Le Domenicane bolognesi

Fig. 1 – Bologna, Museo Civico Medievale, Ms. 521, c. 1v, Cristo benedice due monache domenicane

Gli studi sul canto gregoriano riguardano prevalentemente gli usi e le consuetudini liturgiche e musicali di comunità religiose maschili, tanto che per parecchio tempo si è creduto fosse praticato esclusivamente da uomini. Ancora in tempi recenti alcuni testi fanno esclusivo riferimento alle voci virili e non sempre sono state benevolmente accolte esecuzioni del repertorio gregoriano da parte di cori femminili. La ricerca storica, basata principalmente sull’esame di manoscritti musicali e delle regole emanate dai vari ordini religiosi, ha messo in luce il ruolo centrale del canto all’interno delle istituzioni femminili medievali. La preghiera cantata era ritenuta la più efficace presso Dio e ne viene rimarcata l’importanza come pratica quotidiana nelle principali regole monastiche femminili susseguitesi nel corso dei secoli, a partire da quella di sant’Agostino (354-430). Al canto partecipavano di solito solo le monache coriste, di nobili natali, mentre le famulae o servientes, in seguito denominate converse, provenienti dai ceti meno abbienti, se illetterate, erano esonerate dall’ufficio divino ed erano tenute alla sola orazione mentale e alla recita di un certo numero di preghiere conosciute1. La vita claustrale offrì alla monaca corista la possibilità di studiare, di acquisire le abilità musicali necessarie per partecipare con competenza al canto e talvolta anche di comporre pezzi destinati al culto. Sopravvivono alla storia solo i nomi di celebri figure quali Ildegarda di Bingen (1098-1179) e Herrad di Landsberg (ca. 1130-1195), badessa di Hohenburg, che si sono dedicate alla musica in modo inconsueto e singolare, ma al di là di questi casi eccezionali, il canto era di norma praticato nei monasteri femminili, principalmente nell’ufficio divino e nella messa. Per assolvere il servizio liturgico le varie comunità monastiche disponevano di ricche dotazioni librarie2, che nel corso dei secoli sono state smembrate, disperse e talvolta distrutte.   

Una ricca collezione di libri corali provenienti da istituzioni religiose femminili è rappresentata dai manoscritti appartenuti ai monasteri domenicani bolognesi di Sant’Agnese e Santa Maria Maddalena di Val di Pietra.

Fig. 2 – Bologna, Museo Civico Medievale, Ms. 521, c. 54v, san Domenico benedice una monaca domenicana proabilmente Diana d’Andalò

San Domenico, poco prima della morte, avvenuta a Bologna nel 1221, aveva espresso il desiderio di edificare in città una casa per le monache. Il progetto venne realizzato due anni dopo, nel 1223, dal suo successore Giordano di Sassonia e da Diana, della ricca famiglia degli Andalò, che fondarono il monastero di Sant’Agnese3, quarta comunità domenicana femminile in Europa dopo Prouille, Madrid e Roma, modello per la nascita di altre comunità femminili bolognesi dell’ordine4: tra queste Santa Maria Maddalena di Val di Pietra, che sorse verso la fine del XIII secolo e divenne celebre per il miracolo eucaristico della beata Imelda Lambertini5. Entrambi i monasteri possedevano una ricca dotazione di libri corali, dispersa nel corso del tempo, soprattutto a seguito della soppressione delle due istituzioni religiose in epoca napoleonica.

Le peculiarità liturgiche, gli studi sulle miniature6, alcuni elementi relativi alla storia delle collezioni bolognesi, nonchè le rare note di possesso hanno consentito di ricostruire gran parte del loro patrimonio librario. Si tratta di 31 manoscritti di largo formato, prevalentemente graduali e antifonari, prodotti tra la seconda metà del XIII e la fine del XVI secolo, custoditi in prevalenza a Bologna al Museo Civico Medievale e al Museo della Musica con qualche volume, finito nelle mani di collezionisti, poi approdato alla Biblioteca dell’Archiginnasio, alla Biblioteca Estense di Modena e alla Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma7.

