“All’inizio fu la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio” Giovanni (1,1)

Se esaminiamo le fonti disponibili relative alle cosmogonie più antiche non possiamo che restare stupiti dall’incredibile concordanza delle stesse sulla creazione dell’universo. Tutte concordano nel riconoscere un evento sonoro alla base della creazione stessa e, in particolare, un suono parlato, o gridato, o cantato. Solo nel corso della creazione, il cui processo si presenta come una materializzazione progressiva dei raggi del suono primordiale, i suoni acquistano un significato preciso e rappresentano parole e frasi semanticamente determinate e, infine, cose tangibili. L’essenza di tutte le cose è quindi sonora e il mondo non appare altro che musica pietrificata. Per il poeta filosofo Anandavardhana (sec. IX) il puro suono ha un grado di essenza maggiore della parola detta e rappresenta l’anima della poesia. La frase va pronunciata correttamente, con la giusta intonazione poetica, ma essa è altresì un mezzo per dire qualcosa di più profondo, perché l’ineffabile può essere comunicato solo attraverso il tono fondamentale che pervade l’intera poesia e che desta in noi ciò cui la parola allude. Il rapporto fra suono e parola è quindi alla base stessa della creazione e pertanto anche della storia dell’uomo. Quanto esposto finora lascia anche intendere quanti siano i possibili legami che il linguaggio crea con la scienza: filosofia, linguistica, fisica, fonetica e così via. Tuttavia nessuno specialista giunge a conoscere tutto del linguaggio: le sue definizioni non sono che un semplice frammento della verità globale.

Umanesimo e Rinascimento

Per comprendere il complesso rapporto fra musica e poesia che avvenne fra il XV e il XVI secolo è necessario ricordare quali avvenimenti rivoluzionari avvennero in quel tempo. Nasce innanzitutto un nuovo concetto di scienza che affonda le sue origini non più nei testi sacri ma nel grande libro della natura. Liberi da vincoli teologici, i nuovi scienziati percorreranno strade nuove che indurranno le principali corti italiane a diventare centri innovativi per la cultura e per l’arte. Il rinnovamento culturale vedrà l’uomo al centro del progetto esistenziale, arbitro della propria vita (“Libero e sovrano artefice di se stesso” affermò Pico della Mirandola nel suo “De hominis dignitate”). Tuttavia quella che sarà la rivoluzione più importante sarà quella legata al recupero della filosofia neoplatonica e che vedrà la imitatio naturae come vera fonte di ispirazione per tutti gli artisti. In altre parole nel Rinascimento nasce la convinzione che l’arte (qualunque essa sia) debba cercare di aderire alla realtà circostante come una sorta di calco perfetto. Compito dell’artista è quello di riprodurre ciò che è estraneo alla coscienza nel modo più fedele possibile, affidando al simbolo il compito di esprimere i concetti più profondi. Questo porterà la musica a stabilire legami strettissimi con la retorica che resteranno anche nei secoli successivi. Già Guido d’Arezzo (ca. 992-1050) aveva affermato nel Micrologus l’importanza di sottolineare l’intimo legame fra testo e musica: “Sarà inoltre opportuno che l’effetto del canto vada ad imitare il senso degli avvenimenti, cosicchè i neumi siano gravi nelle cose tristi, giocondi nelle tranquille ed esultanti in quelle prospere”. Questi concetti vengono portati avanti per tutto il Quattrocento per giungere ad una autentica esplosione di trattati che esplorano i rapporti fra il testo e la sua realizzazione musicale. Fra i tanti teorici ecco la testimonianza di Niccolò Vicentino (1511-1576) ne “L’antica musica ridotta alla moderna prattica”:

“La musica fatta sopra le parole, non è fatta altro se non per esprimere il concetto, et le passioni et gli affetti di quelle con l’armonia; et se le parole parleranno di modestia, nella composizione si procederà modestamente et non infuriato; et d’allegrezza non si faccia la musica mesta; et se di mestizia non si componga allegra”.

Anche Gioseffo Zarlino (1517-1590) concorda nelle sue Istitutioni armoniche:

“Non sarà lecito al Musico di accompagnare queste due cose, cioè l’Harmonia e le Parole insieme, fuor di proposito”

 

Es. 1 Jacob Arcadelt: madrigale Da bei rami scendea

Es. 1 Jacob Arcadelt: madrigale Da bei rami scendea

Sarà proprio nel madrigale cinquecentesco che musica e poesia troveranno un connubio ideale e mai più superato. L’idea di trovare un modo di tradurre in musica il testo poetico condusse inevitabilmente agli inizi a soluzioni molto semplici se non addirittura ingenue. Basti pensare alla corrispondenza delle cadenze musicali alla struttura in rima delle poesie: nell’esempio riportato si noterà come alla rima baciata scendea-sedea corrisponde la stessa cadenza in sol, mentre quella grembo-nembo viene realizzata usando la stessa armonia di do. La stessa armonia viene quindi usata per sottolineare l’assonanza della rima poetica.

