Un direttore di coro non può più occuparsi di musica soltanto. Durante una ricerca commissionata dalla FE.N.I.A.R.CO, due sociologi (tramite un’apposita piattaforma Internet) hanno raccolto proposte e rilevato problemi dai responsabili di eterogenei gruppi corali e, dai loro dati, emerge chiara la “poliedricità” necessaria per vivere appieno questo ruolo. L’obiettivo dei più è riuscire a far sì che “gli aspetti musicali e quelli non-musicali riescano infine a muoversi in sinergia”1.
Si tratta in fondo della conquista di una leadership particolarmente delicata e complessa della quale una sintesi efficace è, già dal titolo, contenuta nell’articolo di Ida Bona, Senza leader l’orchestra è stonata2, dove la figura del direttore (cui necessitano senso di responsabilità, capacità intuitiva e abilità in qualche modo imprenditoriali) viene accostata infatti a quella del manager aziendale:
Gestire un team, valorizzare le singole competenze senza che nessuno prevarichi, disciplina e tensione continua: ecco in poche parole le declinazioni della leadership che contraddistinguono tanto un direttore d’orchestra quanto un manager3.
Ida Bona4 cita poi il saggio Leadership trasparente, scritto a due mani dal musicista Francesco Attardi e dal consulente aziendale Giuseppe Pasero che, sulle affinità tra le due figure, specifica entrambe avere l’aspirazione ad ottenere che persone diverse, con differenti specializzazioni professionali, collaborino per realizzare un risultato del quale tutti sono ugualmente e contemporaneamente responsabili.
Un ruolo da concertatore proprio di entrambe le figure quando riescono a far sì che “l’egocentrismo narcisistico di ciascuno” arrivi ad “essere sacrificato al risultato di tutti”. La buona interpretazione della leadership porterà a un “risultato di eccellenza” solo se ciascuno lavora al massimo delle sue possibilità nella propria area specifica come se fosse un solista, ma nello stesso tempo ascolta gli altri in modo da interagire. […] La disciplina sta alla base della competenza e dell’autorevolezza; la tensione all’eccellenza costituisce il perno su cui si fonda la legittimità del dirigere e cioè all’esercizio dell’autorità.5
Passione e capacità di coinvolgimento sono senza dubbio le parole chiave per indagare il rapporto direttore-coristi, cui secondo Ennio Nicotra è importante poi “riuscire a trasmettere la propria volontà”6 senza dimenticare di essere solo “al servizio della musica e non il contrario”. Anche Gary Graden sottolinea che “se sei onesto nei tuoi desideri e tratti le persone rispettosamente, sarai rispettato a tua volta. Questa è la mia impressione. A volte non funziona, ma nella maggior parte dei casi è una garanzia”7. Punto di vista su cui si sofferma anche Daniel Barenboim quando parla (avvertendo il pericolo militaresco) dell’importanza di riuscire a trasmettere agli esecutori “la sensazione di non eseguire solamente ordini” evitando di sottometterli “al servizio del senso di potere o della determinazione di qualcun altro”8. Ma, pur essendo dei singoli cantori il privilegio di dare origine al suono, sarà compito del direttore organizzarlo compiendo tutte quelle fasi proprie del filologo-interprete, magistralmente riassunte da Andrea Della Corte per il quale egli procede dall’ignoto al noto, dal dubbio alla certezza, dal segno alla comprensione e al suono, e mentre analizza il passo, i periodi, le proposizioni principali e le secondarie, le melodie, le armonie, i contrappunti, i movimenti, i ritmi, i timbri, mentre fraseggia e scandisce gli accenti patetici, mentre distingue le graduazioni dinamiche e sonore, e riassume l’analisi in sintesi, e ripercorre tutta l’opera stringendone le membra, e s’abbandona all’incanto dell’arte, ecco le parti cominciano a cantare, a fondersi in un tutto determinato nella singolarità; allora l’interprete è contento, ed è un interprete.9
Gary Graden sottolinea anche che sarà la dedizione allo studio e l’attenzione a tutti i particolari ad aumentare la sua credibilità e dunque a rafforzare la fiducia dei coristi nei suoi confronti.
