Intervista a Raffaele Cifani, direttore di coro, pianista, didatta, formatore, e arrangiatore vocal pop

Foto: Il Coro Enjoy diretto da Raffaele Cifani

Innanzitutto, molto piacere di conoscerti. Avresti voglia di raccontare ai nostri lettori qual è la tua formazione musicale e con quali realtà corali svolgi prevalentemente la tua attività di direttore di coro?

Oltre ai titoli accademici conseguiti in Pianoforte e Direzione di coro, la mia vera formazione musicale, quella decisiva, si è compiuta attraverso corsi, seminari e masterclass, oltre e soprattutto ai molti anni di tirocinio svolti in affiancamento a maestri che ho avuto la fortuna di vedere lavorare “sul campo”, con l’opportunità di carpire le tecniche e gli approcci messi in atto con realtà corali soprattutto scolastiche e giovanili.
A quel punto è stato del tutto naturale intraprendere la strada proprio della coralità giovanile, che mi vede ora alla guida di due cori associativi e tre scolastici in altrettanti Licei di Varese e Saronno, che fanno parte, questi ultimi, di Coralmente, rete nata per diffondere la musica corale nelle scuole del territorio.

Come sappiamo, la scelta del repertorio è uno degli aspetti spesso più delicati per un direttore di coro, in particolare quando si ha a che fare con delle voci giovanili. Quali sono i criteri che adotti nella scelta dei brani con i cori che dirigi?

La scelta del repertorio è davvero decisiva perché rappresenta l’aspetto che più di ogni altro determina l’appeal e il successo di un progetto corale, soprattutto per coloro che si approcciano per la prima volta al canto.
Il criterio che ho sempre seguito è quello di proporre un repertorio formativo, eterogeneo e stilisticamente vario, scegliendo brani che spaziano dalla polifonia al vocal pop, passando per il gospel e la world music; con il duplice obiettivo di fornire un’offerta didattica completa e di intercettare i gusti e le attitudini di una larga platea di potenziali coristi.
In particolare il vocal pop, che frequento assiduamente essendo anche arrangiatore di questo genere musicale, oltre ad essere estremamente attrattivo per i coristi in età giovanile in quanto molto vicino al loro background musicale, possiede la caratteristica di articolarsi quasi esclusivamente nella “zona del parlato”, tessitura entro la quale risulta molto agevole cantare per le voci giovanili che, essendo in formazione, non hanno ancora un’estensione così sviluppata da permettere di gestire range troppo estesi, soprattutto nella zona acuta.
“Se poi si ha l’accortezza di scegliere arrangiamenti particolarmente ricchi dal punto di vista compositivo, dove sono presenti tecniche compositive di derivazione colta come le imitazioni o alcune figure retoriche, si ottiene anche l’obiettivo di rendere il pop spendibile nella preparazione dei giovani ad affrontare con maggior consapevolezza la polifonia, dove queste tecniche abbondano.”

Raffaele Cifani

Come sei arrivato alla scelta del Benedictus della Papae Marcelli di Palestrina e per quale dei tuoi gruppi lo hai pensato?

Frequentando molto il repertorio pop, nel 2016 notai che il brano Drones contenuto nel nuovo album dei Muse, non era altro che il Benedictus della Missa Papae Marcelli, cantato con un testo diverso dal sapore distopico e apocalittico. Questa singolare operazione, che rientra in pieno nello stile eclettico e visionario del celebre gruppo rock inglese, ha destato la mia curiosità suggerendomi l’idea di utilizzare questo brano come ponte di collegamento tra il pop e la polifonia, costruendo un programma tematico che partiva dal Benedictus di Palestrina e terminava proprio con Drones. Era l’occasione perfetta per proporre al Coro femminile Enjoy, che fino ad allora aveva lavorato prevalentemente sul repertorio pop, il primo brano polifonico, oltretutto caratterizzato da una tessitura comoda per un approccio che doveva essere propedeutico.