Allo stesso modo ecco comparire i primi disegni musicali che nei tempi moderni sono stati denominati madrigalismi. Si tratta di melodie il cui andamento grafico sul pentagramma tende a ricordare la parola in questione. Furono pertanto esplorate anche le possibilità pittoriche e figurative che i segni sul pentagramma erano in grado di offrire. Ecco così che una serie note ascendenti poteva associarsi a parole come “levarsi” o “sorge” mentre se discendenti potevano descrivere “terra”, “pianto” e così via. In un primo periodo addirittura termini come “notte” venivano realizzati annerendo le figure musicali, incuranti che l’effetto derivante fosse quello di velocizzare il passo in questione.

Es. 2a Luca Marenzio: madrigale Dolorosi martir

Es. 2a Luca Marenzio: madrigale Dolorosi martir

 

 

Es. 2b Luca Marenzio: mottetto Estote fortes

Es. 2c Cipriano De Rore: madrigale Ben qui si mostra ‘l ciel

Es. 2c Cipriano De Rore: madrigale Ben qui si mostra ‘l ciel

Oltre a una melodia che si svolge per gradi congiunti (curvilinea) troviamo anche esempi di linee spezzate, come nel seguente esempio che si trova nel madrigale “Ch’io t’ami” di Claudio Monteverdi:

Es. 3 Claudio Monteverdi: madrigale Ch’io t’ami

In realtà questo procedimento rientrava perfettamente nell’ideale estetico della imitatio naturae di cui si è accennato. Non solo musica quindi, ma anche disegno rafforzativo dell’immagine poetica stessa. Il tutto con lo scopo di coinvolgere l’esecutore al massimo grado di comprensione del testo consentendogli pertanto una immedesimazione totale con la scrittura poetico-musicale.

I testi poetici

All’inizio della sua fortuna il madrigale rinascimentale trovò il suo poeta preferito in Francesco Petrarca. La sua poesia affascinò i musicisti rinascimentali per la naturale musicalità dei suoi versi e le sue opere furono musicate innumerevoli volte. Ma fu in realtà Pietro Bembo a riproporre una lettura nuova dell’opera del poeta in una chiave che rappresentò la vera svolta nel modo in cui leggere i versi del Petrarca. Bembo si accorse che la naturale combinazione metrica unita al suono naturale di certe parole creava effetti di gravità, allegrezza, mestizia indipendentemente dal significato semantico delle parole stesse. La regolare successione di accenti tonici rendeva di per sé il verso allegro o triste, fino a intuire una sorta di fonosimbolismo del linguaggio nel quale è il suono delle parole a rendere l’immagine del testo. Basti pensare al celeberrimo “Chiare, fresche e dolc’acque” dove i suoni vocalici congiunti all’articolazione delle consonanti rievocano i suoni dello scorrere delle acque in un torrente. Chiunque in quel periodo si accingesse a scrivere versi lo faceva seguendo lo stile del Petrarca e dei suoi seguaci e questo fenomeno circolò anche fuori Italia. Tuttavia, nel corso del ‘500 i musicisti scelsero altri poeti a base delle loro composizioni. Questo si spiega con il crescente entusiasmo e del successo che i compositori ottennero nel riuscire a tradurre con artifici musicali quelli retorici del testo poetico. Il musico si sentiva pronto a nuove e sempre più appassionanti sfide: non più un semplice motivo-parola, ma una azione completa se non addirittura a una vera e propria scena rappresentativa. Ecco perché il teatro musicale nasce come esasperazione espressiva del madrigale. Il compositore necessita quindi di testi più “forti” , più intensi, più emozionanti. I nuovi poeti avranno i nomi di Ariosto, Tasso, Guarini, Rinuccini. La principale differenza fra gli argomenti e i sentimenti rinascimentali rispetto a quelli barocchi è l’intensità esasperata dei secondi rispetto ai primi. Non si tratta quindi di testi diversi, ma di maggiore intensità degli stessi: dal punto di vista compositivo questo provocherà innanzitutto una maggiore attenzione alla armonia rispetto alla melodia. Mentre quest’ultima otterrà una libertà sempre maggiore al fine di avvicinarla il più possibile alla naturale declamazione del testo, la componente armonica diventerà uno strumento formidabile per la velocità con la quale riesce a rappresentare una emozione. La melodia, nel suo sviluppo orizzontale, necessita ovviamente di un tempo maggiore rispetto al fulmineo impatto che un accordo può suscitare nelle orecchie dell’ascoltatore. è fondamentale ricordare che, al tempo, i poeti erano abituati a declamare in presenza della corte le loro opere e l’ascolto di queste letture non può non aver a sua volta condizionato i musici presenti che, a loro volta, cercarono tecniche compositive in grado di rendere l’idea di un tono declamatorio, non privo di enfasi retoriche. L’improvviso innalzarsi o inabissarsi della melodia non sarà più associato al significato della singola parola, ma a indicare un infervorarsi del tono declamatorio o l’improvviso sussurro con il quale viene enfatizzato il verso. Allo stesso modo la scelta delle tessiture (voci che declamano in acuto o al grave) suggerirà l’enfasi oratoria con la quale leggere il testo. Nel seguente celebre madrigale di Monteverdi appare chiaramente come la tessitura delle voci suggerisca quasi non solo l’espressione ma anche il volume della declamazione stessa (vedi Es. 4).