Inoltre un direttore di coro deve raggiungere consapevolezza del valore, culturale certo, ma anche politico, che il suo lavorar bene può arrivare ad assumere. Ed è necessario perciò che divenga amico del genius loci che abita l’angolo di mondo che a lui compete, interessandosi alle sue caratteristiche, anche storiche ed ambientali, in modo da cercare d’intuire, almeno, quale ne potrebbe essere l’autentica dimensione comunitaria.
Ed è il sociologo polacco Zygmunt Bauman a ricordarci quanto la parola “comunità” suoni bene poiché racchiude valori che un mondo sempre più globalizzato sembra star dimenticando col triste risultato che “ciascuno di noi consuma la propria ansia da solo, vivendola come un problema individuale”10. Eppure “comunità” è parola che infonde sicurezza e contiene gli “elementi fondamentali per una vita felice”. Essa “emana una sensazione piacevole” e “vivere in comunità”, “far parte di una comunità” è qualcosa di buono. […] Innanzitutto, è un luogo “caldo”, un posto intimo e confortevole. […] Fuori, in strada, si annida ogni sorta di pericolo e ogni volta che usciamo dobbiamo stare sempre sul chi vive, badare bene a chi rivolgiamo la parola e a chi ce la rivolge, tenere costantemente alta la guardia. All’interno della comunità, viceversa possiamo rilassarci: lì siamo al sicuro, non ci sono pericoli in agguato dietro angoli bui (e anzi non esistono proprio “angoli bui”). All’interno di una comunità la comprensione reciproca è garantita, possiamo fidarci di ciò che sentiamo, siamo quasi sempre al sicuro e non capita quasi mai di restare spiazzati o essere colti alla sprovvista. Nessuno dei suoi membri è un estraneo. A volte si può litigare, ma si tratta di alterchi tra amici e tutti cerchiamo di rendere la nostra integrazione ogni giorno più lieta e gradevole. Può capitare che, sebbene guidati dal comune desiderio di migliorare la nostra vita comune, discordiamo sui modi per raggiungere tale obiettivo e, tuttavia, non desideriamo mai il male altrui.11
Venendo a noi, per un direttore di coro si tratta dunque di acquisire, oltre ad una buona competenza tecnica, atteggiamenti che si potrebbero definire, insomma, “da intellettuale”. Ma, per come siamo ridotti, ad introdurre questo tipo di riflessione vien quasi da scusarsi…
E perché mai? Viviamo infatti in un mondo in cui la figura dell’intellettuale non sembra più godere di buona letteratura (ma, forse non è del tutto così). Ed è forse più semplice elencare cosa questa figura non sia più, piuttosto che riportare alla mente (ed è nei ricordi di ognuno) la funzione straordinaria che certi maestri, certi bibliotecari, certi curati appassionati di musica hanno potuto, e possono, assumere nel far vivere con dignità, e spesso con fierezza, la vita di paese; nell’alimentare, cioè, quella benefica dimensione comunitaria di cui parla Bauman.
Dissoltasi la sua funzione politica, l’intellettuale non pare poter più far da guida.12 Questa perdita di prestigio è ormai evidente in un mondo in cui fa da padrone quel che decide il mercato, anche della comunicazione, dove “prezzo e domanda effettiva detengono il potere di distinguere tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto”13.
