Di Mauro Zuccante, compositore

Domanda frequente, rivolta a un compositore: «Vengono prima le parole, o viene prima la musica?». Attenzione, non mi riferisco alla sofisticata disputa storica tra l’Artusi e Monteverdi, per cui si discuteva se la musica fosse serva dell’oratione, o viceversa. Mi riferisco alla più banale curiosità che molti hanno, se, all’invenzione di una melodia, fa seguito la ricerca di parole adatte; o, al contrario, se l’atto creativo del musicista consiste nello sprigionare un potenziale musicale, già insito in un testo letterario preesistente. Ogni volta che qualcuno mi rivolge una domanda del genere, rimango interdetto. Per me è ovvio: il punto di partenza è il testo.

Riconosco, però, che questa non sia prassi universalmente praticata. Nella musica leggera, per esempio, esistono i parolieri, che hanno il compito di appiccicare versi a motivetti orecchiabili, già inventati da altri. A volte l’esito è demenziale: «Every day every night / Every second of my life / www mipiacitu / tu tu tu tu tu tu / i love you you love me / e mi manchi sempre più / non so che fai, chissà / ci penserai? / tu come stai? / è qualche mese che non ci sei, vedrai / mi scriverai / ma come stai […]»1.

Ma anche nella musica corale capitano casi analoghi. Il compositore americano Eric Withacre racconta che il testo di Sleep, uno dei suoi brani più gettonati, altro non è che una rabberciatura, per sostituire la poesia che egli, in origine, ha utilizzato. Non si era preoccupato di ottenere il permesso di mettere in musica quella poesia. Sicché, fu raggiunto da diffida. Il compositore, però, non volle rinunciare alle effusioni armoniche del suo brano, alle quali si era ormai affezionato. Ragion per cui, chiese a un amico di accomodarci sopra altri versi2.

Ripeto, operazioni di questo tipo non mi sono congeniali. Posso capire che preservare il carattere commerciale di uno standard musicale fortunato sia un valore a cui difficilmente si rinuncia, ma rimango dell’idea che, solo quando i processi generativi si fondano su un principio di verità, nasce un’autentica opera d’arte (per dirla, all’incirca, con Adorno). Un compositore sceglie un testo letterario, o lavora volentieri ed efficacemente su un testo dato, solo se i due linguaggi – poesia e musica – s’incontrano in un univoco e insostituibile afflato espressivo, non inficiato da altri scopi.

In un recente articolo, scritto a quattro mani con Valentina Posenato, dedicato a una celebre opera di Schubert, su testo di Goethe, Gesang der Geister über den Wassern, op. 167, D. 714 (1821), per coro maschile e archi, concludevamo dicendo che il capolavoro nasce da un incontro genuino, non artefatto, tra musica e poesia. E il segno di ciò è dato da una sorta di Stimmung3 che si genera tra materia sonora e significato delle parole.

Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

Nel mio piccolo, sono fedele al principio che ho appena sopra enunciato: compongo musica su un testo preesistente; e aggiungo che – salvo qualche rara occasione – traggo ispirazione dalla grande letteratura. Non sono presuntuoso. Non reputo le mie prove compositive eccellenti e, pertanto, meritevoli di accompagnare solo testi di livello magistrale. Figuriamoci! Trattasi di ragioni più prosaiche. La mia indole mi porta a prediligere, nel quotidiano, la lettura di pagine di buona letteratura e poesia. Sono tormentato dall’ansia di sprecare il poco tempo della vita; ragion per cui, evito le letture ordinarie e dozzinali. Insomma, l’estro di tradurre le parole scritte da altri, in suoni e canti scritti da me, il più delle volte, a causa delle mie paturnie, coincide con le pagine di grandi autori.

Ecco, di seguito, una carrellata di alcune mie opere corali, dove il pallino dell’ispirazione musicale è stato mosso da letteratura e poesia.

Dai tempi liceali, mi sono portato dietro l’idea di mettere in musica il Cantico delle creature di San Francesco. Gli ideali di comunione e di fratellanza con il Creato nutrivano, allora, il mio immaginario. Ma quell’ardore adolescenziale non era sufficiente per esprimere uno stile musicale convincente; a maggior ragione di fronte a un testo che si presenta in una forma così particolare: enumerativa. «Laudato si’ mi’ Signore, per questo, per quello, per quest’altro, e così via». Il rischio di cadere nell’effetto filastrocca era dietro l’angolo. Solo col passare degli anni, con lo studio e con l’acquisizione consapevole di alcuni modelli musicali storici, ho avuto modo di concepire un adattamento corale del Cantico delle creature (Laudes creaturarum, 2008), a mio giudizio, valido. Nella fattispecie, ho considerato la mera natura del testo francescano, cioè di lauda monofonica tardo medievale in volgare. Quindi, la mia versione corale altro non è che un brano dall’ossatura filiforme, monodica, che si dipana con libera semplicità, salvo qualche rigonfiamento sonoro (polifonia), in corrispondenza di alcune parole chiave. Ma, in sostanza, la scrittura simula più o meno fedelmente, la continuità di un canto monodico, svincolata da schemi e figurazioni simmetriche.