Es. 4 Claudio Monteverdi: madrigale Si ch’io vorrei morire

Es. 4 Claudio Monteverdi: madrigale Si ch’io vorrei morire

Nel corso dei decenni questo sarà ancora più evidente quando la melodia si arricchirà di ampi intervalli, quasi a suggerire un piano subito o una esclamazione improvvisa:

Es. 5 Sigismondo D’India: madrigale “Ferir quel petto, Silvio?”

Es. 5 Sigismondo D’India: madrigale “Ferir quel petto, Silvio?”

Il linguaggio usato dai compositori nel corso del XVI secolo si arricchirà di sempre più ardite soluzioni melodiche e armoniche pur di soddisfare le esigenze espressive dei testi poetici fino ad arrivare nei primi decenni del ‘600 a una grandissima libertà compositiva. Punto di svolta nella interpretazione musicale fu sicuramente l’avvento della celebre seconda prattica, così come la definì Monteverdi all’interno della famosa disputa con l’Artusi. Come è noto la rivoluzione del rapporto fra musica e testo avvenne rovesciando l’importanza fra le due forme di espressione. Se per molta parte del ‘500 fu la musica a essere protagonista delle attenzioni del compositore, ora le sue cure furono rivolte a mettere l’harmonia al servizio della parola. Nel 1600 viene dato alle stampe il trattato sotto forma di dialogo “L’Artusi overo le imperfettioni della moderna musica”. Da quello che si legge attraverso il dialogo di due gentiluomini, appare chiaro che il primo impatto con la materia sonora avvenga solo grazie alla percezione sensoriale dell’udito che la riceva e la valuta, mentre all’intelletto, attraverso l’analisi della forma e delle proporzioni, spetta il compito di confermare la bontà dell’impressione ricevuta. Ma la parte più interessante è quella dove si discute delle cosiddette imperfettioni della musica moderna:

“Heri (…) fui da alcuni Gentiluomini invitato a sentire certi madrigali nuovi (…) Fu taciuto il nome dell’autore: era la tessitura non ingrata, se bene (…) introduce nuove Regole, nuovi modi e nuova frase nel dire, sono però aspri, e all’udito poco piacevoli, né possono essere altrimenti; perché mentre si trasgrediscono le buone regole (…)”.

A questo punto vengono proposte alcune battute dei madrigali in questione a dimostrazione della avvenuta trasgressione delle buone regole fra le quali, in particolare, l’uso libero e spregiudicato delle dissonanze usate senza preparazione. Pur senza nominarlo è noto che il compositore in questione fosse Claudio Monteverdi. La risposta del compositore avvenne per bocca del fratello Giulio Cesare Monteverdi nella “Dichiarazione della Lettera stampata nel Quinto Libro de’ Madrigali” (1603). In essa si dichiara ufficialmente:

“Prima pratica intende che sia quella che versa intorno alla perfezione dell’armonia, ciè che considera l’armonia non comandata ma comandante, e non serva ma signora dell’oratione (…): Seconda prattica (…) intende che sia quella che versa intorno alla perfezione della melodia cioè che considera l’armonia comandata e non comandante e per signora dell’armonia pone l’oratione”.

