Alcune considerazioni pratiche

“Quasi tutti i monasteri delle monache fanno professione di Musica, così del suono di più sorte d’instromenti musicali, come di cantare. Et in alcuni monasteri ci sono voci tanto rare, che paiono angeliche, e a sembianza di sirene allettano la nobiltà di Milano d’andargli ad udirle.”

Con queste parole lo storico Paolo Morigia ritrae la situazione musicale dei conventi femminili attorno al 1595. Citazioni come questa abbondano nel tardo Cinquecento e nel Seicento e forniscono l’immagine di un mondo musicale meraviglioso abitato da cantanti, suonatrici e, addirittura, compositrici, nonostante i regolamenti draconiani che normavano ogni aspetto della vita di queste donne, e, in particolar modo, la loro musica.

Inoltre, un velo di mistero copre il repertorio destinato alle monache di clausura che spesso comprendeva parti per voci di tenore e basso. Come si eseguiva questa musica con sole voci femminili?

Questa domanda mi ha spinta nel 1991 a fondare la Cappella Artemisia, un gruppo di donne cantanti e strumentiste dedicato all’esecuzione della musica dei monasteri femminili italiani del ‘500 e ‘600. Nel nostro lavoro abbiamo cercato con diverse soluzioni di rispondere a questo spinoso problema, basandoci sempre su indizi forniti da documenti storici riguardo alla prassi esecutiva del periodo. Ma le nostre scelte sono state anche dettate da questioni pratiche e dalle risorse umane a disposizione. La storia però ci insegna che ha fatto proprio così anche chi ci ha preceduto nei conventi.

Il repertorio in questione è tutt’altro che di nicchia. Ricerche svolte da un numero sempre in aumento di studiosi hanno portato alla luce oltre 150 opere a stampa di musiche di un periodo tra il 1563 e il 1700, composte da, dedicate a, o che fanno riferimento alle, monache e possiamo senz’altro immaginare che ce ne siano molte altre ancora da scoprire.
Quanta di questa musica poteva essere facilmente eseguita da donne? Sicuramente il repertorio dei mottetti per voce sola, ed esistono dozzine di collezioni del genere. Anche quei brani destinati a voci acute erano ideali, e numerose raccolte di mottetti con tali caratteristiche fanno riferimento alle monache. Un importante esempio è il libro di mottetti composti a Bologna dalla camaldolese Lucretia Orsina Vizzana e dedicato alle consorelle del convento di S. Cristina: i brani ivi contenuti sono quasi interamente destinati a soprani e contralti. (Parlerò specificamente di questa raccolta sotto.) Un altro esempio è la collezione del 1647 compilata a Roma da Antonio e Giovanni Poggioli, con brani scritti “si per Monache, come anco per voci ordinarie”: contiene mottetti per 2, 3 e addirittura 4 soprani.

Si trova nelle stampe dell’epoca il termine voci pari, di solito in riferimento ad organici di sole voci maschili, ma poteva anche indicare musica adatta a voci femminili. Nel 1583 Giovanni Matteo Asola dedicò a una monaca veronese una compieta per “voci ordinari” e un’altra “a voce pari” in cui l’estensione complessiva delle parti non eccede 2 ottave. Un’altra simile stampa è quella dei Vespri di Tomaso Boldon del 1610 che contiene un Gloria “a 8 voci pari” (purtroppo non sopravvissuta). Boldon dice di aver scritto questi brani secondo richiesta di preti e monache in Padova “che possono cantarsi alla Bassa senza Soprani & all’Alta senza Bassi; …”.

Ancora un altro esempio di voci pari dello stesso anno è il Vezzo di perle musicali di Adriano Banchieri,(https://www.youtube.com/watch?v=InPr4XQP6x0) una raccolta di duetti con istruzioni che offrono varie possibilità di esecuzione. È dedicata alla monaca Flavia Clemenza Gazzi, “Concertatrice” al monastero di Santa Maria dalla Neve di Piacenza e alle sue “virtuose compagne di voci, & strumenti”. I suggerimenti comprendono varie combinazioni di voci di soprano e basso, violini, cornetti e tromboni.

