L’equivoco è tanto evidente quanto elementare: a voler promuovere lo studio della polifonia e del canto gregoriano occorrono scholae ben preparate, in grado di affrontare repertori propri per “cantare le liturgie” (anziché “ri-animarle”). Oppure, se si vuole un’assemblea canterina, sarà necessario pazientemente ripetere un limitato repertorio monodico a costo di rinunciare sia alla qualità delle esecuzioni che alla pertinenza formale e testuale, rispetto ai contesti, dei brani. Tutte le altre situazioni intermedie rientrano in una logica di audace equilibrismo.

Se poi ci si confronta con le direttive sul ruolo della musica (e specialmente del canto) nella liturgia, s’incontrano non poche contraddizioni tra le quali la più sorprendente è contenuta nella Costituzione Sacrosanctum Concilium, uscita dal Concilio Vaticano II, dove si trova scritto sia che “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica” (art. 116); sia l’invito a promuovere “con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli” (art. 118).

Su questi punti da anni si confrontano cercando soluzioni – e dovranno continuare a farlo – coristi e direttori, organisti, collaboratori pastorali ed esperti liturgisti, uomini di chiesa e grandi musicisti; mentre blog e quotidiani locali ci informano di cori allontanati dal servizio poiché il loro apporto cólto alla liturgia viene percepito, con malcelata insofferenza, troppo “distante” dalle esigenze di partecipazione assembleare, vista la complessità delle composizioni che, con i loro testi latini, è ritenuta di comprensione troppo ardua dalla maggioranza dei fedeli (nonostante gli indubitabili sforzi!).

Prima di tutto c’è chi spara a zero su quello che viene definito uno “sfacelo liturgico”, come il noto cembalista e compositore Bepi De Marzi che, in un articolo su Il Giornale di Vicenza del dicembre 2013, afferma: “Animare la messa significa delegare qualcuno che in chiesa suoni e canti, con testi quasi sempre casuali, ‘da animazione’ che vuol dire anche ‘da intrattenimento’, mentre nella navata tutti tacciono e, per lo più, nemmeno pregano. E questo degrado lo si può notare, ufficializzato per l’Italia intera, ogni domenica nelle due messe televisive”. Descrive poi con toni grotteschi “meste processioni con chierichetti o chiericoni impacciati, spaesati nella recita, nonni-diaconi con stola a bandoliera, gruppi corali improvvisati, quasi sempre formati da voci senili che divagano sussiegose tra le canzoni da campeggio o da devozioni turistiche: le donne con l’immancabile sciarpetta colorata”[1]. Sempre De Marzi (in un’intervista concessa alla rivista di U.S.C.I. Lombardia) cita anche un’affermazione lapidaria di Giovanni Testori: “Da un punto di vista musicale, la messa ha cominciato a commemorare se stessa”[2].

Anche il maestro Giannicola d’Amico[3] non rinuncia ad ironizzare sui numerosi abusi musicali (il catalogo di Leporello per lui sarebbe, al confronto, “una semplice giaculatoria”) commessi “all’ombra dell’onnipresente pastorale, gradatamente più antropocentrica”[4], mentre dissente con l’opinione diffusa secondo la quale la musica nella liturgia decadde “d’un colpo, negli anni del post-Concilio, per sopravvenuto difetto del ‘senso del sacro’ nel popolo e nei pastori”, ritenendo piuttosto che, semplicemente, “a molto clero, e di riflesso a tanta gente, purtroppo manca ormai il senso del ridicolo”[5]. E “ci manca solo che, per la Domenica del cieco nato, si canti Senza luce adattando il grande successo dei Dik Dik! D’altronde, oltre ad essere una bella canzone, aveva una parte organistica di accompagnamento veramente ben fatta. Meravigliosi anni Sessanta! Ma quando finiranno?”[6]

Visto che molti degli sforzi compiuti dal post-Concilio hanno sortito effetti tanto deludenti, che cosa dobbiamo dunque intendere per “partecipazione attiva”? Una risposta arriva dal maestro Fulvio Rampi[7], il quale ritiene l’odierna situazione nient’altro che il “frutto velenoso di un assemblearismo estremo e a tutti i costi”, dove “alla partecipazione si è sostituita l’omologazione e si è finito per depauperare ciò che l’ultimo Concilio aveva chiesto di arricchire”. E prosegue invitando a stigmatizzare “un grave errore concettuale: quello di assegnare una primazia al canto assembleare nel culto divino, contraddicendone clamorosamente la natura e la storia. Con ciò non viene affatto mortificato il ruolo dell’assemblea, la cui partecipazione attiva va intesa e vissuta su un piano assai più alto di un banale attivismo liturgico. Tale consapevolezza si sostanzia in spazi riservati e competenze specifiche, in verità normale regola della liturgia, che a un patologico assemblearismo sostituisce il valore e la ‘sfida’ della ministerialità”[8].

Anche papa Benedetto XVI, nel saggio Lodate Dio con arte[9], analizza con grande lucidità il rapporto musica-liturgia, dimostrandosi un innovatore cosciente di una Tradizione con la quale è sempre opportuno mantenere un dialogo. Ratzinger dapprima legge il presente individuandovi, da una parte, un estetismo fine a se stesso (che vede l’arte come unico scopo) e, dall’altra, un pragmatismo pastorale altrettanto fine a se stesso, finendo poi per affermare fortemente che “la banalizzazione della fede non è una nuova inculturazione, ma il rinnegamento della sua cultura e la prostituzione con l’incultura”[10] Ci invita quindi a cercare nella continuità della fede il giusto mezzo tra questi due estremi.

