According to the Zohar, there is a Temple in Heaven that is opened only through song.

Indeed, the Talmud scorns those who read the Holy Scriptures without melody and study its words without singing.

(Irene Heskes, Passport to Jewish Music

Its History, Traditions, and Culture)

Si potrebbe quasi pensare di far partire un discorso sulla musica ebraica dalle musiche del gruppo di Woody Allen (New Orleans Jazz Band) con lui stesso al clarinetto, oppure da un altro clarinetto, quello che tanto caratterizza la seconda Sinfonia (“Risurrezione”) di Gustav Mahler, e che fa acquistare un retroterra ebraico a quel cristianesimo oramai trionfante tra Sant’Antonio che predica ai pesci e l’esultanza finale “Aufersth’en”. O ancora, potremmo partire all’incontrario, dal disgusto che aveva Richard Wagner per la musica ebraica e i musicisti ebrei, finito nel pamphlet Il giudaismo nella musica.

In verità la storia parte da ben più lontano. Già nei Salmi si trovano inni e canti, cetre e timpani, rumori festosi e lodi cantate. Il mondo antico, spesso lo dimentichiamo, è un mondo molto musicale, dove la solennità e la festa sono occupati dal canto e dalla musica, dove non viene lasciato nulla al caso. Gli ebrei non sfuggono certo a questa regola, e la Bibbia ne è l’antica prova.

Fondamentale è il libro biblico dei Salmi (in ebraico mīzmōr מזמור) dove ogni salmo è una preghiera cantata, e spesso vi sono indicazioni sulla strumentazione o esecuzione: “per strumenti a corda”, “per flauti”, “sull’ottava”. Quando il (primo) tempio era in auge (circa nel 1000 a.C.), si potevano contare cori formati da centinaia (forse migliaia) di cantori, che intonavano i salmi, accompagnati da orchestre fino a dodici strumenti. Il tempio però ebbe un declino grazie soprattutto alla deportazione di Nabucodonosor, e l’azione musicale cadde in disuso con esso. La rifioritura avvenne dopo il IV sec a.C. con il secondo tempio, e ci è testimoniato da opere quali Il Cantico dei Cantici e nuove fioriture di salmi. In quest’epoca del secondo tempio sembra essere fiorita una più ricca cultura strumentale ed essersi sviluppato un virtuosismo canoro da parte dei Leviti (i primi assistenti al culto). Come vedremo tra poco, il tempio fu distrutto una seconda volta definitivamente, e la sinagoga, con la proclamazione della parola, divenne il fulcro della vita religiosa, con a capo il rabbino, nuova figura della tarda antichità che andò a sostituire i sacerdoti. Emersero pertanto due modi di cantare: la salmodia e la cantillazione. Mentre il primo è proprio dei salmi, il secondo è per la lettura di tutta la Bibbia in generale. La salmodia avveniva attorno ad una nota fissa di recita e poteva essere antifonale oppure responsoriale; tutto ciò era facilitato dalla struttura stessa dei salmi, costruiti di solito con versi che sono suddivisibili in due emistichi, i quali costituiscono l’unità minima sulla quale basare l’intero canto. Per quanto riguarda gli strumenti musicali, anche in base a molti problemi teologici sorti nel I sec. d.C. nella redazione della mishna (un’opera regolativa molto importante fino ad oggi), ci si attenne al solo uso dello shofar, una sorta di corno proveniente dal corno di montone, ancora oggi utilizzato nelle feste di Rosh haShana e Yom Kippur (il capodanno ebraico e la festa dell’espiazione, circa a metà settembre).

Dopo queste linee antiche e generali, di qui in poi necessitiamo del contesto storico per comprendere gli sviluppi.

Una data fondamentale per il mondo ebraico è il 70 d.C., quando i romani sotto il comandante Tito distrussero il grande tempio di Gerusalemme e iniziò la diaspora, cioè il movimento (già cominciato parzialmente tempo prima con le comunità di Alessandria e Roma) che porterà alla dispersione degli ebrei nel mondo intero. In questi tempi di dispersione, si andò a fissare il testo biblico come noi lo conosciamo oggi: la bibbia fu divisa in tre grandi parti, cioè la Torah (Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio, in una parola Pentateuco, la parte più importante in assoluto, che la tradizione vuole scritta da Mosé in persona), i Profeti, e gli Scritti Storici (l’acronimo è תנך da leggersi tanakh). Questo testo, a quest’epoca scritto solo con consonanti (tutte le lingue semitiche arabo, ebraico, aramaico, siriaco, etc., sono consonantiche), fu vocalizzato dal VI sec. in poi con dei puntini e lineette sotto e sopra le lettere; oltre alle vocali però si misero anche altri segni diacritici, che indicano la conduzione della frase in senso sintattico (una pausa più o meno lunga, come la nostra punteggiatura) ma anche in senso musicale, indicando quindi le differenti intonazioni per cantillare il tal testo, e furono chiamati teamìm. La tradizione era soltanto orale, e pertanto tali punti adiastematici (cioè in campo aperto, senza referenze precise per le altezze delle note, come succede nel canto gregoriano) servivano a ricordare una certa melodia già imparata dalla viva voce del maestro. Oltre alla salmodia e alla cantillazione, vi era anche un canto liturgico, chiamato nusach, del quale però non abbiamo molte informazioni; questi però è stato poi sviluppato, come vedremo, nelle tradizioni sefardite e ashkenazite.

