Criticità e suggerimenti operativi

Interrogarsi circa la situazione della musica liturgica in Italia oggi non è certo praticare un semplice esercizio, né si può avere l’illusione di avere risposte univoche e definitive. Il panorama risulta variegato ed eterogeneo, spesso legato a differenti realtà e tradizioni, benché sia comunque possibile estrapolare alcuni denominatori comuni. Nel presente contributo, pertanto, ben lungi dal volere enunciare risposte uniche e definitive, proverò a fare alcune riflessioni di carattere generale e tenterò contestualmente di indicare spunti o idee in ordine ad una implementazione risolutiva delle criticità attuali. Nulla di miracoloso né di utopico, si capisce, ma solo piccoli suggerimenti derivati per lo più dal buon senso e dalla esperienza di circa trentacinque anni di attività “sul campo”.

Alcuni problemi attuali

Partiamo da una prima considerazione, per nulla scontata: in ordine alle riflessioni che seguiranno, non possiamo prescindere dagli effetti avuti di conseguenza alla pandemia da SARS2 Coronavirus, la quale dall’inizio del 2020 ha ormai caratterizzato (ed in parte radicalmente modificato) il nostro modo di vivere. Tra le altre, anche le attività dei cori liturgici, a tutti i livelli, hanno subito stop di mesi se non addirittura di anni; laddove si è potuto riprendere, ci si è ritrovati con organici spesso ridotti, con i cantori prudentemente distanziati (quest’ultimo aspetto, peraltro, si è sorprendentemente trasformato in un’inaspettata risorsa positiva) e con indossata la mascherina protettiva, fatto quest’ultimo decisamente limitante alla normale e fluida uscita del suono: insomma, nonostante tutto, ci si è finalmente ricompattati per tornare a cantare pur sopportando non poco disagio. Molti osservatori sostengono che la pandemia abbia avuto effetti deleteri se non addirittura devastanti sulle attività dei cori parrocchiali, creando numerosi e sistematici problemi, e sancendo, nei casi più estremi, la fine di molte realtà; tale valutazione ha certamente un fondo di verità, ma credo sia onesto riconoscere che la situazione attuale racchiude in sé delle cause ben più radicate e che vengono da un lasso temporale più lontano: tentiamo di riassumerle e commentarle brevemente.