Questa nuova poetica della musica determinerà un cambiamento irreversibile nel rapporto testo-musica non solo nella forma del madrigale. L’idea veramente rivoluzionaria consiste in una nuova estetica che ribalta il concetto del “bello” in arte. Quello che sarà apprezzato a partire dai primi anni del ‘600 non sarà più l’ordine del contrappunto, l’esattezza della forma o delle proporzioni, ma ciò che più si avvicina al realismo dell’emozione umana, senza finzioni e senza ipocrisie. Non poteva che essere Monteverdi l’autore dei “Madrigali guerrieri e amorosi” celebrati nell’Ottavo Libro. Sentimenti e situazioni come odio, rancore, guerra, dolore troveranno finalmente spazio e voce e per farlo sarà necessario ricorrere a dissonanze mai udite prima, senza preparazione al fine di renderle ancora più aspre ma, finalmente, vere e credibili. Quello che Monteverdi rimproverò all’Artusi non furono le critiche, ma l’aver pubblicato quegli esempi privi del testo. Sarà la situazione poetica aspra e drammatica a giustificare una scrittura musicale innovativa e spregiudicata. Senza quelle parole non ci sarebbero quelle armonie, quel ritmo, quella tensione musicale. La nuova estetica sarà “il brutto è bello” perché “bello” corrisponderà alla verità poetica, a ciò che si avvicina davvero alla realtà dei sentimenti quotidiani.

Tutto questo determinerà un cambiamento radicale nella scelta dei testi: non più solo singole liriche o componimenti sciolti ma interi passi tratti dalle Commedie o Poemi quali

ad esempio, “Il Pastor fido” del Guarini o la “Gerusalemme liberata” del Tasso. Al compositore serve più spazio di quello offerto da una singola poesia: ora gli necessitano vere e proprie scene e questo nuovo tipo di letteratura ne offriva in abbondanza. Ecco allora che la scrittura tende a caricarsi di colori nuovi, la scrittura diventa più cromatica e meno diatonica al fine di rappresentare al meglio queste grandi scene liriche, quasi una sorta di “Teatro prima del teatro”. Nascono madrigali in più parti che descrivono più momenti della stessa azione fino ad arrivare a una anticipazione di una scena lirica vera e propria come avviene nel “Combattimento di Tancredi e Clorinda” nell’Ottavo libro di Monteverdi.

Gesualdo da Venosa

Al termine di questo rapido excursus sul rapporto testo-musica nel madrigale cinquecentesco non è possibile ignorare l’opera di Gesualdo da Venosa. L’arditezza delle sue composizioni da moltissimo tempo infiamma e divide gli studiosi più esperti. Molti sono stati i tentavi di “spiegare” uno stile che non ebbe seguaci, né poteva averne. L’errore più grossolano consiste nel vedere nella sua opera una anticipazione della atonalità moderna, un precursore dei tempi, un geniale e folle sperimentatore che aveva già intuito la disgregazione tonale come mezzo espressivo. In realtà la tradizione sulla quale si costruisce la tecnica cromatica di Gesualdo è quella del contrappunto modale, né poteva essere diversamente. I suoi madrigali, come affermò Carl Dahlhaus, “Sono delle opere innegabilmente compiute, non dei tentativi e si pongono a conclusione di un periodo, non ai suoi inizi”1.

Gesualdo porterà alle estreme conseguenze la tecnica di usare le alterazioni come intensificazione espressiva della parola stessa. I compositori già da molto tempo avevano usato i segni di diesis e bemolle in accordo con la tensione espressiva richiesta dalla parola e della tensione del tono muscolare ad essa sottinteso. Si poteva realizzare la parola “piango” con uso di bemolle a indicare una tristezza, una malinconia, un indebolimento dovuto allo sconforto, ma anche musicarlo con un diesis per sottolineare quanto bruciante fosse ancora la causa di questo pianto. Ecco allora che possiamo individuare nelle alterazioni cromatiche una anticipazione delle indicazioni dinamiche sulla partitura: con la nuova estetica legata alla teoria degli affetti e alla seconda prattica le alterazioni non indicano più solo un innalzamento o abbassamento semitonale nella melodia, ma un modo di cantarla, suggerendo all’interprete l’intensità con la quale porgere il testo. In Carlo Gesualdo il cromatismo viene spesso usato come intensificazione di un concetto per renderlo ancora più vivido e drammatico. Nell’esempio seguente tratto dal madrigale “Io pur respiro” (“Sesto libro di madrigali a 5 voci”) basta leggere il passo “O dispietato core?” privo delle alterazioni (correggendo solo il si in si bemolle) scoprendo che è perfettamente in linea con la scrittura della prima pratica. Inserendo le alterazioni di Gesualdo lo stesso frammento acquista una potenza espressiva sconvolgente perché lascia intuire il modo con il quale esso deve essere restituito all’ascoltatore.

Es. 6 Gesualdo da Venosa: madrigale Io pur respiro.

Es. 6 Gesualdo da Venosa: madrigale Io pur respiro.

Il rapporto fra testo e musica rimane a tutt’oggi vivo e in continua trasformazione e come ogni cosa è stato modificato dalle esigenze sociali e culturali delle varie epoche. Da sempre alla base della composizione vocale continuerà a evolversi, in una metamorfosi interminabile che non finirà mai di affascinarci ed emozionarci.