Possiamo quindi affermare che la mancanza di voci maschili all’interno dei monasteri femminili poteva essere colmata dall’uso degli strumenti musicali, nonostante fossero spesso ufficialmente proibiti dalle autorità ecclesiastiche. La chiesa permise l’uso dell’organo, di un clavicembalo per motivi di studio, e talvolta di una viola da gamba per coprire la parte del basso. Ma in alcuni casi le autorità emanarono norme ulteriormente restrittive e ne nacquero fitti carteggi di richieste deferenti, ma molto “decise”, fra le monache e i vescovi locali. Nel 1600 le monache di S. Maria Maddalena a Monza chiesero alla Sacra Congregazione dei Vescovi di poter servirsi di un violone da gamba per suonare le parti del basso per non “privarsi [totalmente] di musica”. E nello stesso anno, le suore di S. Giovanni Battista di Bologna hanno pregato ai vescovi di autorizzare la presenza di un insegnante di trombone, una “persona timorata di Dio e di gran bontà”, per quattro mesi. La richiesta fu motivata dal fatto che fra le monache ci fu una “maleficiata et indemoniata, la quale tratenuta con questi concerti musicali se nesta quieta et non molesta dette madri.” In tutti e due i casi, la richiesta fu respinta.
Per fortuna, e in violazione delle restrizioni, l’evidenza dell’uso di strumenti nei conventi abbonda, come dimostrano queste descrizioni del Concerto Grande nel convento ferrarese di San Vito, diretta dalla compositrice e organista Raffaella Aleotti (prese da Ercole Bottrigari nel 1594 e Giovanni Artusi nel 1600):

“Vedendole voi venire […] al luogo, dov’è preparata una lunga tavola; sopra la quale da un capo si trova un clavacembalo grande, voi le vedreste entrare ad una, ad una, pian piano reccandosi con seco ciascuna il suo strumento, ò da corde, ò da fiato, che egli si sia; percio che di tutte le maniere esse ne essercitano […] Giungevano, se bene mi racordo, al numero di ventitré quelle, che entravano all’hora nel gran Concerto loro; […] s’udirno con tanta soavità, e dolcezza d’Harmonia, Cornetti, Tromboni, Violini, Viole bastarde, Arpe doppie, lauti, Cornamuse, Flauti, Clavacembali, e voci in un tempo istesso, che propriamente ivi parea, che fosse il Monte di Parnaso, e’l Paradiso istesso aperto…”

Le suore stesse componevano musiche per strumenti. L’esempio stampato più antico è il mottetto della monaca pavese Caterina Assandra per Canto, Basso, violino e violone del 1609. E alla fine del secolo, nel 1693, Isabella Leonarda di Novara, la più prolifica di tutte le compositrici del Seicento (con ben venti opere stampate), pubblicò la sua raccolta di Sonate a 1, 2, 3 e 4 istromenti…, op. 16.

Cappella Artemisia collabora con diverse strumentiste (e qualche volta anche con strumentisti) nei nostri concerti e dischi. Il gruppo di basso continuo consiste nell’organo (o, in sua assenza, il clavicembalo), spesso insieme a un altro strumento, di solito viola da gamba, arpa o tiorba. Per il CD dedicato delle opere sacre di Raffaella Aleotti, abbiamo aggiunto anche cornetti, tromboni, violini, flauti e fagotto—24 musiciste e musicisti tra voci e strumenti—richiamando l’enorme varietà sonora del meraviglioso Concerto Grande del convento ferrarese di San Vito.

Ma l’uso degli strumenti non era l’unica soluzione per le parti basse. È un dato di fatto che alcune donne hanno voci molto basse e, data la situazione della clausura dove il coinvolgimento delle voci maschili era escluso, una tale dote sarà stata senz’altra valorizzata. A questo proposito lo storico Guarini racconta, ancora riferendosi alle monache di S. Vito, che si trovavano: “nelle dette monache eccellenti compositrici, soavissime voci, e rare sonatrici, come una Catabene de’ Catabeni, e Cassandra Pigna tenori buoni, [e] Alfonsa Trotti di basso singolare e di stupore”. Abbiamo i nomi di monache tenori anche a Novara, e sicuramente c’erano altre.

