La parola designa il corpo, la sinfonia lo spirito, perché l’armonia celeste indica la divinità, la parola l’umanità del Figlio di Dio. Così si esprime Ildegarda di Bingen nell’ultima delle visioni contenute nella Scivias, parlando del canto. Come in Cristo vi sono due nature, quella umana e quella divina, così nel canto vi sono la parola e la musica: ed è quest’ultima a rappresentare la divinità. L’intuizione di Ildegarda può essere estesa a tutte le religioni: in tutte, la musica esercita, nella preghiera e nel culto, il ruolo di un linguaggio che apre la dimensione finita dell’umanità a quella infinita della divinità.
Nel tempo si è accumulato un enorme deposito di musica, che, sebbene non tutta utilizzabile ancor oggi in liturgia, resta un giacimento tra i più ricchi del nostro patrimonio culturale. La sua esecuzione è stata affidata prima ai cantori professionisti delle Cappelle, poi, col movimento ceciliano, sono nati i cori parrocchiali, oggi quasi ovunque un ricordo.
Lo stato della musica liturgica in Italia è, oggi, sotto gli occhi, anzi: nelle orecchie, di tutti. Ogni volta che si affronta il tema, si alzano barricate tra quanti invocano la bellezza della musica ben composta ed eseguita e quanti auspicano un maggior coinvolgimento dei fedeli nella liturgia, quasi che le due cose fossero contrapposte e non fosse vero che la bellezza è via a Dio, che la liturgia “è la bellezza della materia convocata a una trasfigurazione”, come scrisse Enzo Bianchi per un articolo comparso su Choraliter (n. 42, 2013).
Nei numeri scorsi abbiamo affrontato lateralmente l’argomento, intervistando i maestri di cappella delle cattedrali di Modena e di Reggio Emilia. In questo numero, Enrico Vercesi, che dirige la cappella della Madonna della Guardia a Tortona e che per l’ANDCI ha curato un convegno sul ruolo attuale del maestro di cappella, traccia un bilancio della situazione e indica alcune possibili vie per ridare la giusta dignità alla musica nella liturgia. È un tema sul quale può valere la pena di proseguire, se incontrerà l’interesse dei lettori.
Intanto, mentre scriviamo, i nostri pensieri sono rivolti a quanto sta avvenendo nell’est dell’Europa. Quando leggerete queste righe, saranno trascorsi un paio di mesi (uno dei quali è il tempo necessario alle patrie poste per recapitarvi Farcoro: sappiatelo). Non abbiamo idea, vista la velocità con cui evolve, di quale potrà essere, in quel momento, la situazione. Sono terre dove il canto corale è radicato nella cultura a tutti i livelli. Accanto alle vite umane, accanto al patrimonio artistico, anche il fragile mondo della coralità e il patrimonio immateriale del canto corale sono messi a rischio degli scontri.
Il protrarsi della guerra, il suo probabile estendersi, potrà portare a una grave crisi economica anche i paesi dove non si combatta militarmente: e le conseguenze non mancherebbero anche per il nostro mondo corale, già provato da due anni di pandemia. Dopo il tunnel del Covid, rischiamo di finire nel bunker della guerra. Ci sarà proprio bisogno di tutta la forza che ci viene dal canto, di quei legami che esso sa stringere nella comunità e, per chi crede, della preghiera che sa innalzare, per venirne fuori con un mondo migliore. Come diceva Rafael Alberti, creemos el hombre nuevo cantando.