1. Bentornato sulle pagine di FarCoro. La Sua duplice competenza sia nell’ambito della Tecnica direttoriale che nell’ambito della Direzione di cori liturgici aggiungerà sicuramente un contributo interessante alla nostra rubrica, Musica dell’anima. Da cosa nasce questo suo interesse in entrambi i campi?

Grazie a voi per ospitarmi di nuovo. Il duplice interesse è nato da quando ho cominciato a dirigere, da ragazzo. Poi è accresciuto e si perfezionato durante gli studi al Pontificio Istituto di Musica Sacra, con i diplomi, il dottorato, gli studi in Germania, i viaggi di studio e lavoro all’estero. E si rinforza continuamente con l’insegnamento. Innanzitutto al Pontificio Istituto di Musica Sacra, dove insegno Direzione di Coro, Acustica, Fisiologia della Voce e Didattica Corale dal 1991, poi al conservatorio di Reggio Calabria e, ormai da tanti anni al conservatorio di Novara. Inoltre con l’insegnamento all’Università Notre Dame a South Bend, Indiana-USA. Infine nei tanti corsi che sono chiamato a tenere, le conferenze, le Masterclass ecc. Sono tutte occasioni di crescita, se le fai con passione e attenzione verso chi ti sta davanti.

  1. Nel 2009 lei scrisse un approfondito articolo per la nostra rivista sulla tecnica del Punto Focale. Potrebbe ricordarci, in sintesi, di cosa si tratta?

Ci vorrebbe un libro, o meglio un video, per spiegare la tecnica del Punto Focale. Ad ogni modo, in poche parole, si tratta di modificare (correggere…) la tecnica “classica”. Essa distribuiva i quattro tempi di un 4/4 distribuendoli in quattro punti diversi nello spazio. Il primo verso il basso, il secondo verso la sinistra del direttore, il terzo verso la sua destra e il quarto verso l’alto (spesso anche invertendo le direzioni del secondo e del terzo). Durante i frequenti cambiamenti della dinamica e dell’agogica all’interno di uno stesso brano, questi quattro punti si allargano (crescendo) e si restringono (decrescendo). Il risultato è che gli esecutori sono obbligati a cercare i quattro tempi almeno in dodici punti diversi dello spazio.

L’idea risolutiva è stata quella di concentrare tutti i movimenti in un unico punto, seguendo una configurazione di tipo centripeto e non centrifugo. La cosa bella di questa tecnica è che tale punto, definito appunto Punto Focale (d’ora in avanti indicato con PF), non risente dell’alternarsi dei diversi livelli di dinamica, e nemmeno di quelli dell’agogica. Qualunque essi siano.

Per presentare la tecnica del PF ad un gruppo nuovo di studenti faccio cantare loro una semplice scala maggiore, ascendente e discendente. Adottando il PF sono in grado di far cantare loro le più svariate, improponibili e strane variazioni della velocità e della dinamica senza dire una parola, solo con il gesto. E questo anche con persone di lingua e culture molto diverse tra loro. La cosa sorprendente è il fatto che reagiscono tutti perfettamente insieme, senza indecisioni né imprecisioni. Pur senza capire il perché.

Non si pensi però che l’unicità del punto di lavoro posto nel PF porti ad un gesto univoco, compresso e limitato! Naturalmente c’è piena libertà di movimento dopo aver colpito il PF. Ci mancherebbe altro… Ed è lì che si vede chi è nato per fare il direttore, e chi invece deve studiare molto per arrivare ad esserlo.

