relazione, dal Convegno di Scandiano del 17/06/2000 di Giorgio Vacchi

I rappresentanti dei Cori Emiliani-Romagnoli: Leone XIII e Stelutis di Bologna, Toccacielo di Porretta Terme,  Val Dolo di Toano, Val Padana di Casumaro, G. Verdi di Argenta, riuniti a Ferrara domenica 16 maggio 1971, sotto l’egida del locale Ente Provimciale del Turismo, hanno ritenuto di costituire una Associazione a carattere regionale che riunisca i complessi corali a voci maschili di ispirazione popolare. Così iniziava il testo della mozione approvata dai sei Cori fondatori e con essa iniziava la storia dell’AERCO. In quarant’anni di attività l’evolversi del fenomeno associazionistico e le problematiche che la coralità amatoriale si è trovata ad affrontare, hanno trovato coloro che si sono succeduti alla guida della Associazione, preparati ad aggiornare progetti, iniziative, strumenti, per corrispondere sempre meglio e con maggiore tempestività alle nuove esigenze che venivano individuate e per far si che la crescita artistica e culturale dei complessi avesse un costante e sicuro incremento di qualità. Ma celebrando il nostro anniversario, ci è sembrato opportuno tornare a conoscere quali erano le tensioni culturali che negli anni 70’ portarono a far discutere i Cori di associazionismo, cioè di ritrovarsi insieme, non con la finalità competitiva dei concorsi, numerosissimi in quegli anni, ma con la voglia di fare qualcosa per il mondo crescente dei cori italiani, regione per regione, con identiche finalità culturali ed artistiche. E credo che quanto ha scritto uno dei fondatori e primo presidente AERCIP e AERCO, il M° Giorgio Vacchi, in occasione del nostro trentesimo anniversario della fondazione, possa mostrare quali furono le iniziative che dettero vita a questa trasformazione e chi ne furono i protagonisti, chiarendo ai vecchi e nuovi amici quello che fu davvero il “sessantotto” della Coralità italiana.