Anzitutto, il problema più rilevante appare essere il riconoscimento del ruolo della musica liturgica: pur notando una maggiore sensibilità da parte ecclesiale, sembra genericamente perdurare il concetto che il canto sacro sia una aggiunta slegata dal contesto rituale, quale fosse una colonna sonora della celebrazione. Da più parti si continua a battere sul chiodo della connessione, molto stretta, tra rito e canto, che si concretizza sotto i profili teologici, ecclesiali e liturgici: tuttavia, fin quando non sarà ben chiaro a tutti a cosa serva realmente la musica nella liturgia, persistendo dunque questo equivoco di fondo, ci saranno difficoltà di interpretazione e di gestione delle criticità. Inoltre, al di là degli opportuni e giustificati richiami alla ministerialità, parrebbe giunto il momento in cui venga riconosciuto ai musicisti un ruolo adeguato all’interno della comunità: una leadership, insomma, come già avviene in paesi esteri, di sicuro da non “regalare” al primo che passa, ma da conquistarsi sul campo e basata su una seria preparazione, corroborata da una solida esperienza ecclesiale. È chiaro come sia decisiva la questione della formazione musico-liturgica, a tutti i livelli e per ogni ruolo, sia esso di presbitero, di direttore del coro, di strumentista e di cantore: il recente convegno promosso da ANDCI dedicato alla figura del Maestro di Cappella, ad esempio, ha messo indubitabilmente in evidenza tale la necessità. Le proposte non mancano, dai Pontifici Istituti, ai vari corsi (anche on-line) per le variegate esigenze; le adesioni, peraltro, non sono scoraggianti, anzi: sono in tanti a frequentare e a spendere parte del loro tempo (spesso anche delle loro ferie e del loro denaro) per intraprendere dei seri percorsi di crescita professionale. Gli entusiasmi e i buoni propositi che si registrano al termine di questi intensi cammini, spesso si scontrano con le realtà lasciate – e puntualmente ritrovate – in parrocchia; occorre dire senza timore che talvolta la chiusura e la ottusità di certo clero, basata sulla sola volontà di tenere in mano la situazione senza voler delegare a chi ha effettiva competenza, si trasforma in una azione controproducente e divisiva: torniamo dunque al problema della leadership. D’altro canto è parimenti onesto rilevare come sussista ancora una frangia di musicisti (o sedicenti tali) che trattano l’azione liturgica come un “contenitore sonoro” da riempire, disinteressandosi quindi non solo della loro crescita personale, ma disattendendo pedissequamente i valori rituali dei canti proposti e la loro funzionalità, in nome di fantasiose sirene imbonitrici: l’esecuzione della “grande musica”, la proposta del repertorio canzonettistico “così i giovani vengono in chiesa”, l’ostinata presentazione di un singolo compositore in nome di un “pensiero unico” che rappresenta un impoverimento culturale o lo svilimento liturgico in nome della massima “facciamo cose che la gente conosce”. Anche tutte queste pie illusioni rappresentano un problema di prassi e non solo di ideologia: le scelte musicali nella liturgia, lo abbiamo già detto, hanno dei parametri di riferimento ben precisi e l’innegabile valore artistico dei canti dovrà essere teso a coniugarsi perfettamente con la loro valenza rituale. In definitiva possiamo dunque concludere che il musicista di chiesa genericamente inteso necessita di una formazione che contempli sia l’aspetto tecnico (musicale) che quello ecclesiale (liturgico), all’interno di un equilibrio il più possibile perfetto, e sostenuto fortemente dalla fede alimentata da una significativa esperienza spirituale personale: aggiungo inoltre, quale frutto di un importante cammino di studio che ho iniziato consapevolmente solo da qualche tempo, che sarebbe decisamente auspicabile la possibilità di una crescita arricchente anche sotto il profilo teologico; se da un lato ciò rappresenta il completamento di un ciclo formativo, dall’altro è innegabile che, applicata alla musica liturgica, la teologia offre la possibilità di entrare in profondità dei contenuti, comprendendo il senso della ritualità al fine di operare scelte di repertorio consapevoli, significative e aderenti.
Un secondo aspetto di criticità è da identificarsi nella grande difficoltà attraversata da buona parte delle realtà ecclesiali e che ha evidentemente effetti negativi anche sulle attività dei cori parrocchiali. Storicamente due sono state le fonti di approvvigionamento delle corali: i ragazzi delle classi di catechismo e le assemblee liturgiche. Infatti, come i bambini frequentanti la preparazione ai sacramenti potevano essere coinvolti nelle attività musicali della parrocchia garantendo potenzialmente una sorta di ricambio generazionale (almeno in prospettiva), la presenza anche numerica di una buona e corposa assemblea liturgica suscitava verso il coro interesse continuo, curiosità ed empatia, provocando in molti il desiderio di dedicarsi a questo particolare tipo di servizio. Specialmente fino agli anni Ottanta del secolo scorso, tali modalità erano ampliamente consolidate e radicate, al punto che molte compagini erano costituite da un numero così alto di cantori da non poterne accettare di nuovi o, nei casi più estremi, fare ciclicamente delle vere e proprie “turnazioni”. Il progressivo abbandono della frequenza alla Messa domenicale, trasformatisi in presenza saltuaria se non occasionale, il raffreddamento della partecipazione alla catechesi dei bambini sempre più attratti (insieme alle loro famiglie) da interessi di ben altra natura, insieme ad una generica disattenzione a cogliere seriamente i primi segnali di tale degrado mista ad un disinteresse dei responsabili liturgico-musicali, incapaci di valutare gli effetti se non in modo inadeguato e tardivo, hanno portato la situazione a essere, nel ventennio successivo, un viaggio verso un lento ma progressivo invecchiamento dei nostri cori, senza alcuna possibilità di sostituzione con giovani leve.

