Un direttore di coro o d’orchestra, un musicista in genere, sarà un interprete completo solo quando avrà ben chiaro il ruolo delle pause, quando saprà servirsi dei silenzi per dare all’esecuzione il respiro di cui ha bisogno, come il gioco di luci ed ombre nella pittura e fotografia o i campi bianchi nella grafica. Una delle caratteristiche del giovane musicista è la tendenza ad accorciare i silenzi, accelerandone la durata e, di conseguenza, a viverli come attimi privi di significato, da saltare con passi decisi, come l’angolo buio della casa che da bambini si superava trattenendo il fiato. Recuperando l’immagine della guida alpina: il nostro modo di intendere la pausa è simile alla guida che, nella sosta lungo il cammino, rimane in piedi, zaino in spalla a guardare la vetta? Oppure siamo tra quelli che abbandonano subito la zaino e si sdraiano? Per entrambi la sosta ha la stessa durata, ma il modo di viverla è molto, molto diverso. L’agilità non è solo rapidità esecutiva: inizia nel “tenere la tensione”, nella lungimiranza già citata, anche nella pausa.
Un individuo dotato di orecchio musicale medio sa ripetere varie sequenze di pulsazioni, dalle più semplici alle più complesse. Dimostrerà completo controllo nell’ascolto/riproduzione solo quando, nel caso di pulsazioni separate da lunghe pause, saprà rispettare i tempi d’aspetto senza accorciarli. Test: chiediamo ad un allievo all’esame di ammissione di ripetere dei semplici battiti proposti dall’insegnante:

la risposta sarà regolare, talvolta accelerata:

se invece la successione dei battiti è separata da ampie pause:

un allievo su due tenderà ad accorciarle, accelerando anche il metronomo, all’incirca così:

basterà richiamare la sua attenzione e, nel ripetere il test, l’allievo sarà in grado di controllarsi e regolarizzare.

Molti sono i brani in cui le pause hanno grande valore espressivo, drammatico, di vuoto improvviso, di attesa, per amplificare un significato o prepararne un altro. Nel mottetto Tenebræ factæ sunt a 4 v. miste per il Venerdì Santo, Johann Michael Haydn (1737/1806) rende in modo mirabile l’intenso episodio Et inclinato capite emisit spiritum, con le dinamiche contrastanti e l’uso sapiente delle pause. Notiamo la Catàbasi (figura retorica, linea discendente che qui descrive il Cristo in croce: “chinò il capo e spirò”).

Serve un giusto tempo di decantazione dopo il ff su ”emisit”: alla corona il direttore ascolterà lontano, assaporando il riverbero che la vigorosa sonorità crea nello spazio acustico e lasciando che entri nel cuore dell’ascoltatore.

Anton Bruckner (1824/1896) nel mottetto Locus iste adotta analogo procedimento prima della conclusione dopo una frase cromatica in crescendo. La battuta vuota (stavolta senza corona, a tempo) conferma quanto già espresso e crea attesa per ciò che verrà: è una delle tecniche più usate anche dall’esperto oratore. Il direttore dirigerà questo silenzio? Sì, ma solo nella sua mente, le mani ferme pronte a staccare il nuovo battere per l’ultimo a De-o su ritmo acefalo.

Altro esempio ci viene offerto dal noto “Esti Dal – Canto della sera” del compositore ungherese Zoltán Kodály (1882/1964). Sopra un soffice tappeto armonico dei B, T e C a bocca chiusa, i S inventano un canto dolcissimo, punteggiato da pause e battute vuote. La pausa che ci interessa è nella breve coda finale, alla penultima battuta. È il momento di chiudere, i S abbandonano il testo per uniformarsi alla morbidezza della “m” e con un moto ascendente per gradi congiunti salgono alla Dominante; basterebbe un piccolo passo per arrivare subito al Do, conclusione inevitabile, ma ecco che Kodály interrompe, ci fa trattenere il fiato per due tempi prima di appagare il nostro desiderio di gustare l’accordo conclusivo. La pausa: un piccolo segno, ma di grande effetto!

Articolo tratto dal metodo: Mario Lanaro Esperienze Corali © 2012 Edizioni Carrara Bergamo n. 5281, per gentile concessione