Possiamo dunque ritornare alla diaspora: in ogni luogo dove gli ebrei andarono, portarono anche la loro cantillazione, ma essa veniva interpretata ed era influenzata dal contesto circostante. Qui vi è forse il vero punto, cioè la convivenza con gli altri, un mondo sempre in connessione, a contatto con altre culture; un mondo ebraico che da un certo punto in avanti si è frammentato in mille mondi, principalmente raggruppabili in tre: i sefarditi, cioè gli ebrei della Spagna e dell’Europa sud occidentale (Italia compresa); gli ashkenaziti, cioè gli ebrei dell’Europa orientale, dalla Francia/Germania in poi; infine gli ebrei rimasti in medio-oriente. Ognuno di questi gruppi si è inserito nelle proprie terre, ha costruito i propri riti, il proprio vestiario, le proprie tradizioni, musica compresa. È forse impossibile dunque pensare alla musica ebraica come ad un oggetto chiuso, atemporale ed ermetico: esso è definibile in base al contesto nel quale si è trovato a formarsi storicamente, e anche la cantillazione della Bibbia, come noi la possiamo conoscere, è definibile solo tenendo conto del contesto ashkenazita (come le trascrizioni del 1518 di Reuchlin) o Sefardita (come le trascrizioni del 1650 di Kircher). Un esperimento di unificazione interessante può essere forse quello di Benedetto Marcello (1686-1739), che vivendo a Venezia, crogiolo di culture orientali diverse, poté vedere con i propri occhi le tradizioni ebraiche sefardite e ashkenazite in un’unica città: egli trascrisse alcuni salmi di queste due differenti culture, entrambe ebraiche, testimoniando ancora una volta la convivenza delle comunità ebraiche in contesti maggiormente cristiani.

Non potendo fare discorsi troppo generali, infatti essi porterebbero a erronee generalizzazioni, bisogna trattare la musica ebraica sotto due aspetti: quello sefardita e quello ashkenazita.

La musica sefardita

La cultura ebraica sefardita nacque e si sviluppò nella penisola iberica (chiamata infatti Sepharad). In particolare, dal VII sec. in avanti la convivenza fu con i governanti arabi, che regnarono fino all’opera di reconquista, conclusasi con la presa di Cordoba nel 1492. Questo fu però anche l’annus horribilis per le comunità ebraiche: i Re Cattolici, in particolare gli ultimi due Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona, vollero espellere anche gli ebrei, per rendere totalmente cristiana la terra iberica. Di qui pertanto gli ebrei partirono per le Americhe (dove fondarono i primi insediamenti ebraici nel nuovo continente), ma soprattutto per l’Europa centrale (Paesi Bassi e Germania) e le coste del Mediterraneo meridionale, ancora sotto il governo degli arabi. In questi luoghi importarono tutto il loro bagaglio culturale: le tradizioni melodiche modali (indipendenti dai modi gregoriani o greci) e quelle più recenti (XIV-XV sec.) in modo maggiore e minore, le poesie sacre fiorite nel periodo d’oro (X-XV sec.), e le poesie profane, la loro lingua (il famoso ladino, all’epoca scritto in caratteri ebraici, e chiamato anche giudeo-spagnolo), etcetera. Il nusach, cioè il canto liturgico, non emerse in virtuosismi, quanto piuttosto in una corretta pronuncia del testo ebraico, senza enfatizzare troppo le vocali. Forti influenze e mescolanze avvennero con la musica araba, e anche la poesia risentì della nuova poetica in lingua araba, con nuove regole stabilitesi nel IX-X sec. circa.