Oggi assistiamo ad uno scenario poco consolante, sostanzialmente diffuso in tutta Italia pur con l’eccezione di alcune oasi felici: abbiamo a che fare con cori la cui età media è piuttosto alta e con una forbice che si allarga a seconda si tratti di voci femminili o maschili. Queste ultime stanno progressivamente scomparendo, inutile negarlo: in tantissimi casi sono già in atto modifiche di organico da quattro voci miste in gruppi a due, massimo tre voci miste. Tale trasformazione, tuttavia, ha precise e serie incidenze non solo sulla struttura dei complessi vocali, ma anche sugli stessi repertori: se non è difficile trovare composizioni a quattro parti è altrettanto possibile accedere al Thesaurus del passato per reperire musiche a tre voci miste ma per Alto, Tenore e Basso. Si tratta di opere per lo più composte tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni immediatamente precedenti il Concilio Vaticano II, quando gli uomini di certo non mancavano nelle cantorie, anche quelli più piccoli definiti “rurali”, e la parte dell’Alto (Cantus) era sostenuta dalle donne o ancora dai bambini. A breve distanza di tempo la situazione si è completamente ribaltata: bambini e uomini sono praticamente spariti non solo dai cori ma purtroppo anche dalla pratica religiosa, mentre sono rimaste le voci femminili, nonostante da un decennio circa si intravedano pariteticamente anche qui segnali di una certa fatica.

 

Da ultimo, rimane sullo sfondo una ulteriore constatazione: facendo riferimento alle realtà del nostro tempo, tralasciando le Cappelle Musicali storiche che hanno alle spalle secoli di gloriosa e benemerita attività, ci si accorge che le “isole felici” corrispondono quasi sempre a circostanze legate a un Vescovo, un Rettore o un Parroco che hanno coscienza del valore intrinseco di un buon coro e, più in generale, di una ben organizzata e proficua attività liturgico musicale. In buona sostanza laddove la committenza è particolarmente sensibile, se “ci tiene” (come si suol dire, e non certo per un fatto estetico che sarebbe fine a sé stesso e in definitiva poco opportuno), è molto probabile che i musicisti siano messi nelle condizioni di poter lavorare bene e paradossalmente si faccia anche molta meno fatica a creare le condizioni di crescita e di sviluppo (reclutare i cantori, reperire fondi necessari per il mantenimento delle attività ecc.). Al contrario, siamo tutti perfettamente a conoscenza di esempi ben differenti, se non opposti, di cori lasciati trasandare o, addirittura, ostacolati e chiusi, non sempre con buona pace di tutti. Benché si tratti di una situazione consolidata e comprovabile, si fa molta fatica a comprendere come la Chiesa possa talvolta dare l’impressione di smentire sé stessa andando nei fatti contro i dettami enunciati dai documenti del suo stesso Magistero1; tale “umoralità” sarebbe probabilmente alquanto limitata se venisse universalmente metabolizzato il valore della musica nella liturgia e accettata la leadership professionale dei musicisti, come già detto, opportunamente formati e competenti. Ciò implica un vero passaggio, un deciso cambio di mentalità.