Nella musica vocale del ‘500 e ‘600, le parti del tenore raramente scendono oltre Do 3, una nota bassa ma non impossibile per certi contralti. Perciò moltissimi brani composti per canto, alto e tenore entrano nell’estensione delle voci femminili. Con la Cappella Artemisia abbiamo registrato alcuni brani in cui le parti più basse scendevano fino al Do 3, e abbiamo raddoppiato la parte con 2 voci per equilibrarla con quelle ovviamente più sonore delle voci più acute. In generale però, fissiamo il Mi 3 come limite comodo in basso, e nei rari casi che la parte sia più bassa trasponiamo le note all’ottava superiore (ma raddoppiando la linea con uno strumento per evitare scomodi rivolti armonici).

È giunto il momento di parlare di trasposizioni. È ormai accettato come prassi comune trasportare un intero brano verso il basso di una quarta o una quinta in presenza delle cosiddette “chiavette”, o chiavi acute. Questa usanza veniva adottata per facilitare l’uso di strumenti e voci maschili. Ma se invece questi brani vengono cantati come scritti, sono spesso più adatti alle voci femminili. D’altro canto, quando le parti sono notate in chiavi “normali”, la parte superiore è spesso abbastanza bassa (soprattutto nel ‘500) da permettere una trasposizione in una tonalità più acuta. Ed è significativo notare che due importanti trattati dell’epoca con istruzioni su come utilizzare trasposizioni di intervalli inusuali sono entrambi dedicati a monache: si tratta del Partito de’ Ricercari di Giovan Paolo Cima del 1606 (dedicato alla già menzionata Caterina Assandra), e dei Primi albori musicali di Lorenzo Penna del 1672.

Un altro tipo di trasposizione sicuramente in uso era quella di cantare la parte del basso all’ottava superiore. Nella sua raccolta di salmi per 3 voci del 1615, Romano Micheli dà istruzioni su come cantarli in vari modi, e nel caso del “uso anco de le Reverende Monache”, suggerisce un organico di “Due Soprani & Alto, cantando nel Basso un’Ottava più alta”. Anche Ignazio Donati fornisce istruzioni dettagliati per l’esecuzione dei suoi Salmi Boscarecci del 1623: “Per penuria di Soprani si può cantare il primo Soprano in Tenore […] Et volendo servirsene le Monache potranno cantare il Basso all’Ottava alto, che riuscirà un Contralto.”

Credo quindi che si possa presumere che le monache si sentissero libere di trasportare brani interi o solo le linee basse in diverse tonalità o ottave per accomodare le loro cantanti, come facciamo anche noi nella Cappella Artemisia.

Vorrei ora guardare in dettaglio tre mottetti composti dalle tre monache compositrici dell’Emilia-Romagna: Raffaella Aleotti, al già menzionato convento di S. Vito a Ferrara; Sulpitia Cesis, monaca modenese a S. Geminiano; e Lucrezia Orsina Vizzana, al monastero di S. Cristina a Bologna.

Raffaella Aleotti (1575 ca. – 1646?) fu la prima monaca italiana ad aver pubblicato le sue opere. Era una di cinque figlie di Giovanni Battista Aleotti, chiamato L’Argento, celebre architetto alla corte estense. Le sue Sacrae cantiones quinque, septem, octo, & decem vocibus decantande furono pubblicate a Venezia nel 1593, e nello stesso anno vide la luce anche una raccolta di madrigali composti da Vittoria Aleotti, forse sua sorella o, più probabilmente, essa stessa usando prima il nome di battesimo e in seguito quello monastico. Le capacità organistiche di Raffaella meritarono le lodi di Wert, Merulo, Luzzaschi e Gesualdo, e almeno 2 raccolte di musiche furono a lei dedicate. Vittoria/Raffaella entrò nel monastero all’età di 14 anni, e ha coperto la carica di priora, oltre ad essere l’organista e direttrice del favoloso “concerto grande” descritto sopra.

Le Sacrae cantiones contengono 16 mottetti composti da lei (ci sono anche due brani del suo maestro Ercole Pasquini): 12 a 5 voci, 2 a 7 e 2 a 8. La raccolta è come uno scrigno di gemme preziose: racchiusi nelle loro minuscole dimensioni (la loro lunghezza raramente supera i 3 minuti, e molti durano anche meno) si trova una ricchezza di invenzioni ritmiche, armonie semplici ma attraenti, un uso sapiente del contrappunto, un’incisiva interazione tra i cori, e un trattamento dei testi efficace e persino commovente.