Conclusa da tempo la sua funzione di legislatore dalle ambizioni universalistiche che deteneva dall’illuminismo e che forse ebbe la sua ultima teorizzazione, quale “faro-guida” della vita collettiva, nel 1949 quando Antonio Gramsci delineò il ruolo dell’intellettuale organico14, i media ci hanno abituati ad una visione culturale ridotta a entertainment dove valgono i pareri, su tutti e su tutto (quasi sempre conformistici e scontati), coloro che Corinne Maier15 ha chiamato “intellettualoidi”, versione postmoderna, trash, del “faro-guida” di un tempo. Di continuo chiamati a sedersi sulle poltrone dei vari studi televisivi a comodamente interpretare la complessità di un mondo (impenetrabile, come sempre), a questi ogni giorno alla ribalta non servono più i titoli accademici, quanto piuttosto un po’ di savoir faire e un buon eloquio. E, su quanto la dittatura televisiva incomba anche sui gusti e le richieste di musica, ogni direttore di coro potrebbe portare testimonianze molteplici…
Di contro, come abbiamo anticipato, ci sono voci che si alzano ad auspicare il ritorno di figure d’intermediari culturali in grado di riaffermare discorsi di autentico interesse collettivo, senza più, certo, l’antica pretesa di portare verità universali, ma tese ad affermare al massimo l’identità di un gruppo o di una realtà particolare. Al proposito abbiamo già conosciuto la voce di Zygmunt Bauman, ma molto forte per il suo alto tasso di auspicabile idealismo c’è, tra le tante, quella di Edward Said il quale ritiene una vera minaccia il chiudersi nell’accademismo e nello specialismo, limitandosi a praticare un unico campo del sapere. E si augura, per non uccidere l’entusiasmo e il piacere della ricerca, che si formino figure intellettuali in grado di assumere punti di vista che tengano conto “delle necessarie connessioni e integrazioni fra le diverse sfere della conoscenza”. Come antidoto al pericolo di ridursi ad essere semplici “impiegati della conoscenza”, che ritiene una malattia, Said propone la “terapia del dilettantismo”. Vale a dire la tensione a muoversi per amore di un disegno di più vasto respiro, che stimoli un interesse inesauribile, non ultimo quello di superare confini e barriere, rifiutandosi di rimanere reclusi entro una sola competenza e battendosi per idee e valori che trascendano i limiti di una professione.16
Un dilettantismo che “trovi il suo alimento nella responsabilità e nella passione”17 mantenendosi lontano da “formule facili e da modelli prefabbricati” nella ricerca di “conferme acquiescenti e compiacenti”, soltanto.
Oltre il leggio stanno i cantori: un esteso, unico ma complesso, strumento in carne e ossa composto da molteplici sensibilità, preoccupazioni, punti di vista… Persone, prima di tutto. Vite parallele che s’intersecano ogni settimana, spesso la sera, per condividere un’esperienza. Tra di essi, qualche raro musicista, deciso a mettere a disposizione le proprie competenze in un contesto amatoriale gratificante, e qualche operatore culturale, desideroso d’indagare le possibili connessioni tra la musica e i più diversi campi d’indagine. Ma, soprattutto, dilettanti. Ed è questa la grande disparità tra i maestri di coro e i loro “fratelli maggiori”, i direttori d’orchestra che hanno a che fare con professionisti (da ritenere più armati, meno bisognosi di attenzioni particolari).
Forse è qui il caso di richiamare le opinioni di Goethe e Schiller, secondo i quali il dilettantismo è un “filo rosso” che ha percorso tutto l’arco della cultura tedesca per varie ragioni: storiche (“dal momento che la pratica artistica si viene allargando enormemente con il diffondersi dell’istruzione”); sociali (“poiché le arti sono per definizione comunicative, e dunque richiedono partecipazione e inducono in strati sempre più vasti il desiderio di creatività”); istintuali (“giacché è attraverso l’arte che si manifesta un tratto generale dell’umanità, e cioè l’impulso a esprimersi, a imitare, a plasmare”). Il dilettantismo, sempre secondo la visione di questi due autori, porta comunque con sé dei rischi e in particolare quello del soggettivismo: il dilettante infatti “non vuole saperne di leggi”, visto che, quando “non si impara sotto la guida rigorosa di un maestro”, “sorge un’aspirazione timorosa, sempre imprecisa e insoddisfatta”. La conseguenza di pratiche sregolate è, allora, che “il dilettantismo musicale, più ancora di altri dilettantismi […] limita il soggetto rinchiudendolo nella forma unilaterale che gli è caratteristica”18. Alcune realtà corali italiane rivelano ancor oggi simili forme di miopia, tipiche di chi non vuole – o non riesce – a guardar lontano. Esse proteggono le insicurezze del dilettante, ma impediscono – nel confronto – la sua crescita.
Basta chiedere “dimmi perché canti, fratello mio?” (parafrasando una nota canzonetta pasquale) per ricevere dai cantori le più diverse risposte: c’è chi, dopo aver lavorato tutto il giorno in solitudine, cerca solo momenti di condivisione; chi desidera riscattarsi sul piano culturale ritenendo aride le sue competenze tecniche spese nella quotidianità; chi cerca un hobby poco impegnativo o chi, al contrario, dedica durante tutta la settimana molto studio personale agli approfondimenti. C’è poi chi entra nel coro solo perché invitato da un amico (e presto se ne fuggirà a gambe levate), ma c’è anche chi, arrivato altrettanto casualmente, s’innamora all’improvviso, e perdutamente, della coralità. E c’è chi pur mostrando scarsa fiducia nelle proprie capacità vocali viene benevolmente accolto o chi, al contrario, arriva deciso a mettersi alla prova determinato ad obbedire ad insegnanti che pretende molto esigenti. S’incontrano veterani che cantano da una vita (senza aver mai, peraltro, maturato competenze davvero specifiche), insieme ad altri con “vocazione tardiva”. Si tratta, insomma, di un microcosmo variegato dove è possibile ascoltare le storie più diverse.