Suggerimenti e spunti operativi

Non tutto è però da buttare, non tutto è in declino miserevole e inesorabile! Esistono anche situazioni di vigore e di eccellenza: i contributi già pubblicati nei passati numeri della rubrica, ma anche tanti esempi sparsi per l’Italia, testimoniano alcuni confortanti segnali di luce, robusti spiragli cui aggrapparsi per costruire un nuovo futuro pieno di speranza. Da qui occorre partire con nuovo slancio ed entusiasmo, prima di tutto condividendo suggerimenti e proposte operative da attuarsi nel breve e nel medio-lungo termine: provo ad offrire alcuni spunti di riflessione, certo non esaustivi, ben consapevole che la medicina può anche non curare la medesima forma di malattia.
Anzitutto pare opportuno citare la scelta già operata in alcune Chiese Cattedrali o di una certa rilevanza, di costituire una Cappella formata da pochi cantori, professionisti, in grado di innalzare esponenzialmente il livello della proposta musicale fermo restando che alla guida è necessaria l’azione di un Maestro serio, preparato e formato secondo tutti i canoni precedentemente citati. Se da un lato il modello garantisce una qualità di assoluto spessore, dall’altro esso viene visto con un po’ di sospetto, sia perché risulta disancorato dalla realtà comunitaria ma anche perché si “teme” una sua eccessiva emancipazione dalla attività liturgica. Tuttavia, dove tale esperimento è già stato messo in atto e si è consolidato, i risultati sono stati consolanti e assolutamente incoraggianti; si potrebbe pensare che tale formula sia il crepuscolo di un ritorno al passato dove le Cappelle erano un vero tesoro di musica, ma anche di liturgia e di cultura: nel caso, il tutto dovrà necessariamente essere amalgamato e calato nelle esigenze rituali del nostro mondo contemporaneo.
Come già si accennava, sembra indispensabile la creazione di una mentalità di gruppo, comunitaria, dimenticando le pretese personalistiche ed evitando di intestardirsi esclusivamente sul “faccio da me”: nessuno si salva da solo, ogni crisi può essere evitata solo unendo le forze, non disgregandole. Insomma, una visuale nuova, d’insieme, meno individualistica ma ben più protesa verso una cooperazione reciproca che, accolga le risorse positive da parte di ognuno. Credo che in questi anni si sia fatto qualcosa, lo dico onestamente, e ne ho anche evidenze; tuttavia, ritengo che sia necessario non rallentare questo processo inclusivo, perché sappiamo bene che qualsiasi cambio di mentalità necessita di tantissimo tempo e di notevoli sforzi. In che modo si può costruire una visione di nuova coralità di queste dimensioni? Non è semplice da dire, neppure da teorizzare, perché le situazioni sono simili ma non uguali e richiedono quindi necessariamente passi e modalità differenti. Suggerisco soltanto due atteggiamenti basilari: il primo è quello di credere, come detto, in un progetto inclusivo, altrimenti inutile perdere tempo; il secondo è un atteggiamento morbido rispetto alle proprie condizioni di partenza, tentando di dare contributi “alla pari” senza manifestare la superiorità dell’uno o far pesare il limite dell’altro. Si potrebbe pensare quindi, specie dove esistano realtà precostituite di comunità pastorali, a una sorta di unione dei cori, in ambito ad esempio di parrocchie cittadine confinanti, o ancora di zone all’interno di un vicariato o decanato, almeno per le celebrazioni importanti dell’anno liturgico. Ancora, sia a livello diocesano che vicariale, andrebbero individuate delle figure di riferimento, credibili e competenti, che possano fungere da collegamento e supporto dei musicisti locali. Infine, è bene ci siano periodici incontri tra i Direttori di Coro! Ho sperimentato tale evidenza durante i miei anni trascorsi negli Stati Uniti: ogni due, tre mesi si organizzavano meeting tra i Music Ministers delle varie Chiese presenti nell’area, ed erano ottimi e stimolanti momenti di confronto e di sincera condivisione, cui spesso partecipavano anche i rispettivi parroci o pastori creando una visuale d’insieme in grado non solo di sfociare fattivamente in azioni rilevanti e in seri progetti, ma anche di superare malintesi e fraintendimenti i quali generano spesso le condizioni di base dei rapporti conflittuali.
Sempre a livello diocesano, se non già presenti, si istituiscano dei corsi specifici per i musicisti di chiesa, dove siano almeno trattati percorsi formativi inerenti la teologia della musica sacra, la musicologia liturgica, i criteri di formazione del repertorio con esempi pratici e applicabili insieme a eventuali altre materie specifiche (vocalità e tecnica della emissione per i cantori, tecnica della direzione per i direttori, strumento per gli organisti o gli altri strumentisti); allo stesso modo, è opportunamente incoraggiabile la convinta reintroduzione di corsi di musica liturgica nei seminari: sia in modo coordinato e continuativo, che con eventuali sedute in full-immersion, eventualmente utilizzando anche la modalità “a distanza” che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi tempi, è necessario che i futuri presbiteri siano preparati: prima di tutto alla conoscenza del “sensus ecclesiae” e alla comprensione del valore rituale della musica, alla pastorale liturgica sempre inerente alla musica e al canto proprio delle parti loro spettanti. In sintesi, l’ambito della formazione è quanto mai decisivo e imprescindibile: già si è fatto ampio cenno anche alla sua multidisciplinare trasversalità, liturgica, teologica e musicale.
Non a tutti è richiesto di sapere tutto, è chiaro, ma è pur sempre auspicabile avere ben presenti quali siano i punti di riferimento precisi, i principi ed i criteri: solo così si potrà aspirare a una aderenza tra il rito ed il segno che si trasformi in vera edificazione del popolo di Dio.
Ultimo punto che vorrei approfondire è quello relativo ai repertori e che immediatamente rimanda alla questione delle composizioni. Abbiamo lasciato (in tutto o almeno parzialmente) alle spalle alcune criticità storiche rappresentate dalle difficoltà sorte immediatamente dopo la fine del Concilio Vaticano II, entrando in una fase nuova e forse più matura del cammino, nonostante sussistano ancora equivoci e confusioni; molta musica è stata dunque scritta, anche di buona fattura e si è prestata una discreta attenzione ai nuovi testi, malgrado sia necessario un opportuno discernimento anche in questo ambito specifico. Inoltre, dopo un percorso lungo e complicato, si sta finalmente ultimando la revisione dei Libri Liturgici, con l’ultimo passo appena compiuto con la pubblicazione dalla Terza Edizione Italiana del Messale Romano; anche qui, benché siano presenti alcuni aspetti che avrebbero potuto essere gestiti sicuramente in miglior modo, va riconosciuto lo sforzo di consegnare ai presbiteri un volume che favorisse e agevolasse in primis il loro canto. La grande scommessa ovviamente è ora quella di farne buon uso.