La musica ashkenazita

Conosciuta meglio come musica yiddish, oggi è la musica più conosciuta al di fuori delle comunità ebraiche. Gli ashkenaziti si formarono nella zona dell’Alto Reno, nella Germania occidentale, per poi espandersi in tutta l’Europa centrale e settentrionale, fino ad arrivare nelle Americhe nel XIX secolo (e in effetti possiamo constatare una cultura yiddish doppia: quella rhenana e una quella polacca). La lingua, l’yiddish, è rimasta fino ai giorni, ed è un derivato della lingua tedesca scritto in caratteri ebraici; l’yiddish ha avuto nel XX sec. un grande incremento con la proliferazione di molti scrittori di romanzi, tra i quali Isaac Bashevis Singer, che si guadagnò il premio Nobel per la letteratura nel 1978. La cultura yiddish più che rifarsi al medioevo, ha radici riscontrabili nel rinascimento, e risulta meno arcaica, anche nelle melodie, rispetto alla musica sefardita. Il periodo d’oro fu nella Polonia e Paesi Baltici nel XIX sec. Diversamente dalla cultura sefardita, si affermò la preminenza del cantore solista, che improvvisa in toni virtuosistici. Tipiche di questo periodo sono melodie chiamate misinai, composte in Francia e Germania settentrionale tra XII e XVI sec. e utilizzate perlopiù in contesti solenni e celebrativi. Kol nidrei, una melodia per la festa di Yom Kippur, fu ritenuta così importante da essere utilizzata da Max Bruch (1838-1920) per un pezzo chiamato proprio Kol nidrei composto nel 1880 e avente in organico un violoncello solista e l’orchestra sinfonica.

Conclusioni

Quindi che cos’è il canto ebraico? È quello composto da ebrei? In tal caso, solo per restare tra i personaggi celebri degli ultimi duecento anni, bisognerà far riferimento a Felix Mendelssohn Bartholdy e Gustav Mahler, ad Arnold Schönberg e Leonard Bernstein. Vengono però a sovrapporsi diversi problemi: Mendelssohn e Mahler non furono totalmente ebrei ma cristiani, il primo protestante (e come non ricordare la sua seconda sinfonia dedicata alla riforma luterana?) e il secondo cattolico (con la seconda sinfonia “Risurrezione” e l’ottava che contiene il “Veni Creator Spiritus”); Leonard Bernstein (che non si convertì mai) compose anch’egli una messa, non eseguibile in chiesa, ma pur sempre in quello stile e forma. Bisognerebbe dunque guardare alla musica in “stile ebraico”, quindi anche a composizioni di Maurice Ravel, Sergey Prokofiev? Si può far notare a questo punto che le musiche di Mendelssohn e Meyerbeer (i due più famosi compositori ebrei dell’800) non hanno alcuna reminiscenza ebraica e che invece in altri autori, come il sopracitato Ravel, vi compaiono temi ebraici grazie alla popolarità che conquistarono dalla seconda metà dell’800 in poi le comunità ebraiche, in particolare yiddish, grazie all’assimilazione voluta (anche) dall’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe.

Ritornando nella tarda-antichità, il canto sinagogale influenzò certamente le origini del canto cristiano; già nei vangeli vi è scritto che i discepoli e Gesù “cantarono l’inno” (Mt 26,30) dopo il pasto, poiché Gesù stesso seguiva le prescrizioni ebraiche, entro le quali era previsto il canto. La musica della sinagoga pertanto influenzò anche le origini del canto occidentale, cioè il canto della liturgia cristiana, il canto gregoriano. Possiamo vedere leggeri indizi qua e là, come le diverse accentuazioni delle parole ebraiche quali “Halleluja” o “Jerusalem”, che possono seguire l’accentuazione latina oppure quella ebraica, con probabili rimandi ad antiche tradizioni ebraiche; altra derivazione nel canto gregoriano sono gli jubilus, lunghissimi melismi vocalici senza testo ricordati già nel IV sec. da Agostino di Ippona parlando delle opere di Ambrogio di Milano. Una storia di connessioni fin da tempi antichi e fortemente caratterizzata, dal medioevo in poi, dalle sue due sfaccettature, quella sefardita e quella ashkenazita; e condizionata anche dalla cultura nella quale vive, e della quale si nutre. Il processo di assimilazione delle comunità ebraiche in Europa fu un importante movimento culturale, che produsse crasi inaspettate. In studi recenti si è venuto a conoscenza di melodie comuni agli antichi minnesinger tedeschi e ai misinai ashkenaziti.

Un altro caso sorprendete sono i dipinti di Marc Chagall, un artista profondamente colpito dalla cultura musicale delle sue origini ebraiche orientali e dalla cultura europea quale Mozart; ebbene i suoi dipinti raffigurano addirittura un Crocifisso, ma non dimentico delle sue origini russe, dipinse anche Il violinista sul tetto, uno strumento (hassidico!) col quale “incontrare Dio e i grandi segreti della vita e della morte”.