I mottetti a 5 voci sono intesi per un organico vocale tradizionale di soprani, contralti, tenori e bassi (SATTB), come nel bellissimo Vidi speciosam sicut columbam, basato su un testo del Cantico dei Cantici. È l’unica opera che abbiamo registrato due volte per due differenti dischi: quello dedicato all’opera omnia dell’Aleotti e anche in Soror mea, sponsa mea, una compilazione di mottetti di autori diversi tutti incentrati sui testi del Cantico.
Le due versioni presentano due opzioni esecutive differenti.

Nel primo caso, nella tonalità originale di Sol, (https://www.youtube.com/watch?v=itGnuciswnc) ogni linea è cantata da voci reali, ma quelle di tenor, quintus (tenore 2°) e bassus sono trasportate all’ottava superiore; l’organo fornisce un basso seguente nell’ottava originale per mantenere l’assetto armonico. Nella seconda registrazione, (https://www.youtube.com/watch?v=8KXW9vd8e04) l’intero mottetto è stato trasportato su di un tono in La; il cantus, altus e tenor sono cantati con voci raddoppiate nell’ottava originale mentre il quintus e bassus sono suonati da una viola da gamba e una dulciana rispettivamente, coll’organo, che ancora suona un basso seguente.

Una monaca coetanea dell’Aleotti ci ha lasciato il suo contributo al repertorio conventuale una generazione più tardi. La nobile Sulpitia Cesis (1577-dopo 1619) fu monaca nel monastero agostiniano di S. Geminiano in Modena. Fu l’autrice di una collezione di 23 Motetti spirituali per 2-12 voci, pubblicata nel 1619. Questa raccolta è importante non solo per l’elevata qualità della musica ma anche per le preziose informazioni che fornisce riguardo alla prassi esecutiva nei conventi italiani del primo Seicento. In particolare, la raccolta della Cesis contiene delle indicazioni precise sull’uso di strumenti musicali quali cornetto, trombone, violone e arciviolone).

Malgrado la data di pubblicazione, lo stile dei mottetti è più vicino alle composizioni policorali di fine Cinquecento e quindi possiamo ipotizzare la possibilità che questi lavori fossero stati scritti precedentemente. È una congettura verosimile, considerando che al momento della pubblicazione la Cesis aveva 42 anni: la maggior parte delle monache compositrici, come la Aleotti, vedeva pubblicare la loro prima (e spesso unica) raccolta in età più precoce.

Ben otto dei mottetti della Cesis sono notati in “chiavette”, suggerendo una trasposizione in giù di una quarta o una quinta, anche se mantenere la tonalità originale sarebbe più comodo per le voci femminili del suo convento. Inoltre, sei mottetti portano l’istruzione “alla quarta bassa” in almeno una parte. Per capire le possibilità di esecuzione previste dalla compositrice, guardiamo in dettaglio il mottetto Hodie glorious Pater Augustinus. (https://www.youtube.com/watch?v=viIaiQM5IXg)

Ecco le indicazioni trovate su alcune parti.

Questa tabella ci dimostra che, mentre tutte le parti sono testuali, cinque di esse indicano chiaramente un’esecuzione strumentale. Il mottetto, quindi, potrebbe essere eseguito con tre parti cantate e cinque suonate, o con tutte le otto parti cantate e cinque di esse (o addirittura tutte) raddoppiate con strumenti. Un’esecuzione come quella suggerita dalle rubriche poteva quindi essere certamente un’esecuzione conventuale.

Nel CD della Cappella Artemisia dedicato all’opera integrale di Sulpitia Cesis, abbiamo tenuto la tonalità originale di Re e seguito parzialmente le istruzioni della compositrice (suggerimenti che vengono ribaditi da altre fonti come, per esempio, Michael Praetorius e Girolamo Giacobbi). Il primo coro consiste in tre voci (cantus, altus e bassus all’ottava superiore), mentre un cornetto suona il tenor all’ottava superiore. Il secondo coro è suonato da 3 strumenti (cornetto sul tenor all’ottava superiore e due tromboni su altus e bassus), con una voce solista sul cantus. Un gruppo strumentale (organo, tiorba, viola da gamba) copre i bassi dei due cori.

