Alcuni anni fa, era il 2013,  tra fine Agosto ed i primi di Settembre,  un mio amico e collega, Graziano, conoscendo la mia passione per i canti di montagna, mi ha invitato ad andare in un luogo da lui ben conosciuto per il suoi trascorsi di gioventù, il Pian della Mussa. Siamo in provincia di Torino e più precisamente nel comune di Balme. Si tratta di un vasto pianoro, circondato da alte montagne,  le più alte delle Alpi Graie,  ovvero l’Uia di Ciamarella con i suoi 3676  metri e l’Uia di Bessanese  che di metri sul livello del mare ne segna 3604.  Da queste montagne nasce e  lungo i 2 chilometri in cui si espande  la piana  scorre il fiume Stura di  Lanzo, affluente del Po’, nel luogo poco più che un torrentello.                                         Appena giungi sul posto , attaccato ad una roccia, vedi una targa a ricordo: è quella dedicata a Toni Ortelli ed alla sua straordinaria creazione musicale, il canto di montagna per eccellenza, La Montanara.  Infatti  è  in questo luogo ameno ed incantevole  che nel Luglio del 1927 Ortelli   ha composto la nota canta.  L’autore era di nascita vicentino (Schio 1904) ma torinese d’adozione poiché in questa città   dapprima ha studiato all’Università  quindi ha lavorato inizialmente come  collaudatore di auto e poi come disegnatore tecnico alla Cogne prima di diventare uno dei grandi protagonisti dell’alpinismo torinese degli anni trenta e quaranta. Ed è li che è morto nel 2000.   Venendo al canto  esso nasce come suddetto nell’alta valle di Lanzo, al Pian della Mussa, luogo le cui sorgenti hanno alimentato fin dalla seconda metà dell’800 e per lungo tempo l’acquedotto di Torino. Acqua “pregiata”  poiché tutt’oggi essa fa parte,  a partire dal 2008,  delle forniture della Stazione Spaziale Internazionale dissetando gli astronauti.  Erano luoghi, quelli delle Valli di Lanzo, frequentati nella prima metà del ‘900 dalla borghesia torinese, ed in particolare proprio la Val di Stura dove, nel paese di  Ala di Stura,  si dimorava al famoso Grand Hotel, tuttora attivo. Tornando al canto racconta l’autore che sente levarsi dall’Alpe dell’Uia di Ciaramella,  un dolce canto,  forse la voce di un pastorello: «Lontano, verso l’Alpe della Ciamarella, un canto giovanile si alza nell’azzurro, forse un pastorello, confuso con il suo gregge, attende che il sole cammini verso Bessans, dietro i Denti del Collerin, per tornarsene a valle. “Lassù tra le montagne fra boschi e valli d’or…” cantavo senz’avvedermene”.   Egli pare  avesse  già sentito il motivo una sera in un’osteria di Balme. Giunto a casa ne trascrive testo e musica in una sera,  dedicando il canto al  ricordo dell’amico Emilio Bich, guida valdostana precipitata dalla Punta Zumstein del Monte Rosa il 4 agosto 1927.  Di seguito insegna  la canzone all’amico  Bepi Ranzi, trentino, che ne rimane entusiasta e la cantano assieme a due voci  per gli altri amici trentini nel locale torinese di via Mazzini la “Tampa Artistica”, laddove  c’è  anche Leo Saiser che con il Ranzi cantavano nel coro della S.O.S.A.T. (Sezione Operaia Soc. Alpinisti Tridentini) e che si fanno portavoce del canto in quel di Trento. E in canto piacque molto al punto che  Nino Peterlongo, fondatore e presidente della Sezione Operaia, richiese a Toni Ortelli la partitura per inserire  la canzone  nel repertorio del coro. Successivamente l’autore trentino Luigi Pigarelli l’armonizzò (inizialmente con lo pseudonimo di Pierluigi Galli)  aggiungendo la parte conclusiva da lui stesso ideata e ispirata alla leggenda di Soreghina. Allo stesso Pigarelli va quindi riconosciuto il merito della definitiva stesura armonica e poetica del canto. La  prima esecuzione pubblica del canto, rigorosamente ad orecchio,  risale al 7 aprile 1929 e venne effettuata dal coro della S.O.S.A.T. a Roma per l’E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche). Nel 1930, per iniziativa della S.O.S.A.T., la canzone venne edita come “Canto dei monti trentini”, con l’armonizzazione definitiva a firma  Luigi  Pigarelli.  