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

Sarò grato, finché campo, alle mie ‘profe’ del Liceo. Sì, perché – nonostante la negativa e rozza opinione comune – nella scuola italiana s’incontrano insegnanti assai capaci e generosi, che sanno suscitare curiosità e animare passioni negli studenti. Tutti ne abbiamo incontrato, ammettiamolo. Bene, ho ancora in orecchio la voce coinvolgente e la sincera commozione della ‘‘profe’ ’ di letteratura, quando leggeva Pascoli. Attraverso quel trasporto emotivo ho potuto cogliere quanto rilevante fosse la dimensione musicale, nei versi pascoliani. «Cerco sempre di intonare le mie liriche come se dovessero essere cantate […]», confidava Pascoli a un’amica. Perciò, più tardi, come compositore, alle prese con la trasposizione musicale dei testi poetici di Giovanni Pascoli, non credo di avere compiuto un’opera di invenzione, ma di svelamento. Mi spiego. Il flusso poetico del verso pascoliano scorre in un alveo fonico già predisposto al canto. Non è solo questione di rime e di regolarità di accentuazioni metriche. C’è una complessa sinfonia verbale di suoni ed echi, che alcuni critici hanno definito “fonosimbolismo”. C’è una corrente sotterranea di assonanze, consonanze, ripetizioni, onomatopee, che alludono alla corrispondenza tra il respiro poetico e quello musicale. Il giovane Pier Paolo Pasolini chiamava «musica delle parole» il poetare pascoliano. Fides (1995) è stato il mio primo modo di contagiare i più giovani del canto ammaliatore della poesia di Pascoli. Ma non è bastato. Ho realizzato un intero ciclo di 12 quadri per coro a cappella, che ho intitolato Calendario pascoliano (2012). Un percorso poetico-musicale agreste, scandito dallo scorrere delle stagioni (le stagioni della natura e della vita), su testi tratti dall’opera Myricae.

[…] «Ogni anno a te grido / con palpito nuovo. / Tu giungi: sorrido; / tu parti: mi trovo / due lagrime amare / di più.» […]4

Pascoli mi ha illuminato sulla successiva generazione di poeti italiani. In particolare, intorno all’ideale sinestetico; alla compenetrazione, cioè, di sfere sensoriali differenti, in cui le allusioni sonore giocano un ruolo preminente. Ecco, quindi, l’idea di una collana di pezzi, per coro e chitarra, sulle liriche di dieci poeti italiani del XX secolo: da Pascoli, per l’appunto, a Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Trilussa, Aldo Palazzeschi, Diego Valeri, David Maria Turoldo, Pierpaolo Pasolini, per finire con Pierluigi Cappello. Il titolo, naturalmente, Novecento (2020). Componimenti brevi, alcuni fulminei, ma pienamente compiuti nel definire un preciso moto dell’animo, per concorso di parole, immagini e suoni. Una citazione, tra le altre.

[…] «Jo ti recuardi, Narcís, ti vèvis il colòur / da la sera, quand li ciampanis / a súnin di muàrt.»5

Luigi Meneghello

Luigi Meneghello

La raccolta Novecento si chiude con un brano sui versi di Pierluigi Cappello. Ho conosciuto tardi questo straordinario poeta. Appena in tempo per affezionarmi alla sua persona, alla dolcezza del suo sorriso, alla precisione dei suoi ceselli poetici, poco prima che, ahimè prematuramente, ci lasciasse. La notizia della sua morte mi ha così scosso da farmi sentire complice di un senso di colpa nei suoi confronti. Per ammenda, ho voluto mettere in musica un’intera sua raccolta, come se volessi fare giustizia del destino, che si è accanito con tanta ingenerosità sulla sua mite esistenza. Ho impiegato qualche anno, ma alla fine ho musicato tutte le poesie di Ogni goccia balla il tango (un titolo che è già musica). Ho denominato le mie composizioni Canzoni di Pierluigi Cappello (2018 – 2020), per voci e pianoforte. Sono canti su rime rivolte ai bambini, ma che stupiscono anche l’adulto, il quale coglie come, nella descrizione del microcosmo di un giardino, trapelino squarci di natura universale. «Anche un bambino capisce che la poesia non è solo un gioco con le parole, e che lì dentro c’è qualcosa di più, che ha a che fare con i suoi sensi, la sua immaginazione e la sua anima», sostiene Cappello. E infatti, dietro l’apparente leggerezza, si cela la profondità e – come già accennato – tanta musicalità: «I bambini sono molto sensibili agli aspetti sonori, e dunque ai versi ben scolpiti. Bisogna avere una cura quasi maniacale, e le rime devono essere sorprendenti e concrete», dice ancora il poeta.

