Quando si vuol parlare compiutamente di una persona, di un artista, occorre inquadrarla nel suo contesto socioculturale. E non si può prescindere, parlando del M° Angelo Creonti, dal suo essere romagnolo, per l’esattezza nativo ed abitante di una frazione (Felisio) di quella Solarolo che ha dato i natali ad una grande cantante pop che tutti conoscono e della quale parleremo in seguito. Angelo Creonti nacque dunque a Solarolo (provincia di Ravenna, ma certamente gravitante sulla vicinissima Faenza) il 16 marzo del 1915. Siamo perciò in prossimità del centenario della nascita (che curiosamente coincide con l’anniversario della morte, avvenuta il giorno del suo novantaquattresimo compleanno). Solarolo è da molti anni sede di una banda, tuttora fiorente ed operante, cosa che adesso è l’eccezione mentre allora era regola. Attirato da subito dalla musica, quella della banda e quella della parrocchia, cominciò a frequentare lezioni (già nel 1929, quattordicenne, era stato designato come organista parrocchiale) giungendo a collezionare diplomi: pianoforte, organo, composizione, canto, strumentazione per banda, musica corale e direzione di coro e con ogni probabilità ne ho dimenticato qualcuno. I due amori musicali della sua vita furono comunque la banda e il coro. Divenne direttore della banda di Solarolo molto prima di diplomarsi, nel 1935, e proseguì l’attività fino al 1989. Nel frattempo diresse comunque altri complessi bandistici, in modo particolare due bande della città di Bologna, una delle quali forte di ben 70 elementi. Allo stesso tempo fondò e diresse un coro nella sua comunità parrocchiale, divenendo comunque anche direttore di complessi già affermati ed accostandosi gradualmente al canto corale romagnolo (in epoche nelle quali occuparsi di canto popolare era considerato disdicevole per un musicista con formazione conservatoriale) giungendo anche a dirigere alcuni gruppi di Canterini Romagnoli, seppure solo per brevi lassi di tempo. Una tappa fondamentale della sua formazione umana, e purtroppo non certo positiva, fu la seconda guerra mondiale. Richiamato alle armi, venne catturato e trascorse parecchio tempo nei campi di prigionia in Germania, approfittando del proprio orecchio musicale per apprendere la lingua tedesca (cosa in seguito utilissima negli anni di insegnamento presso il Conservatorio di Bolzano). Una delle cose che spesso mi raccontava, nei nostri incontri dei quali parlerò tra breve, era di essere formalmente un fuggitivo, in quanto a guerra finita lui e un commilitone solarolese anch’esso prigioniero non avevano atteso la liberazione “ufficiale”, ma si erano allontanati senza permesso La sua attività compositiva – affiancata all’insegnamento di Cultura musicale generale, quella che comunemente chiamiamo armonia complementare, al Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna – si rivolse soprattutto ai due ambiti sopra accennati, cioè quello bandistico e quello corale. Per banda compose alcuni brani che sono entrati stabilmente nel repertorio di complessi importanti, tra i quali vorrei citare “Rimembranze dello scariolante” e “Romagna rapsodica”. Bastano questi titoli per comprendere quanto fondamentale fosse per il Maestro il rapporto con la terra natale, e va sottolineato come nel primo dei due brani – una brillante elaborazione della melodia che tutti conoscono – fossero presenti anche temi autobiografici, visto che il padre del Maestro era stato anch’esso scariolante. Nella sua opera compositiva per coro i filoni sono due, quello sacro e quello popolare. Scrisse per il coro che egli dirigeva nella sua parrocchia numerosi brani e mottetti d’occasione e due Messe, la seconda delle quali – la Messa “Salus infirmorum”, in italiano nonostante la titolazione latina – ho avuto occasione di cantare più volte sotto la sua direzione e perfino di dirigerla una volta, con lui stesso tra il pubblico. Per i cori popolari romagnoli, in particolare per il Gruppo Corale “Pratella – Martuzzi” che ho l’onore di dirigere da parecchi anni, scrisse alcune “cante” molto apprezzate e spesso richieste dal pubblico: “L’elba”(che vinse un’edizione del concorso per la composizione di cante romagnole che il Gruppo corale Pratella – Martuzzi indice periodicamente), “La sfuiareja”, “Zugh d’burdel”, “Campagnola”, “Inamures” e soprattutto “Tot um’arcorda te”, conosciuta soprattutto come “Una parpaia c’la vola” (una farfalla che vola) dalle parole iniziali del ritornello. Le melodie sono apparentemente semplici, facili da ricordare e orecchiabili, ma allo stesso tempo i suoi brani richiedono dal coro grandi capacità d’intonazione e di fraseggio, oltre alla disponibilità a dividere le sezioni. Ne “L’elba”, accanto alla voce di tenore solista abbiamo (anche se non tutte sempre presenti contemporaneamente) soprani primi e secondi, contralti, tenori primi, secondi e terzi, baritoni primi e secondi e infine bassi, per un totale di nove voci! Il mio primo ricordo personale del Maestro è dell’ormai lontano giugno 1981. Esame di Armonia complementare presso il Conservatorio di Bologna. Lui: presidente della commissione d’esame. Io: candidato. Non è esattamente il modo migliore di iniziare quella che poi sarebbe diventata una bella amicizia… Avevo già sentito parlare molto di lui dal mio insegnante di Armonia, già suo allievo, ed ero seriamente preoccupato, ma tutto andò bene e pensai che i miei contatti con lui fossero già finiti. Dopo qualche tempo invece andai a fare un concerto a Solarolo, con il gruppo di ottoni del quale facevo