DALL’AERCIP ALL’AERCO Relazione di Giorgio Vacchi a Sacndiano

Era appena finita la guerra e fra i giovani d’allora emergeva una grande voglia di “fare”: voglia di aggregazione, di sperimentazione, di confronto: le passioni politiche contribuivano a incanalare in grossi flussi d’idee e di azioni le energie prorompenti dei giovani, e anche nell’ambito, diciamo così, della espressività “artistica” era in atto una grande ricerca che permettesse di individuare i filoni nei quali avremmo potuto essere attivi o addirittura protagonisti. Dal regime precedente (mi riferisco all’ambito musicale, quello per cui avevo grande interesse) avevamo ereditato una musica spesso stucchevole e melensa: dall’estero cominciavano ad arrivare nuove musiche con elementi interessanti ma ancora troppo lontane dalla nostra mentalità. Qualcuno di noi, più fortunato, avendo avuto una educazione strumentale, poteva godersi la letteratura classica: ma raramente si trovava qualcuno con cui condividere questa esperienza musicale (il grande desiderio era di poter fare musica d’insieme). Qualcuno, ancora, poteva trovare un di musica all’interno delle chiese, nelle “scholae cantorum”: ma i repertori erano limitatissimi e la qualità delle esecuzioni spessissimo insoddisfacente. Fu in questo contesto che apparve il “canto di montagna”: una novità assoluta, per molti di noi, con fusione di suoni mai ascoltata prima, tematiche importanti ma supportate da melodie facili e accattivanti, con atmosfere affascinanti nella loro semplicità. Ma, più che altro, realizzabili con normali mezzi vocali, alla portata, cioè, di noi ragazzi. La sperimentazione iniziò subito (e, quasi contemporaneamente, in moltissimi altri posti del nostro paese) con la tecnica di appropriarsi delle “parti” estratte dall’ascolto reiterato (quante centinaia di volte?) dei pochi canti incisi dal coro della SAT di Trento in alcuni 78 giri avuti in prestito. Però l’esperimento funzionò: con quella impostazione era possibile fare “musica d’insieme” con lo strumento avuto da madre natura, anche fra gente comune. Per insegnare le parti bastava una conoscenza davvero elementare della musica, con l’ausilio di una fisarmonica o dell’armonium della chiesa. E il risultato era gradevolissimo, anche se molto lontano (le orecchie ce lo dicevano) da ciò che sentivamo in quei dischi della SAT. Erano gli anni di scelte assolutamente acritiche: quello che contava era avvicinarsi al suono e all’interpretazione del coro preso a modello, quasi mai considerando altre questioni, come l’impostazione vocale, la scelta del repertorio, la validità o meno delle tematiche ecc. L’importante, in fondo, era stare assieme cantando, in particolare in quelle prime estati del dopoguerra in cui (grazie alla nuova “politica”, direi, apostolica di molti circoli cattolici) si scopriva la montagna come palestra ispiratrice di “valori alti”. Quanti anni ci vollero perché un po’ di spirito critico si insinuasse in quanto stavamo facendo? Non pochi, almeno per quello che mi riguarda: i primi dubbi apparvero in due direzioni ben precise. Quella tecnica (perché non riuscivamo a migliorare se non lentissimamente?) e quella dei contenuti (che cos’erano quei canti che eseguivamo e da dove venivano?). Delle problematiche tecniche si tentò di parlare con chi, nei conservatori, insegnava canto: ebbene da quella parte avemmo quasi esclusivamente stroncature. Il nostro tipo di canto, ci si diceva, era tutto sbagliato, in particolare perché negava un’impostazione della voce di tipo “classica” (con voce “impostata” e presenza del “vibrato”), perché non accettava l’ausilio dell’accompagnamento strumentale, ed inoltre perché si basava su musiche “popolari” (sovente questo ci veniva detto con una punta di sufficienza, se non di disprezzo) e non su musiche d’autore. Nessun suggerimento serio, inoltre, ci pervenne per affrontare il tema fondamentale di migliorare l’intonazione del gruppo, per cui ci rimboccammo le maniche ed iniziammo ad inventare facili esercizi che ci sembrava potessero contrastare le “calate” che condizionavano le nostre esecuzioni. Quanto ai contenuti l’aiuto ci arrivò dalla lettura delle poche raccolte di “canti popolari” (dal Nigra al D’Ancona, con le loro interessanti prefazioni) e dalle prime pubblicazioni dell’Istituto Ernesto De Martino, dal Canzoniere Italiano, dai “Dischi del sole”. Da quelle pagine apprendemmo che cos’era il canto popolare, e quindi arrivammo ad individuare la presenza di una “cultura subalterna” finora a noi sconosciuta: così anche i cosiddetti “canti di montagna” poterono trovare quella collocazione, nel contesto più ampio della cultura popolare, che loro spettava e che a noi era assolutamente sfuggita. Poi cominciò la esaltante fase della ricerca. Esaltante per almeno due ragioni: la prima che bastarono poche uscite col registratore per toccare con mano che anche nella nostra zona vivevano quei canti, seppur variati, che erano stati raccolti in Piemonte, o in Veneto, o in altre regioni, ed anche tanti di quei “canti di montagna” che avevamo attinto dal repertorio della SAT di Trento. La seconda è che così si instaurarono numerosi contatti con cori della regione (quasi sempre nel tentativo di sensibilizzarli al problema, appunto, della ricerca) che si resero disponibili inoltre a sperimentare quegli esercizi che noi andavamo proponendo per l’intonazione, a valorizzare l’uso “naturale” della voce e a confrontarsi su scelte diverse di repertorio (allora quasi esclusivamente “di montagna”). Questi contatti con tanti gruppi corali, che si trasformarono ben presto in una fitta rete di amicizie, ci permisero peraltro di toccare con mano le notevoli lacune che stavano alla base di moltissimi di questi cori: carenze tecniche (scarsa intonazione, vocalità non curata, poca fusione, interpretazioni superficiali e spesso banali) e carenze nelle scelte del repertorio (nella maggior parte dei casi legato ad un numero limitato di canti “di montagna” di moda in quel periodo, ripetuti all’infinito). Solo più tardi mi resi conto dei grandi frutti che stava dando questa rete di contatti: in poco tempo ebbi risposte di grande interesse specie per quanto riguardava alcune soluzioni tecniche proposte e sperimentate dai vari gruppi corali. Se la sperimentazione avessi dovuta farla solo con il mio coro, sarebbero occorsi molti anni per avere risultati probanti: applicata, invece, da molti cori, e quindi in situazioni diverse, bastò molto meno tempo per valutarne la validità. Fu in questo contesto che per la prima volta si cominciò a parlare di qualche forma di aggregazione fra cori: sarebbe bello, si diceva da più parti, avere un collegamento più stretto fra le diverse realtà corali così da poter ricorrere all’aiuto dei più esperti quando qualche coro si trovasse in difficoltà. Sarebbe bello potersi riunire, qualche volta, a parlare dei problemi che riguardano tutti, come il miglioramento tecnico, il repertorio, lo scambio fra cori di concerti e festival ecc. Si instaurò, insomma, un clima di grande fiducia reciproca (sono stati rarissimi gli episodi di “campanilismo” in area regionale) e di aspettativa, anche perché si cominciavano ad avere i primi frutti della ricerca sul campo e quindi concretamente si poteva intravedere, nel futuro, quel rinnovamento dei nostri repertori che molti auspicavano.