«Laggiù o per di là / si sente venire / un ta-tatatà: / è il picchio ad aprire / uno strano concerto» […]6

Quando ho messo mano alle canzoni di Fabrizio De André, a più riprese negli anni, per farne degli arrangiamenti per coro e pianoforte (1999 – 2019), ho avuto la sensazione di lavorare non su un materiale musicale, ma poetico. Cerco di spiegarmi. Sul piano musicale molte canzoni del cantautore genovese non fanno altro che riproporre degli standard. Tolte le parole, rimangono vuoti contenitori ai quali, francamente, si può rinunciare senza perdere granché. Diversamente, i testi vantano qualità e originalità, che superano di gran lunga il livello al quale ci hanno abituato le canzonette. Pertanto, nel rimaneggiamento corale, poco contano gli inevitabili tradimenti della veste musicale originale, perché è il testo letterario l’aspetto fondante delle canzoni di De André. E allora, da compositore, ti rendi conto che non stai semplicemente trascrivendo una ballad da un organico all’altro, ma stai lavorando su un testo tutt’altro che convenzionale; un testo personale che esige una cornice musicale altrettanto originale. Non stai arrangiando, stai componendo.

[…] «Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte / c’erano solo cani e fumo e tende capovolte / tirai una freccia in cielo / per farlo respirare / tirai una freccia al vento / per farlo sanguinare / la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek.» […]7

La mia lingua madre è il veneto. Perciò, se l’interlocutore me lo consente, mi esprimo preferibilmente in dialetto. Si sa, è questione di familiarità, praticità e immediatezza. Ma non solo. Nel proferire nella lingua madre, il suono delle parole sembra aderire più compiutamente e convincentemente al moto emozionale che intendiamo esprimere. «Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare»8. Bene, questo «nòcciolo di materia primordiale» è diventato il tema di un lavoro musicale, sui generis, per coro e strumenti, che ho realizzato proprio su testi di Luigi Meneghello. In appendice al romanzo Pomo pero (1974), lo scrittore vicentino ha pubblicato Ur Malo, una serie di 21 nonsense, affastellamenti di parole, espressioni gergali, esclamazioni, apparentemente sconnesse, ma, in realtà, raggruppate per assonanze ed equivalenze sillabiche, componimenti anche complessi. Come in una sorta di gramelot, l’orecchio coglie accenti e sonorità che determinano la qualità sonora inconfondibile della lingua veneta.

«cao schèo cóa rua / bao déo pria pua / ua / spéo mua crèa scróa / pie bróa stua pao / ióa / brao bua scóa stria / fia*»9

Credo sia stata un’avventura musicale tra le più divertenti e appaganti che ho vissuto; un’avventura che mi ha permesso di apprezzare l’inscindibile legame che c’è tra espressione verbale e musica; un’avventura che mi ha insegnato come la musica non sia altro che l’amplificazione dei gemiti primari attraverso cui ci esprimiamo e comunichiamo. Ho intitolato quest’opera To Biio, ovvero A Luigi (2008), accostamento anglo-veneto in omaggio alla cittadinanza multipla di Meneghello.

 

1.  Cfr. Gazosa, www.mipiacitu, 2001.

2. Cfr. E. Whitacre, Sleep, Eric Whitacre composer, conductor, speaker, https://ericwhitacre.com/music-catalog/sleep, 2022.

3. Disposizione d’animo, ma anche intonazione, accordatura. Termine (pressoché intraducibile) in uso nella critica letteraria tedesca e nella pratica musicale.

4. Cfr. G. Pascoli, In campagna, Canzone d’aprile, da Myricae, (1891 – 1903)

5.  Cfr. P.P. Pasolini, Il nini muart, Poesie a Casarsa (1942). (traduzione: Il fanciullo morto […] Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore / della sera, quando le campane / suonano a morto).

6. Cfr. P. Cappello, Picchio rosso, Ogni goccia balla il tango (2014).

7.  Cfr. F. De André, Fiume Sand Creek, Fabrizio De André (L’indiano) (1981).

8.   Cfr. L. Meneghello, Libera nos a Malo (1963), cap. 5.

9. Cfr. L. Meneghello, N. 6 – Sostantivetti maschili e femminili con un aggettivo, Ur Malo, Pomo Pero (1974) – * macchina, saltuariamente automobile, costruita dalla Fabbrica ltaliana Automobili di Torino (sic!).

10. «Biio» in veneto significa Luigi.