  1. La domanda nasce spontanea: quanto si è diffuso, da allora, e che risultati ha dato questo diverso approccio?

I grandi direttori del passato utilizzavano la tecnica cosiddetta “classica” che ho citato nella risposta precedente. In quel caso contava moltissimo la mimica facciale, ma soprattutto il carisma personale, l’autorevolezza, l’ascendente sull’orchestra, e poi la fama. Ma soprattutto la sintonia e la complicità con il primo violino, capo riconosciuto dell’orchestra, in grado di risolvere i passaggi più complicati di una partitura. Eppure, ascoltando le registrazioni del passato, soprattutto quelle dal vivo, non è raro imbattersi in attacchi non sincroni, sbavature e imprecisioni. Specialmente nei cambi di velocità. Esiste un video della Quinta Sinfonia di Beethoven dei Berliner Philharmoniker diretti da Karajan, in cui si sente che nel primo attacco gli archi non sono perfettamente insieme…[1]

Carlo Maria Giulini era un grande concertatore. Il suo gesto era molto armonioso ma piuttosto basso e di forma circolare, poco affilato e, detto con grande rispetto per l’artista, poco definito per quanto riguarda le direzioni dei diversi gesti-tempi. Ebbene, nell’ultima parte della sua grande carriera scelse di adottare la tecnica del PF, aggiungendo ai suoi movimenti una direttività che gli permise di ottenere una efficacia del tutto particolare.

Tra i direttori di epoca più recente è molto comune riconoscere l’uso del PF, con grandi vantaggi per quel che riguarda il trasferimento del pensiero musicale agli esecutori. Pochi mesi fa è venuto in Italia per tenere un corso di Direzione il M° Navarro Lara, apprezzato insegnante e direttore d’orchestra, che adotta la tecnica del PF.

Concludiamo così: una volta era normale vedere un direttore adottare la tecnica classica e non quella del PF. Adesso le proporzioni si sono completamente invertite.

  1. Lei trova che sia un metodo funzionale anche alla direzione di gruppi sia corali che strumentali? C’è davvero differenza tra dirigere un gruppo vocale e un ensemble strumentale?

La direzione dei gesti nei diversi tempi è identica! Ciò che cambia semmai è l’approccio. Spesso il direttore poco esperto si dimentica che, come il coro, anche i fiati devono respirare prima dell’attacco (ma anche gli archi e i timpani!), e non fa precedere l’attacco da un adeguato gesto di preparazione. La bacchetta poi obbliga opportunamente il direttore d’orchestra a compattare la posizione della mano destra, il cui gesto risulterà amplificato dalla bacchetta stessa (semmai resta il problema di quale posizione far assumere alla mano sinistra…). Questo non avviene per la mano del direttore di coro, libera dalla bacchetta, e altrettanto libera di assumere le più svariate posizioni, purtroppo. Palmo della mano rivolto mutevolmente in diverse direzioni (alto, basso, laterale); singole dita protese in improbabili posizioni più o meno statuarie (la più comune: l’indice aperto in fuori a indicare qualcosa anche quando non c’è niente di importante da indicare; l’altra è con il quinto dito un po’ alzato e aperto, che dà leziosità e manierismo a tutto il gesto); polso che si articola in piegamenti che indeboliscono la fermezza della trasmissione del pensiero musicale ecc… Per non parlare della bocca sempre aperta per mimare le sillabe, del busto ondulante, delle ginocchia piegate ad ogni battere o ad ogni attacco, dei piedi che camminano avanti e indietro… ma così ci allontaniamo troppo dalle mani, che sono il “punto focale” di questa intervista.

Vorrei approfittare di questa occasione per sfatare un mito, e parlare della cosiddetta tecnica “dell’anticipo”, tanto imposta dagli insegnanti di direzione d’orchestra quanto equivoca. Seppure in certe occasioni estremamente raccomandabile. In parole semplici (forse anche troppo…) si tratta di battere il tempo un po’ in anticipo rispetto al suono dell’orchestra. Trasferire questa situazione alle bacchette di un timpanista significherebbe che questi colpisca il suo strumento QUI……………….. ma il suono si senta QUI!

In pratica:    ∗________ BUM!