parte, e ritrovandolo cominciammo a chiacchierare. Egli dirigeva ancora sia la banda che il coro, e io – trombonista e voce di basso – gli facevo comodo per ambo le formazioni. Dopo qualche tempo, per il tramite del mio professore delle media, il M° Dario Mirandola di Lugo, anch’esso suo buon amico, fu lui a consigliare al Gruppo Corale “Pratella – Martuzzi” di ingaggiarmi quale direttore. Da lì prese il via una frequentazione reciproca che ne tempo assunse quasi una specie di liturgia. Dopo opportuni contatti telefonici, andavo da lui, nella casa di Felisio ben nascosta nella campagna, ed egli mi accoglieva con la tradizionale bonomia romagnola. Mi accompagnava nel suo studio, ingombro di carta da musica e di involti di brani scritti da lui, e cominciavamo a tirar fuori di tutto: cante romagnole sue o di altri, brani da camera, opere liriche, la sua messa nuova o il mottetto che stava scrivendo, poi andavamo al pianoforte e ci mettevamo a cantare, oppure mi faceva sentire un brano nuovo, o illustrava un pezzo di altri mettendo in luce i pregi e i difetti (soprattutto di armonia). Dopo quelli che a me erano sembrati non più di venti minuti (ma che l’orologio pretendeva assolutamente che fossero circa 4 ore) la consorte, signora Francesca, arrivava earrivando infine a Solarolo con mezzi di fortuna. Certo l’esperienza della guerra e della prigionia furono davvero pietre miliari del suo cammino umano, e verso la fine dei suoi giorni, quando l’età aveva ormai corroso la sua limpida capacità intellettiva, erano i ricordi di guerra a fare da padroni. diceva, in dialetto: “Angelo, dai, è l’una passata, lascia andare a casa il Maestro” (che in questo caso ero io, cosa che mi creava indicibile imbarazzo). A quel punto ci svegliavamo entrambi dalla trance e mentre io cercavo di ringraziarlo in qualche modo lui si allontanava e tornava con una cassetta di frutta o di verdura che aveva coltivato lui stesso, e che dovevo assolutamente prendere. Io avrei pagato per questi incontri, e invece era lui che dava un regalo a me: approccio decisamente romagnolo. Altre volte veniva a Lugo il mercoledì, per il mercato, e se finiva presto veniva a bussare alla mia porta e facevamo una chiacchierata, quasi sempre condita di ricordi di guerra. Quando Laura Pausini vinse la sezione giovani a Sanremo il suo viso non mi era nuovo, ma non riuscivo a capire dove potessi averla vista. Poi quando disse di essere di Solarolo mi si accese la lampadina, e telefonai al Maestro. Dopo qualche giorno, a casa sua, mi confermò che era una componente del coro da lui diretto e che quindi avevamo cantato insieme varie volte. Possiamo affermare – e senza dubbio anche l’interessata sarebbe d’accordo – che il Maestro Creonti abbia avuto parte nella formazione di questa splendida voce. Nel marzo del 1995 i miei Canterini presenziarono al battesimo dell’aereo “Città di Ravenna” all’aeroporto di Fiumicino, madrina la signora Cristina Mazzavillani Muti. Durante il rinfresco che seguì, la signora si informò con me circa gli autori delle cante romagnole più celebri, che lei ben conosce. Salta fuori “Tot um arcorda te” e io le dico di aver telefonato all’autore pochi giorni prima. La signora a questo punto spalanca gli occhi e dice: “Davvero? A Riccardo (Muti, il celebre direttore d’orchestra suo marito) e a me piace moltissimo! Cosa fate domani sera?” e da lì partì un invito per i Maestro e per tutto il coro (!!!) per recarci a casa del Maestro Muti, a Ravenna, la sera successiva. Io, ancora a Roma, gli telefonai e – con qualche cautela a causa di recenti disturbi cardiaci che lo avevano afflitto – lo informai che Riccardo Muti voleva conoscerlo e dell’invito per la sera successiva. La risposta, dopo un attimo di sbigottito silenzio che mi fece temere alquanto, fu: “Sono rimasto serio” come dire che se glielo avesse detto qualcun altro avrebbe pensato ad uno scherzo e ci avrebbe riso su. La sera dopo andai a prenderlo io a Solarolo, lo accompagnai a Ravenna ed ebbi il piacere di presentarlo a Riccardo Muti, dopo di che ci mettemmo a cantare mentre lui, la famiglia del Maestro Muti ed alcuni loro amici erano il pubblico. Poi si cominciarono ad aprir bottiglie…. Con la salute del Maestro ormai declinante, la città di Solarolo decise di dedicargli una giornata nella quale raccogliere tutto il possibile per celebrarlo ancora vivente. Fu scelta una domenica di inizio estate – che fu benedetta da uno splendido sole – e tutto si svolse con ordine. La mattina la celebrazione della Santa Messa parrocchiale vide la partecipazione del coro di Solarolo, in quell’occasione da me diretto, con la sua Messa Salus Infirmorum e altri brani scritti da lui; nel pomeriggio, in piazza, concerto della Banda e dei miei Canterini, ovviamente in gran parte con brani scritti dal Maestro stesso. Lui, che pur assolutamente umile era anche conscio del proprio valore, passò tutta la giornata con un enorme sorriso sulle labbra, stringendo mani, ringraziando e mettendoci sempre quel filo di ironia che lo contraddistingueva. Come detto all’inizio, è spirato nel giorno del suo novantaquattresimo compleanno. Non lo vedevo da tempo, era ospite di una casa protetta, ormai perso nei ricordi bellici e quasi nulla rimaneva del suo genio musicale. Sono lieto che Farcoro mi abbia dato questa opportunità per dire, ad un uomo e un musicista che tanto hanno significato per la musica corale della Romagna, per le bande e per me, un sentito “Grazie di cuore, Maestro”.
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