Giorni fa, parlavo di tutte queste cose con un illustre Interlocutore che lamentava quanto ancora siano insufficienti le azioni per il repertorio del canto assembleare: è vero, molto è stato fatto ma la strada è ancora lunghissima! È necessario uscire dagli stereotipi, tra cui il fatto che la partecipazione del popolo significa “fare tutto” a prescindere, compreso cantare, ignorando che esistono anche momenti di ascolto e di sacro silenzio; ancora, senza cedere ai proclami entusiastici, tralasciare la convinzione che coro e assemblea siano alternativi, o l’uno, o l’altro: no! Coro e Assemblea possono coesistere, senza alcun problema, ma alla base deve esserci una seria progettualità musicale, basata sul realismo, sulla valorizzazione delle differenti possibilità e su una ispirata regia liturgico-musicale. Fatto questo, occorre pensare a un repertorio che sia davvero valido e che abbia finalmente il coraggio di escludere i brani inadatti, per far spazio a musica più corretta formalmente e aderente sotto ogni punto di vista; i tempi sembrerebbero finalmente maturi per poter procedere a una operazione di innalzamento del livello non solo della musica, ma più in generale del nostro stesso modo di celebrare la liturgia: per dirla con Joseph Ratzinger “la vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell’universo in attesa. E così essa redime la terra”.

Per concludere non si può prescindere dall’aspetto spirituale di chi canta e fa musica. Mons. Guido Marini, allora Maestro delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, così si esprimeva al “Giubileo delle Corali” di qualche anno fa: “Uomini e donne delle “scholae cantorum”, ricordate: il vostro canto deve trascinare verso l’alto, elevare le menti e i cuori, favorire il passaggio da questo mondo al Padre, dalla terra al Cielo, dal tempo all’eternità. Il vostro canto non può essere mondano e poco nobile; deve essere il canto degli angeli. Siate appassionati delle altezze di Dio!”. Non si tratta esclusivamente di un fatto “tecnico”, ma certamente anche spirituale: se la fede è assente non sarà possibile svolgere il proprio ministero ecclesiale in modo adeguato, onesto, convinto e proficuo per i fratelli.
Il futuro, anche quello prossimo, ci pone di fronte a sfide importanti e servono persone preparate e nuove buone idee per affrontarle; sta a noi agire con la coerenza e la prudenza dei “figli di Dio”, il tutto per la “gloria di Dio e la santificazione ed edificazione dei fedeli”.