È interessante assistere alle giustificazioni (anche ragionevoli) che l’insegnante fornisce all’allievo per fargli accettare questa soluzione. Alcune, come dicevo poc’anzi, sono anche estremamente opportune. Ma la vera ragione di questa scelta risiede in quello che sto per dire. In passato le orchestre avevano difficoltà a capire le reali intenzioni del direttore – per esempio il primo attacco – data la rotondità e la fumosità del gesto della tecnica classica.[2] Era il primo violino ad agire da intermediario-traduttore tra il direttore e l’orchestra. Questo fatto, oltretutto, contribuirà in modo definitivo a conferire al primo violino il ruolo importantissimo e spesso risolutivo (al di là della scelta delle arcate ecc.) che egli ricopre all’interno di ogni orchestra.[3] Naturalmente il colpo d’arco del primo violino, soprattutto se è dato al tallone e immerso com’è nella selva di tutti gli altri archetti, risulta molto meno definitivo e chiaro del colpo di bacchetta del direttore, che di per sé sarebbe molto più visibile ed efficacie. Risultato: l’orchestra risultava sempre in ritardo rispetto al gesto del direttore. Quindi si trovava a combaciare con il momento del rimbalzo della bacchetta, sulla seconda suddivisione del tempo. Questo fatto attribuiva al gesto del direttore una configurazione di tipo centrifugo, tale per cui ogni reale tempo della battuta coincideva con il movimento ”in levare” della bacchetta.[4]

Non avendo alternative, i direttori del passato hanno deciso di “codificare” questa situazione di per sé inesatta, asserendo che il direttore dovesse sempre andare in anticipo rispetto all’orchestra. Come si dice: fare di necessità virtù… Resta il fatto che adesso, con l’adozione della tecnica del PF, questa situazione di anticipo del gesto potrebbe essere abbandonata.

Tornando alla sua domanda e comparando il coro con l’orchestra, occorre sottolineare come nel primo ci sia la presenza dell’accento della parola, in grado di facilitare, aiutare e indirizzare il fraseggio. Il problema nasce quando l’accento della parola non coincide con il primo tempo della battuta. Questo avviene soprattutto nella musica del Rinascimento, alla quale sono state aggiunte le battute – allora inesistenti – per facilitare l’esecuzione da parte di un cantore moderno. L’orchestra si appoggia invece normalmente sul primo tempo della battuta. È per questo che tutti i movimenti delle battute nella tecnica orchestrale – sia classica che con il PF – sono dati con una direzione verticale e percussiva! Ed è sempre per lo stesso motivo che l’andamento in due movimenti della polifonia rinascimentale assume invece una configurazione di forma parabolica, con il primo movimento piegato e morbido: l’antico tactus non aveva obbligatoriamente l’accento sulla sua prima metà; anzi, spesso proprio sulla seconda.

  1. Quindi anche ai cori liturgici, in cui spesso ci si trova a dirigere oltre alle voci, anche qualche strumento?

Certo! Dal punto di vista della tecnica direttoriale anche il coro liturgico può essere efficacemente diretto per mezzo del PF, a cappella o concertato con strumenti. Questo contribuirebbe sicuramente a qualificare i cori liturgici, senza tenerli in una condizione in qualche modo minoritaria. Non si offendano i cori che operano in ambito liturgico, ma se il loro direttore continua a trattarli come se non fossero in grado di diventare un coro valido e musicalmente preparato al pari di quelli che fanno i concerti, allora non potremo sperare che raggiungano il dovuto spessore artistico quando cantano nella liturgia. Senza naturalmente fare spettacolo…

         Faccio un esempio banale riguardo alla tecnica del direttore e la qualificazione del coro. L’uso del PF è in grado di suscitare una appropriata e opportuna risposta dei cantori agli attacchi in levare, che sono una parte importante e qualificante del fraseggio, e quindi della resa sonora. Per non parlare delle battute iniziali del brano, quando la tecnica classica deve attendere che si giunga all’intesa tra le sezioni del coro e anche all’interno della sezione stessa, prima di procedere tutti insieme in perfetta sincronia e scorrevolezza.

  1. A proposito degli strumenti da utilizzare durante la liturgia, qual è il suo pensiero? E – se c’è – qual è quello della Chiesa?