È dunque importante tenere in massima considerazione il fatto che molti, tra coloro che decidono d’investire gran parte del loro tempo libero nella militanza corale (spesso davvero impegnativa), stiano in realtà cercando rimedi a insoddisfazioni personali di varia natura secondo quel meccanismo che i sociologi hanno chiamato “di compensazione”19. Del resto, la Royal Society Open Science ha già studiato il cosiddetto effetto ice-breaker: cantare in coro aiuta a rompere il ghiaccio tra estranei poiché il canto sa trasmettere “senso di unità”20.
Carlo Serra riassume con efficacia la complessità del mondo relazionale coinvolto: Nell’intonare, nel volgersi a ciò che la circonda, la voce non è più pura esteriorità, né vuol solamente dire, ma esprime anzitutto una posizione e l’apertura di un orizzonte: quello della vicinanza, della lontananza, dell’articolazione dello spazio in luoghi, della rivendicazione di corpo, identità e linguaggio.21
Un interesse per l’interazione luogo-voce dove compaiono concetti quali spazio, materia, tempo e, ripetiamo, relazione (termini particolarmente familiari alla formazione scientifica di chi scrive) che trovano un’unica esternazione nella parola cantata sino a congiungere l’io che canta (il qui) con l’io che ascolta (il là). E in questo viaggio dal qui al là la voce prende corpo, vive e trasmette energia. Osservazioni del Serra che ci sembrano trovare riscontro poetico nei famosi versi del Falstaff di Arrigo Boito:
Dal labbro il canto estasiato vola
pe’ silenzi notturni e va lontano
e alfin ritrova un altro labbro umano
che gli risponde co’ la sua parola.
Questo riferimento permette inoltre di aprire una riflessione sulla particolare sensibilità che un direttore di coro deve possedere al riguardo delle motivazioni individuali (spesso gelosamente nascoste) riuscendo a incuriosire con la scelta del programma e a coinvolgere con l’eloquenza del gesto. Senza dimenticare che le emozioni arrivano, sia ai cantori che al pubblico, da quanto di imperscrutabile la voce umana trascina.22 Un’attrazione o una repulsione verso questa o quella emissione sonora che ha affinità con i misteriosi meccanismi delle scelte sentimentali che il corpo irrazionalmente ci induce a compiere. Del resto già lo scriveva Roland Barthes: La voce ha un carattere amoroso, ogni gesto vocale spinge la dimensione estetica a uscire dal piano del disinteresse, ponendoci di fronte a una dimensione di desiderio o di rifiuto.23
Non è un caso dunque che, sulla brochure della sua rassegna, Matteo Valbusa si sia spinto a riassumere questo concetto con lo slogan: “La musica è amore. Cantare in coro è fare l’amore”24.
L’antico tema della seduzione del canto (si pensi ai miti di Orfeo o delle omeriche sirene) ha indotto Miriam Jesi a richiamare alcune connessioni tra l’apparato vocale e quello sessuale, osservando ad esempio che la medicina definisce la laringe “organo sessuale secondario”: essa, come è noto, subisce cambiamenti in funzione delle modificazioni ormonali.25 E di certo la foniatria e la logopedia hanno fatto grandi passi avanti nel fornire metodi utili a migliorare la vocalità e chiarendo con efficacia quanto la buona qualità del suono nel suo insieme non possa essere ottenuta senza curare l’emissione vocale del singolo. Appare quindi necessario che il direttore sia ben informato sulla tecnica vocale e che si presenti lui stesso come un buon corista.