Per la nostra edizione, tuttavia, questo tipo di esecuzione ci è sembrato poco pratico per molti gruppi, e abbiamo quindi optato per un’alternativa (http://cappella-artemisia.com/artemisia-editions).
Abbiamo trasposto il cantus e l’altus del primo coro giù di una quarta, mentre tutte le altre parti sono state trasposte su di una quinta. In questo modo, con alcuni aggiustamenti di ottava nel bassus del secondo coro, tutte le parti possono essere cantate da voci femminili, a condizione che sia disponibile un contralto (“basso”) che possa cantare fino a Re3. E indubbiamente molti ensemble femminili vorranno raddoppiare le parti basse con strumenti, se possibile.
Sempre in riferimento alla raccolta della Cesis, è interessante notare che alcune parti che richiedono strumenti (specialmente Hodie gloriosus) sono segnate a mano con delle lettere, forse le iniziali delle esecutrici originali. Anche se non possiamo essere sicuri se queste iniziali si riferiscono a musiciste del convento di S. Geminiano di Cesis o altrove, sarebbe un lavoro interessante mettere dei nomi alle suore che hanno cantato e suonato questa squisita musica.

Arriviamo a Bologna. Sotto il profilo musicale, il principale convento femminile bolognese era senza dubbio quello di Santa Cristina, dell’ordine camaldolese. In aggiunta ai numerosi compositori che dedicarono i propri lavori alle sue monache, esso ebbe l’onore particolare di ospitare l’unica suora bolognese che mai abbia pubblicato musica in tutto il Seicento: Donna Lucretia Orsina Vizzana (1590-1662). La Vizzana, nata da nobile famiglia bolognese, entrò in convento nel 1598, divenne novizia all’età di 11 anni e prese i voti a 16. Nel 1623 pubblicò i suoi Componimenti musicali de motteti concertati a una e più voci, una raccolta dedicata alle sue stesse consorelle. Dopo 65 anni, trascorsi nel chiostro e una lunghissima malattia, Lucretia Orsina Vizzana morì pazza il 7 maggio del 1662.

Quasi tutte le opere comprese in questa raccolta sono scritte per voci di soprano e contralto e quindi vennero eseguite con ogni probabilità dalle medesime dedicatarie. Vizzana include un terzetto, indicato “A 3 Sopr. Canto, e Tenor”, ma in realtà la parte del tenore è notata in chiave di contralto (Do3) e quindi cantabile sempre da una voce femminile. L’unica eccezione “problematica” è il quartetto Protector noster, composto per soprano, contralto, tenore e basso. Per eseguire questo mottetto con voci femminili, due ensemble dedicati alla musica conventuale hanno scelto due opzioni diverse. Nel nostro primo disco, Canti nel chiostro: Musica nei monasteri femminili di Bologna, la Cappella Artemisia, che ha la fortuna di avere dei forti contralti, ha mantenuto la tonalità originale, lasciando le tre voci superiori come notate, e ha trasportato all’ottava superiore la voce del basso, raddoppiandola con l’organo, tiorba e viola da gamba (https://www.youtube.com/watch?v=CLk2i6zr6kw).

Le bravissime colleghe inglesi che costituiscono il gruppo Musica Secreta, che invece vanta dei soprani particolarmente acuti, hanno scelto di trasportare l’intero brano su di una sesta: (https://www.youtube.com/watch?v=y2ejKNJ6FDA) così la parte del basso ricade dentro l’estensione di un contralto mentre le altre voci diventano molto più acute. Due modi diversi per eseguire lo stesso brano. (La versione di Musica Secreta si trova nel cd monografico dedicato alla Vizzana: Lucrezia Vizzana: Componimenti Musicali (1623) – Song Of Ecstasy And Devotion From a 17th Century Italian Convent).

Quando la Cappella Artemisia ha iniziato la sua attività, oltre trent’anni fa, posso dire che eravamo delle pioniere. Questa enorme ricchezza di musica conventuale era completamente sconosciuta e neanche immaginata. Ora, ci sono sempre più dischi di musica composta dalle monache, i nomi di alcune compositrici (per esempio Isabella Leonarda e Chiara Margarita Cozzolani) sono conosciuti almeno a musicofili se non al pubblico in generale, e le loro opere iniziano ad apparire anche nelle stagioni concertistiche fra quelle dei loro colleghi maschi invece di essere ghettizzate dentro rassegne solo di musica di donne. Noi siamo francamente fiere di aver contributo a far sì che questo repertorio delle monache venga riconosciuto e apprezzato non più solo per la curiosità che suscita ma soprattutto per la vastità e l’eccellenza della musica stessa.