Il primo pensiero non deve essere il mio, ma quello della Chiesa. A costo di sembrare noioso devo ripetere ciò che forse tutti sanno, e cioè il contenuto della Costituzione Sacrosanctum Concilium, articolo 120:

“Nella chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, come strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere mirabile splendore alle cerimonie della chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle realtà supreme. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiale territoriale (Vescovo, n.d.r.), a norma degli artt. 22 comma 2, 37 e 40, purché siano adatti all’uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli”

Il discorso potrebbe diventare troppo lungo, considerando che anche l’organo a canne era uno strumento completamente profano prima di diventare ciò che è adesso. D’altra parte è anche vero che ha impiegato alcuni secoli per diventarlo. La fisarmonica, per esempio, ancora non ci è riuscita. Almeno non mi risulta. Le chitarre sì. Ma perché non arpeggiare gli accordi, invece di imitare sempre Keith Richards dei Rolling Stones…?

  1. Una provocazione. Per dirigere un coro parrocchiale è bene aver studiato direzione? Indipendentemente dal fatto di essere remunerati per farlo?

Probabilmente la risposta scaturisce tutta dalla sua seconda domanda. Se non c’è un riconoscimento anche di tipo economico, un direttore professionista non presta la sua opera all’interno della liturgia, o almeno lo fa solo occasionalmente. Ma la mia risposta alla sua prima domanda è questa: Certo che sì! Altrettanto provocatoriamente le chiedo: quando si deve addobbare la chiesa con i fiori per un matrimonio, chiamiamo uno che fa il fiorista di professione, o ci si affida al primo personaggio disponibile a farlo, che però di mestiere magari fa il calzolaio? Con tutto il rispetto per gli ormai introvabili calzolai…

  1. Spesso il direttore di coro, soprattutto liturgico, ha a che fare con cantori amatoriali. Che ruolo gioca un buon training vocale? Il direttore deve avere, quindi, anche solide competenze nell’ambito della tecnica del canto?

Se il coro vuole cantare, allora, come in tutte le cose, deve saperlo fare bene. E anche il direttore, naturalmente, deve conoscere il suo mestiere. Note calanti, ritmi imprecisi, portamenti, pronuncia sciatta o dialettale, accenti fuori posto, vocalità ingolata o immatura: sono tutte cose che non dovrebbero essere ammesse. Per evitare tutte queste situazioni sbagliate l’unica soluzione possibile è che il direttore conosca la materia, curi la preparazione delle voci, si occupi della qualità del risultato sonoro e metta la bellezza del fraseggio tra le priorità. Bellezza: non c’è soluzione senza di lei…

  1. Anche il repertorio fa la sua parte…

Il tasto è di quelli dolenti, ed è anch’esso legato alla bellezza. Un bel repertorio è alla base di tutto. Non si dovrebbero scegliere i brani seguendo solo le mode del momento, o assecondando i desideri di un piccolo gruppo, qualunque esso sia: sia il coro polifonico che vuole cantare tutto lui, sia il gruppo giovanile, che pure vuole cantare tutto lui. In un certo senso le due situazioni sono inconciliabili, soprattutto se ognuna delle due rimane ferma e arroccata nelle sue posizioni. Difficilmente nella liturgia si assiste alla coesistenza di questi due gruppi e dei loro diversi repertori. E questa è una situazione sulla quale si dovrebbero spendere un po’ più di energie e di impegno.

In tutto questo si inserisce la presenza dell’assemblea, e l’apparente necessità che canti tutto anche lei.[5] Ma c’è un errore di fondo: la presenza del coro polifonico non esclude quella dell’assemblea, così come la presenza del gruppo giovanile non ne facilita la partecipazione attiva. Lo vediamo ogni domenica: l’assemblea non canta i brani proposti dal gruppo dei giovani. Per tanti motivi. Volendo essere ottimisti, e senza arrivare a dire che l’assemblea non si riconosce in quei canti, bisogna osservare come il gruppo giovanile sia in grado di cambiare con frequenza i canti, prima che l’assemblea li abbia imparati. Molti compositori moderni e contemporanei (e l’elenco sarebbe davvero interminabile) hanno invece scritto preoccupandosi dell’assemblea, affiancando alle frasi polifoniche del coro alcuni semplici interventi dell’assemblea. La situazione diventa più complicata se si pensa alla musica antica, nella quale il coro aveva la parte predominante e unica. Ma un breve mottetto all’Offertorio, uno alla Comunione, che male fanno? O magari fanno del bene alla spiritualità dei presenti…?