Che fare dunque? Sembra necessario che le inascoltate realtà laiche si muniscano di paziente disponibilità e che le rispettive realtà religiose si rimettano a dar fiducia alla coralità cólta (negli ultimi anni giunta a livelli davvero molto alti) riconoscendo che essa rimane senza dubbio l’unica strada per tentare di risollevare le sorti della musica liturgica.

Andrà poi affrontato il problema del repertorio. Quando i documenti parlano di apertura a nuove composizioni, a cosa alludono? In quale modo è conciliabile il canto assembleare con la composizione polifonica in stile contemporaneo? Quali potrebbero essere i modelli cui ispirare inedite partiture? Fatto salvo che cantare polifonia e canto gregoriano è una scelta che, già in se stessa, è una risposta, il maestro Lorenzo Donati[11] riassume in tre punti cosa è necessario tener presente volendo scrivere questo tipo di musica e cioè: “Accettare che la scrittura per la liturgia deve considerare le esigenze della stessa, senza sentirsi sminuiti artisticamente. Non avere paura di innovare, nel rispetto dei tempi e dei momenti liturgici. Comprendere che il Concilio Vaticano II ha aperto delle porte e ne ha chiuse pochissime” (ritenendo comunque che, a chiuderle ai compositori, siano state “solo l’ignoranza e la pigrizia”)[12].

Mentre mons. Domenico Bartolucci[13] affermò amareggiato che “Non è una questione d’ingegno: non c’è più l’ambiente. La colpa non è dei musicisti, ma di quello che si richiede loro”[14], mons. Valentino Miserachs Grau[15] indica interessanti percorsi: “La riscoperta del canto gregoriano è condizione indispensabile per ridare dignità al canto liturgico. E non soltanto come repertorio valido in se stesso, ma anche come esempio e sorgente di ispirazione per le nuove composizioni, come nel caso dei grandi polifonisti del periodo rinascimentale che, seguendo i postulati del concilio tridentino, fecero della tematica gregoriana la struttura portante delle loro meravigliose composizioni”[16].

Pare dunque che idee, capacità e disponibilità non manchino e che non ci resti che attendere un segnale decisivo per coordinarle e metterle in campo. Diversamente si rischierebbe di pensarla come il grande Carlo Maria Giulini che, alcuni anni fa ormai novantenne, alla domanda “Cosa pensa dei canti che vengono eseguiti durante le celebrazioni liturgiche?”, rispose perentorio: “Aspetto che finiscano!”[17].

Abbiamo così inaugurato “Musica dell’anima”, la nuova rubrica che “FarCoro” ha deciso di dedicare all’impegno che molti dei suoi lettori continuano a dedicare alla Musica Liturgica.

[1] Bepi De Marzi, Il Gruppo Cantasuona, sfacelo liturgico, “Il Giornale di Vicenza”, 11 dicembre 2013.

[2] Intervista a Bepi de Marzi, Fra sacro e popolare, “A più voci”, 2014, n. 1.

[3] Pianista, organista, direttore di coro, docente di Conservatorio, ha pubblicato numerosi articoli inerenti al canto liturgico.

[4] Giannicola D’Amico, Sono solo canzonette. Breve viaggio tra abusi e kitsch, “Il Timone”, www.iltimone.org/media/documenti/musica_liturgica.pdf, p. 12.

[5] Giannicola D’Amico, ibidem, pp. 15-16.

[6] Giannicola D’Amico, Secolarismo musicale, “Il Timone”, n. 103, anno XIII, maggio 2011, p. 47.

7 Gregorianista di fama internazionale, direttore di coro impegnato da lungo tempo nella Musica Liturgica, docente di Prepolifonia presso il Conservatorio di Torino e direttore del gruppo professionale a voci virili Cantori Gregoriani.

[8] Fulvio Rampi, Inni per l’assemblea liturgica, Elledici, 2013, p. 5.

[9] Joseph Ratzinger Benedetto XVI, Lodate Dio con arte, Marcianum Press, 2010 [e-book].

[10] Joseph Ratzinger Benedetto XVI, ibidem, Parte prima, cap. 3. 4b.

[11] Docente di Composizione Liturgica presso il Conservatorio di Trento nell’unico biennio accademico che la prevede.

[12] Da uno scambio di mail tra Luca Buzzavi e Lorenzo Donati del 30/1/2016.

[13] Direttore della Cappella Musicale Sistina dal 1956 al 1997.

[14] Riccardo Lenzi, Quando il cantore era come un sacerdote, Intervista a Domenico Bartolucci, “L’Espresso”, 2006, n. 29.

[15] Preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma dal 1995 al 2012.

[16] Valentino Miserachs Grau, Implicazioni di un centenario: il Pontificio Istituto di Musica Sacra (1911-2011), Roma, 2011.

[17] Cristina Uguccioni, Il soffio di Dio nella bacchetta, Intervista a Carlo Maria Giulini, “Jesus”, gennaio 2005, n. 1, p. 80.