Fig. 3 – Bologna, Museo Civico Medievale, Ms. 519 c 228r, Cristo risorto appare alla Maddalena

Un’indagine approfondita sul loro contenuto ha permesso di constatare che i canti previsti per la liturgia della messa e dell’ufficio divino sono gli stessi delle comunità maschili:  le monache domenicane cantavano tanto quanto i confratelli, anzi avevano il compito di sostenere con la preghiera cantata la loro attività di apostolato. La ricerca ha messo in luce inoltre una certa uniformità in materia liturgica, derivante dalla rigidità dell’ordine domenicano al proposito. Infatti, verso la metà del Duecento, sotto il generalato di Umberto di Romans, era stato emanato un codice, chiamato oggi comunemente archetipo domenicano, che doveva costituire il prototipo dei libri liturgici prodotti per le varie comunità. Nonostante una prevalente uniformità con l’archetipo, sono emersi nei codici dei due monasteri peculiarità del culto di precisi santi, espressi soprattutto nella produzione di nuovi uffici e sequenze. I manoscritti del monastero di Santa Maria Maddalena contengono cinque uffici inediti, mentre due sono presenti nei codici di Sant’Agnese. Si tratta di raccolte di responsori e antifone in versi, in prosa o ibridi (versi e prosa), che spesso, con toni enfatici, descrivono la figura e la biografia di santi, cui erano riservati culti peculiari. Particolarmente interessante, per le implicazioni storiche e in quanto interamente in versi, è l’ufficio della Traslazione di santa Maria Maddalena, contenuto nel ms. 519 del Museo Medievale, relativo alla vicenda del presunto ritrovamento del corpo della santa da parte di Carlo d’Angiò nel 1279.

La creatività delle monache bolognesi si esprime anche nel genere della sequenza, particolarmente idoneo all’esaltazione dei santi che onoravano una chiesa o una terra con imprese e miracoli. Le sequenze domenicane contenute nell’archetipo sono 27, di cui 16 dedicate alla Vergine, particolarmente venerata presso gli ordini mendicanti nel secolo XIII. Nei codici dei due monasteri si riscontra la presenza di tutte le 27 sequenze stabilite, ma l’esigenza di ampliamento del repertorio e il desiderio di solennizzare in modo originale alcune festività ha portato all’introduzione di altri brani non ufficialmente richiesti: sette in uso presso la comunità di Sant’Agnese e altri 16 presso quella di Santa Maria Maddalena, cui si aggiunge il caso particolare dello Stabat Mater che, in base agli studi compiuti da Cesarino Ruini8, costituisce una delle prime attestazioni del celebre testo presentato nella forma della sequenza. In base al confronto con i principali repertori di studio, alcune di queste sequenze sono risultate di nuova invenzione e probabilmente erano cantate solo a Bologna: tre in Sant’Sant’Agnese (due per la protettrice e una per sant’Orsola e compagne) e sette in Santa Maria Maddalena di Val di Pietra (una per la protettrice, tre per san Giovanni Battista e tre per san Giovanni Evangelista).

Fig. 4 – Bologna, Museo Civico Medievale, Ms. 521, c. 230v, sant’Agnese.