  1. Per concludere. Esiste un programma ideale per una Messa ben cantata?

Purtroppo non è possibile proporre un repertorio che vada bene per tutte le situazioni. E poi l’ideale è nemico del reale. La scelta dipende dal contesto (San Pietro a Roma o chiesa parrocchiale?), dal coro (È bravo? Sa leggere? A quante voci canta di solito?), dal direttore (Ci sa fare o no?), dall’organo (Da quanto tempo non viene l’organaro a sistemarlo? Oppure è elettronico? Allora funziona bene, o mezzi tasti come al solito non suonano?), dall’organista (C’è? È bravo?), dal livello di partecipazione dell’assemblea (Se non canta mai e rimane sempre muta come succede di solito, inutile prevedere delle parti per lei.).Naturalmente escludiamo le canzonette e parliamo di cori, visto il contesto della vostra rivista. Il consiglio è sempre quello di cercare l’equilibrio, auspicato anche da tutti i documenti della Chiesa, tra il nuovo e l’antico, Nova et Vetera. Non certo perché la Gioconda è vecchia di 500 anni qualcuno si sogna di abbandonarla negli scantinati del Louvre! E nemmeno mi posso mettere in casa una scultura moderna se è troppo grande e invadente. O no?

Ma ci vuole un bel coro. E si ritorna sempre lì: bellezza e qualità. O se volete: qualità e bellezza. Invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia…

Grazie per essere stato così disponibile nel collaborare con FarCoro!

Grazie a voi per avermi letto.

[1] Apriamo una parentesi sull’attacco della Quinta. Si tratta di un 2/4 con inizio acefalo e tre crome a completamento della prima battuta, che unisce alla pericolosità dell’esecuzione la necessità di un suono molto incisivo e affilato. Tanto è vero che a volte, per risolvere tutto, si ha la sensazione che le tre crome iniziali vengano trasformate in una terzina data su uno pseudo-battere che non esiste. Per completezza riguardo il video di Karajan occorre dire che la sua predilezione verso i suoni accesi e brillanti dell’orchestra lo portava ad accordare gli strumenti vicino ai 450 Hz. Il risultato è che il Sol iniziale diventa quasi un Sol diesis…

[2] È noto l’aneddoto di quella famosa orchestra che si era messa d’accordo per attaccare tutti insieme quando la mano del direttore (anch’egli famoso) raggiungeva il quarto bottone del suo panciotto…

[3] Tale ruolo, in verità, è anche frutto di un retaggio storico. All’inizio le prime orchestre erano guidate contemporaneamente da due figure: il Kapellmeister, maestro al cembalo e concertatore, e il Konzertmeister, che era proprio il primo violino, reale direttore dell’orchestra. Si assistette poi all’unificazione delle due persone in quella del direttore attuale, ma ancora oggi è possibile rilevare questa ambivalenza del doppio ruolo nei manifesti dei concerti, dove si legge spesso la dicitura “Maestro concertatore e direttore”.

[4] In verità anche la nota ribattuta che le orchestre danno di solito sull’ultimo accordo, soprattutto alcuni decenni fa – oltre ad essere causata dal fatto che le file dei violini non erano divise, e che per suonare un accordo dovevano eseguire un bicordo alla volta – potrebbe essere nato dalla “codificazione” di una indicazione non chiara da parte del direttore.

[5] Che strano: nei documenti della Chiesa e di alcuni Papi c’è scritto che la partecipazione dell’assemblea al canto deve essere prima di tutto interna…