Infine, una nota salutista: secondo uno studio dell’Università di Göteborg, cantare in coro darebbe gli stessi benefici dello yoga perché “riduce stress e ansia, rafforza il sistema immunitario e alza il livello di endorfine”26. Ma c’è di più, cantare in coro farebbe bene al cuore: il battito cardiaco dei singoli sin dalle prime battute comincia a rallentare e così una sorta di ‘respirazione guidata’, ben controllata, riuscirebbe a modificare persino la funzione cardiovascolare.
Per dirla con Paul Zumthor, la voce è “luogo di un’assenza che in essa si trasforma in presenza” ed “è risonanza che fa cantare ogni forma di materia”; essa “abita nel silenzio del corpo” tanto che la sua immagine “affonda le radici in una zona del vissuto che sfugge a formule concettuali”. Può essere soltanto intuita, avendo “esistenza segreta, sessuata, dalle implicazioni di una tale complessità che va oltre tutte le sue manifestazioni particolari”27. E ce lo ricorda anche Luciano Berio, nella nota a Sequenza III: La voce porta sempre con sé un eccesso di connotazioni. Dal rumore più insolente al canto più squisito, la voce significa sempre qualcosa, rimanda sempre ad altro da sé e crea una gamma molto vasta di associazioni.
Il suono vocale – che dal nulla è stato generato – si concluderà nel silenzio.
Ma solo dopo aver trasmesso, come si è visto, una sorprendente quantità di valori.
1 Fabiana Gatti e Simone Scerri, inDIRECTION. Cantare insieme, insieme per cantare: la gestione delle dinamiche interpersonali di un coro, FENIARCO, 2010, p.8.
2 Ida Bona, Senza leader l’orchestra è stonata, Dirigente, 6, 2007, p. 14.
3 Ida Bona, ibidem.
4 Ida Bona, ibidem.
5 Ida Bona, ibidem.
6 Intervista a Ennio Nicotra, Ennio Nicotra conducting workshop, 2012.
7 Rossana Paliaga, La gioia di fare musica corale. A colloquio con il direttore Gary Graden, in “Choraliter”, n. 47, maggio-agosto 2015, p. 36.
8 Daniel Barenboim Edward W. Said, Paralleli e paradossi, il Saggiatore, Milano, 2015, p. 74.
9 Andrea Della Corte, L’interpretazione musicale e gli interpreti, Torino, UTET, 1951, p. 7.
10 Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Economica Laterza, 2003, p.VI.
11 Zygmunt Bauman, op.cit, pp. 3-4.
12 Sui temi che tocchiamo da qui in poi ci è stato di particolare aiuto Pier Paolo Poggio, Il difficile rapporto tra intellettuali e popolo nel lungo Novecento, http://www.agalmaweb.org/articoli1.php?rivistaID=15
13 Zygmunt Bauman, op.cit, p.180.
14 Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1949.
15 Corinne Maier, Intellettualoidi di tutto il mondo, Bompiani, 2007.
16 Edward Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 85.
17 Edward Said, op.cit, p.90.
18 J. Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller, Il dilettante, Donzelli, Roma, 1993, p. 16.
19 In particolare abbiamo tratto il termine dal saggio di Pietro Sassu, Canti della comunità di Premana in “Como e il suo territorio”, Silvana Editoriale d’Arte, p. 278.
20 Cantare in coro aiuta a rompere il ghiaccio, Internazionale, 9/11/2015.
21 Carlo Serra, La voce e lo spazio, il Saggiatore, Milano, 2011, p. 279.
22 Concetto ormai assodato come traspare dai titoli di varie recenti rassegne corali e percorsi di formazione. Ad esempio: Festa della Voce (ad Arezzo), festival Voce! (a Bosco Chiesanuova di Verona), festival Voci d’Europa (a Porto Torres, Sassari).
23 Roland Barthes, La musica, la voce, la lingua, in “L’ovvio e l’ottuso”, Einaudi, Torino, 1985, p. 268.
24 Matteo Valbusa, brochure di Voce! Festival Corale Internazionale, XII edizione, Bosco Chiesanuova (VR), estate 2015.
25 Miriam Jesi, La laringe umana, Tiziano edizioni, Pieve di Cadore (BL), 2010, p. 79
26 Laura Laurenzi, Cantare (ma nel coro) ti fa bella e felice, in “Che bellezza”, il Venerdì di Repubblica, n. 1454, 29/11/2016, p. 69.
27 Paul Zumthor, La presenza della voce, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 7-9.
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