Tutte prodotte fra i secoli XIII e XIV, si configurano strutturalmente vicine alla forma dell’inno, con strofe musicalmente uguali a due a due, ad eccezione di una con melodia autonoma, collocata in varia posizione. Il rinnovamento dei testi non sempre corrisponde ad una originalità melodica e sono presenti situazioni di adattamento del nuovo testo a melodie preesistenti, secondo una prassi all’epoca diffusissima: è il caso di alcune sequenze costruite sulla melodia della nota In caelesti ierarchia, dedicata a san Domenico. Tra queste Hodierne lux diei, in onore di sant’Agnese, tramandata da due codici del Museo Medievale, il ms. 521 databile tra la fine del Duecento e gli inizi Trecento (fig. 4), e il ms. 595 cinquecentesco, a testimonianza del perdurare della tradizione a distanza di secoli. Quest’ultimo codice, riccamente decorato, è dedicato alla messa e all’ufficio di sant’Agnese, protettrice dell’omonima comunità monastica, e contiene, tra le altre novità, uno sconosciuto versetto alleluiatico Post festa natalicia, anch’esso, come la sequenza, già cantato nel monastero sul finire del secolo XIII. Il versetto alleluiatico, che tra le parti della messa si presta maggiormente ad essere variato, in questo periodo talvolta diventa in versi, si presenta di estensione maggiore al consueto ed esprime, come la sequenza e l’ufficio, la particolare devozione per un santo. Quattro sono i versetti nuovi cantati in Sant’Agnese, dieci in Santa Maria Maddalena. Complessivamente emerge dunque nei manoscritti appartenuti ai due monasteri una certa varietà e un desiderio di ampliare il repertorio proposto dall’archetipo. La nuova produzione di canti, oltre a testimoniare la creatività delle monache bolognesi, conferma ancora una volta che il canto gregoriano, costituitosi a partire dall’epoca carolingia come un repertorio volto a garantire uniformità di liturgia e musica nelle diverse parti dell’impero, di fatto comprende anche brani peculiari, caratteristici solo di un’area geografica o di una istituzione religiosa, creati per sottolineare culti particolarmente sentiti, che attraverso la musica trovano la loro massima ricchezza espressiva9.

 

1. Cfr. Vincenza Musardo Talò, Il monachesimo femminile. La vita delle donne religiose nell’Occidente medievale, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006, p. 376.

2. Cfr. Giacomo Baroffio, I libri liturgici in uso presso comunità religiose femminili con un’appendice sulla benedizione della badessa, in Celesti sirene II, Musica e monachesimo dal Medioevo all’Ottocento, Atti del secondo seminario internazionale di studi svoltosi a San Severo di Puglia dall’11 al 13 ottobre 2013, a cura di Annamaria Bonsante e Roberto Matteo Pasquandrea, Foggia, Cafagna Editore, 2015 («Le vie dei suoni», 2), pp. 69-104.

3. Cfr. Maria Giovanna Cambria, Il monastero domenicano di Sant’Agnese in Bologna. Storia e Documenti, Bologna, Tipografia SAB, 1973.

4. Cfr. Gabriella Zarri, I monasteri femminili a Bologna tra il XIII e il XVII secolo, «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna», XXIV, 1973, pp. 133-223.

5. Sulla storia del monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra cfr. Tommaso Alfonsi, La beata Imelda Lambertini domenicana, Bologna, Tipografia Parma, 1927.

6. Fondamentali gli studi sulle miniature di Massimo Medica, Fabrizio Lollini e Silvia Battistini. Si citano in proposito tra gli altri Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna, catalogo della mostra (Bologna, 15 aprile – 16 luglio 2000), a cura di Massimo Medica, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 248-257, 365-371, 373-375 e 377-379 (schede di Fabrizio Lollini, Giovanni Valagussa e Simonetta Nicolini), e Massimo Medica, Libri miniati per le Domenicane di Bologna: committenti, co-pisti e miniatori tra XIII e XVI secolo, in Un Libro per le Domenicane. Il restau-ro del collettario duecentesco (ms. 612) del Museo Civico Medievale di Bologna, a cura di Massimo Medica, Padova, Nova Charta, 2011, pp. 45-61 con bibliografia precedente.

7. Cfr. Stefania Roncroffi, Psallite sapienter. Codici musicali delle Domenicane bolognesi, Firenze, Olschki, 2009 («Historiae Musicae Cultores», 118), da cui si sono attinte le informazioni per la stesura del presente articolo.

8.  Cfr. Cesarino Ruini, Un’antica versione dello Stabat Mater in un graduale delle Domenicane bolognesi, in «Deo è lo scrivano ch’el canto à ensegnato». Segni e simboli della musica al tempo di Jacopone. Atti del convegno svoltosi a Collazone il 7-8 luglio 2006, a cura di Ernesto Sergio Mainoldi e Stefania Vitale, «Philomusica on-line», 9/3, 2010, pp. 213-234.

9. I dati sui canti inediti e le loro caratteristiche sono tratti da Roncroffi, Psallite sapienter cit., pp. 73-82.

Si ringrazia il Museo Civico Medievale di Bologna per la gentile autorizzazione alla riproduzione delle immagini.