturgico, vi sono infine due tipologie corali caratteristiche di questo periodo verdiano che hanno maggiormente stuzzicato la bramosia analitica degli studiosi. La condivisione di materiale melodico fra il solista e il coro talvolta fa di questi un’entità decisiva, specchio della società civile: il cosiddetto ‘coro di risposta’ ripete ed amplifica formule fatali come giuramenti («Giuri ognun questo canuto», I Masnadieri, finale Atto III).

Libretto de “I Masnadieri”, Mantova, Teatro Sociale, 1850

Libretto de “I Masnadieri”, Mantova, Teatro Sociale, 1850

Un ulteriore privilegio formale si stabilizza poi nell’avviarsi al finale, quando una scena di gruppo introduce lo sciogliersi risolutivo del dramma preparando auspici, profezie, preghiere. Possono di buon grado annoverarsi fra questi i più celebri cori delle tre opere scritte fra il 1842 e 1844: «Va pensiero sull’ali dorate» (Nabucco, III, 4), «O Signore dal tetto natio» (I Lombardi alla prima crociata, IV, 3), «Si ridesti il Leon di Castiglia» (Ernani, III, 4). 3. Monumenti involontari Gli effetti provocati da questi motivi fra la gente di quei giorni sono cosa arcinota; lo sono anche le cause, tuttavia più piacevoli da rammentare, basti pensare a certi valori formali e di contenuto che li dominano: il dotto decasillabo anapestico che ne misura i versi, l’unisono imperante che si frange in più voci solo secondo un certo ordine retorico, il ricorso a un immaginario emotivo universale (la cetra appesa, il paesaggio di casa, la famiglia, il distacco). Più difficile cogliere l’esatta natura di quel Verdi, che si ritrovò ad occupare la carica di genio del Risorgimento in virtù di diversi suoi atti. Il più esplicito dei quali fu senza dubbio la composizione di «Suoni la tromba», quando nel 1848 di Mazzini gli propose di musicare alcuni versi di Mameli allo scopo di dare vita a una «Marsigliese italiana»; in meno di due mesi l’inno fu consegnato, accompagnato da una schietta dichiarazione: “Ho cercato d’essere più popolare e facile che mi sia stato possibile. Fatene quell’uso che credete: abbruciatelo anche se non lo credete degno. Se poi gli date pubblicità, fate che il poeta cambi alcune parole […]. Possa quest’inno, fra la musica del cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde!” Ma «Suoni la tromba» non fu né popolare, né facile e non ebbe l’esito sperato. Mameli non era un librettista e i versi confezionati per quell’occasione non soggiacevano a certi canoni metrici imprescindibili al musicista, che di certo aveva in mente un preciso modello afferente all’opera di quegli anni. E difatti era questo il campo di battaglia prediletto da Verdi, ove riuscì più naturale l’esposizione di certi ideali – estetici e non solo. Nel 1848 l’uso propagandistico del messaggio musicale era tutt’altro che cosa nuova, lo dimostra la grande copia di edizioni d’inni e canti popolari che Verdi non poteva disconoscere. Ad esempio, negli anni immediatamente precedenti vennero pubblicati cantici in onore di Papa Pio XI ad opera di Rossini e Tiberio Natalucci, mentre Gaetano Magazzari ne produsse più d’uno; al pontefice eletto nel giugno del 1846 si rivolsero ben presto le aspettative dei liberali e la pubblicazione di inni patriottici ebbe un notevole incremento dopo le Cinque giornate. Il cospicuo numero di edizioni testimoniato dal cataloghi Ricordi a cui oggi non fa riscontro una loro presenza nelle biblioteche si spiega nel fatto che, al ripresentarsi del governo asburgico a Milano, furono distrutte le lastre tipografiche. Questa misura non impedì la circolazione di canti patriottici, il cui lessico era riconoscibilissimo nell’«Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia» compilata dallo stesso Mazzini, mentre l’ingrediente sonoro ricalcava (o forse contaminava?) le invocazioni del popolo pronunciate fra le scene teatrali. La diffusione di questi motivi, portatori di ideali di nazione e indipendenza, è dunque divenuta ciò che tutti sappiamo: un documento storico tra i più espliciti, la testimonianza di un senso comune del Risorgimento che permeava l’Italia tutta e cui i musicisti impegnati non potevano esimersi. Un codice fatto di immagini ricorrenti, di vicende esemplari, di simboli e di una permeante fervida fede. Di questi cori, quello che presso di noi è un indiscusso monumento nazionale’ è tuttora capace di generare dubbi e spunti di discussione. Anzitutto per i suoi connotati sonori: come si può ammettere che una pagina così lenta e cullante, dai toni soffusi e ricamata di sottili richiami suggeriti dall’orchestra abbia potuto staccarsi così spesso dal suo alveo e diventare una sorta di grido di battaglia? Per spiegarsi, almeno parzialmente, questo primo dilemma sarà opportuno restituire il diamante al gioiello a cui appartiene: la pacata sospensione di «Va pensiero» è anche un’anticipazione drammatica della tremenda profezia di Zaccaria, tanto violenta poiché è preceduta da questo soffuso canto degli esuli ebrei. A questo si aggiunga che la reazione ‘centrifuga’ capace di rendere questo brano immensamente popolare non aveva avuto un effetto immediato, né che il suo compositore si era chiaramente esposto sul suo messaggio ideologico, giacché risalgono alla fine degli anni Settanta certe note autobiografiche dirette a Giulio Ricordi in cui Verdi affronta in modo decisivo l’argomento. Oggi l’immagine di un Verdi ‘patriota’ appare come frutto di una speculazione tardo-ottocentesca, che è però restata viva a lungo. Poco a poco la critica musicale è stata in grado di operare un restauro attraverso l’allargamento dello spettro analitico, ad esempio ricercando il confronto con partiture di autori semisconosciuti o affiancando all’esame del testo musicale quello della produzione letteraria di quei tempi. Quel «Va pensiero», quello estratto dalla sua sede originaria, è dunque divenuto mito in un secondo momento e quella stessa estrapolazione che ci nega il suo senso drammaturgico può però giungere a svelare quello drammatico. Certo provocando un autentico cambio di significato, ma sempre offrendoci una lezione di bellezza immensa. Perciò il coro non cessi di intonarlo ogni volta che la sua anima lo richiederà.
* Sara Dieci è organista e clavicembalista, attiva prevalentemente
nell’esecuzione di musiche dell’età barocca; ha effettuato,
fra le altre, registrazioni di opere di Vivaldi, Monteverdi,
Perti, Pistocchi. Nella ricerca musicologica si rivolge soprattutto
alla cantata da camera e tiene regolarmente incontri
di divulgazione sulla storia e la cultura musicale. Insegna al
conservatorio “Bruno Maderna” di Cesena.