CasuGiorgio Vacchi (1932-2008), compianto primo presidente dell’AERCO

Giorgio
Vacchi (1932-2008), compianto primo presidente dell’AERCO

Fu quindi abbastanza agevole per noi passare alla fase costituente dell’associa-zione in ambito regionale, data la già citata, fitta trama di amicizie e di collaborazioni che si erano instaurate da tempo. Da parte di sei cori venne l’assenso immediato a rivestire il ruolo di “Soci Fondatori” (erano il Leone e lo Stelutis di Bologna, il Toccacielo di Porretta Terme, il Valpadana di Casu maro, la Corale Verdi di Argenta e il Val Dolo di Toano) e da parte dell’amico Puccio Pucci la generosa accettazione di realizzare la fase organizzativa dell’operazione. Tutto ciò nel maggio del 1971 in seguito al Simposio su “Canto popolare e problematiche corali” che si era svolto a Cortina nel novembre 1970, al termine del quale ci si era unanimemente impegnati ad intraprendere la strada dell’associazionismo. Va però qui ricordato che già mesi prima del Simposio, su particolare sollecitazione del Cor “Leone” di Bologna, era partita dalla nostra città l’iniziativa di indire un Convegno sulle stesse problematiche, al quale si rinunciò quando il coro “Cortina” e Giancarlo Bregani dimostrarono di essere in grado di assicurare un livello organizzativo superiore a quanto noi potevamo realizzare allora. Questo però dice quanto fossero maturi i tempi per il lancio del nostro associazionismo. Così nacque l’A.E.R.C.I.P. (Associazione Emiliano Romagnola Cori d’Ispirazione Popolare) con una ben chiara collocazione nell’ambito della coralità. Infatti avevamo individuato nei cori d’ispirazione popolare l’oggetto che più abbisognava di attenzioni, almeno in quella prima fase, per le notevoli carenze che avevamo riscontrato nel livello tecnico, per i profondi dubbi che sorgevano nel dare una identità culturale a questi gruppi corali, per le difficoltà nel far partecipi i molti cori, che avevano problemi, delle esperienze positive di altri. Qualcuno in seguito ci incolpò di “miopia” perché avevamo ristretto l’ambito associazionistico ai soli cori maschili popolari. Allora ci parve invece, così facendo, di dare un segnale “forte” in quella precisa direzione (che era quella che a nostro avviso aveva più bisogno di cure) così che gli operatori di questo tipo di coralità si sentissero davvero i destinatari privilegiati dei nostri urgenti interventi. E d’altra parte come potremmo incolpare quei religiosi che nel medioevo fondavano i “lazzaretti” di non aver subito realizzato dei “policlinici”? Allora, evidentemente, parve prioritario l’interesse per la peste e il colera: al resto ci si sarebbe pensato dopo. E anche per noi, infatti, venne il momento di abbandonare le limitazioni che ci eravamo poste per rivolgerci a tutta la coralità, in tutte le sue differenti realtà. Ma quella prima fase fu estremamente importante, in particolare per la diffusione dell’impegno che noi chiedemmo a favore della “ricerca sul campo”, che ovviamente era indirizzata esclusivamente ai cori che potevano averne interesse (quindi quelli d’ispirazione popolare). In cambio si offriva la disponibilità ad impegnarsi nel realizzare armonizzazioni di qualche canto ritrovato e di dedicarle al coro che aveva fatto ricerca. Ciò piacque molto, perché oltre a veder avviato quel rinnovamento auspicato del repertorio, metteva in grado i cori di presentare canti della loro terra (e da loro stessi ritrovati), cosa che avveniva con non poco orgoglio e soddisfazione. Debbo però aggiungere che, pur dedicando questi canti ai singoli cori che si erano impegnati nella ricerca, non si è mai accettato il concetto di “esclusività” (come qualche volte veniva richiesto) ma si è sempre garantita la massima diffusione delle armonizzazioni. Questa la nostra associazione in quei primi anni: poco dopo anche le altre regioni cominciarono a muoversi progettando un associazionismo calato nelle diverse realtà locali. In queste fasi iniziali è sempre stata richiesta la nostra presenza e siamo sempre stati invitati a parlare della nostra esperienza Emiliano-Romagnola.