Nel 1933 fu incisa per la prima volta su disco a 78 giri per “La Voce del Padrone – Columbia – Marconphone”. Il canto cominciò così la sua diffusione in tutto il mondo e divenne talmente noto, per esempio, da dare il nome ad un coro in Germania. Nel corso degli anni furono fatte diverse armonizzazioni della canzone per vari strumenti e persino per grande orchestra; il testo è stato tradotto in 148 lingue. Parole e musica della canzone di Soreghina risuonarono anche nell’aula dei Nobel a Stoccolma in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Salvatore Quasimodo, grande frequentatore delle Valli di Lanzo.  Questo canto, a ragione considerato l’inno internazionale della montagna, è ispirato alla leggenda “trentina” della fanciulla, forse principessa,  Soreghina,  la cui vita era legata alla luce del sole. Infatti  le era stato predetto che se si fosse lasciata cogliere ancora sveglia dalla mezzanotte, sarebbe morta all’istante. Ed infatti di notte ella si immergeva in un sonno profondissimo.  Accadde un giorno, nel suo peregrinare quotidiano tra “boschi e valli d’or”,  che s’imbatté in Ey de Net (Occhio di Notte), glorioso guerriero dei Duranni che proveniva dal regno dei Fanes,  scacciato dal regno stesso per aver osato aspirare alla mano della principessa Dolasilla . Questi era caduto da una rupe ed era rimasto privo di sensi. Il guerriero fu portato alla propria dimora e curato da Soreghina, che abitò con lui, una volta guarito, in una casetta di legno nella Valle di Fassa, al cospetto del gran Vernel.  I due giovani si innamorarono, si sposarono e cominciò per entrambi una vita felice. Sul mezzogiorno in particolare la ragazza  era più che mai contenta, sfavillante, piena di energia: al suo uomo  diceva che era il sole a darle tutta quella forza e soprattutto la vita.

Ma in una fredda giornata giunse alla dimora dei due innamorati un amico guerriero di Occhio della Notte. Soreghina, presa dalla curiosità, si avvicinò alla porta della loro stanza e sentì le parole che sottovoce Occhio della Notte rivolgeva all’amico: egli si sentiva legato a Soreghina da grande riconoscenza, gli voleva bene ma portava sempre “indelebile nel cuore” la bella Dolasilla.  Era già notte fonda quando Occhio della Notte, pentito di quanto affermato all’amico e della sua ingenerosa mancanza di lealtà, volle andare a vedere Soreghina che sicuramente dormiva profondamente, come sempre, il suo sonno profondo. Ma nell’aprire la porta, Soreghina gli cadde tra le braccia senza vita. Le ombre della notte l’avevano colta nel suo dolore per le parole udite e non gli avevano dato scampo.  Come si nota, le parole del canto menzionano appena questa storia, inneggiando peraltro alla bellezza della montagna e all’armonia che in essa può produrre un canto d’amore.  “E’ indubbio, tuttavia – come afferma il ricercatore Lorenzo Bettiolo –  che sia le parole, che evocano tempi e luoghi di sogno, che la bella melodia che accompagna il testo e, perché no,  anche la voce del solista nel canto, esercitano un fascino particolare che poche canzoni di montagna sanno suscitare al pari di questa”.  Ed è proprio cosi: io ed il mio collega, nel passeggiare lungo il pianoro in quel fine Agosto di oltre 6 anni fa,  canticchiavamo a due voci il canto ed io,  realmente, mi immergevo  nel testo lassù per le montagne fra boschi e valli d’or  fra l’aspre rupi echeggia un cantico d’amo”.  E poi,  lungo il torrente , a camminare  “tra i rivi d’argento”,   ovvero la riva del torrente cosparsa di pietre caratteristiche dal  colore argentato. E ad un certo punto salendo verso le montagna incontriamo  una grande roccia, solitaria lungo il pianore,  con sotto una casetta  forse “la capanna coperta di fior, la piccola dolce dimora di Soreghina la figlia del Sol” . Ovviamente è  solo una deduzione questa  legata all’emozione di vivere  e “respirare” quell’atmosfera  incantevole  del luogo   anche perché  nella prima scrittura  di Toni Ortelli   questa parte finale del  canto pare  non  fosse presente.