Pietro Paolini, Il concerto (circa 1620-1630)

Come hai gestito il fatto che l’organico di quel brano è pensato anche per voci più gravi rispetto a quelle che avevi a disposizione? Hai avuto bisogno di fare trasposizioni? Come hai fatto a capire quale sarebbe stata la trasposizione più adatta per le voci a cui stavi proponendo questo studio?
Come sempre quando si ha a che fare con il repertorio antico, ho interrogato le fonti più vicine possibile all’originale, dalle quali emerge che il brano è scritto in ‘chiavette alte’ (chiavi di sol, mezzosoprano e contralto, ossia una combinazione di chiavi acute).
A quel punto, nonostante anticamente tale combinazione di chiavi fornisse ai cantori un segnale indiretto di necessaria trasposizione una terza o una quarta sotto, mi è parso naturale eseguirlo con un coro femminile “così come scritto”, senza necessità di operare alcuna trasposizione (se non un abbassamento di un semitono per garantire maggior agio nel registro acuto); in forza del fatto che all’epoca, non esistendo il concetto di intonazione fissa che abbiamo oggi, c’era una grande libertà nell’adattare l’altezza dei brani agli organici che si avevano a disposizione.

Raffaele Cifani

Come hanno accolto la proposta le tue coriste, abituate a cantare generi musicali spesso così lontani dalla musica antica?

Non ti nascondo che inizialmente c’è stata una certa reticenza, più per mancanza di abitudine a frequentare questo linguaggio che per ostilità verso la musica antica.
Poi però, con l’andare del tempo e via via che si è sedimentata in loro la bellezza del linguaggio polifonico antico, anche grazie allo studio di altri brani simili, è accaduto ciò che capita sempre con tutti i cori che preparo quando passano dal pop alla polifonia: le coriste stesse hanno cominciato a chiedermi di ampliare sempre più il repertorio polifonico rispetto a quello pop dal quale avevano iniziato.
E questa è in assoluto una delle più grandi soddisfazioni che ricevo nello svolgere il lavoro di direttore di coro, perché significa che quell’approccio “morbido” e graduale alla coralità impostato sul pop di cui parlavo all’inizio, funziona davvero.

Dal punto di vista didattico, quali strategie hai adottato nel montare il brano anche dal punto di vista della vocalità? Quali sono state le difficoltà incontrate e come le hai affrontate?

L’impatto con questo nuovo linguaggio è stato tutt’altro che indolore, soprattutto relativamente alla capacità di orientarsi ritmicamente all’interno dell’intreccio polifonico, al gestire l’intonazione, all’abituarsi ad una maggiore tenuta di fiato sulle lunghe frasi legate.
Tutte difficoltà che sono state affrontate soprattutto grazie ad un percorso di vocalità attivato in parallelo alle prove di repertorio, che ha permesso di risolvere gran parte di queste problematiche, facendo anche crescere moltissimo il coro nei brani già studiati e in quelli affrontati successivamente.
Tra le altre strategie adottate nel montare il brano si è poi rivelato utilissimo l’utilizzo del metronomo, strumento didattico spesso “demonizzato” in ambito corale (soprattutto se utilizzato nel repertorio “classico”), ma che a mio avviso è determinante per instaurare nel coro una solida consapevolezza ritmica, che nel caso del Benedictus ha permesso di risolvere la difficoltà di muoversi con disinvoltura all’interno delle naturali oscillazioni agogiche insite nello stile polifonico antico.

Vista l’esperienza che tu e le tue coriste avete avuto nello studiare questo brano, pensi che anche in futuro avrete modo di affrontare altri brani di polifonia rinascimentale? Perché?

Dopo il Benedictus abbiamo già affrontato altri brani rinascimentali e certamente proseguiremo su questa strada, perché sono convinto che la vera crescita di un coro, dal punto di vista vocale e musicale, sia possibile solo affrontando questo repertorio; anche per quei cori che, per scelta, decidono di dedicarsi solo a generi non “classici”, come ad esempio il pop. Nella mia personale esperienza con il Coro Enjoy, la crescita maturata nel repertorio pop non sarebbe mai stata possibile senza l’introduzione del percorso dedicato alla polifonia, in particolare rinascimentale, che ancora oggi rappresenta l’altra metà dell’anima del coro.


Ascolta! Il Coro Enjoy esegue il Benedictus della Missa Papae Marcelli di Palestrina

Donne e uomini nella polifonia sacra del Rinascimento

Nel Rinascimento la polifonia liturgica era eseguita solo da cantori uomini: le parti di contralto erano cantate da uomini con voci naturali chiare (tenori acuti che sfruttavano le risonanze di testa), oppure da falsettisti e pueri (o da una combinazione di queste tipologie vocali); il soprano era assegnato normalmente ai fanciulli, talvolta raddoppiati o sostituiti da falsettisti, e solo nel tardo ‘500 iniziò a diffondersi, soprattutto a Roma, l’impiego dei castrati.

Le chiavi assegnate alle varie voci per indicarne la tessitura richiesta erano solitamente quelle standard o ‘naturali’ (chiavi di do nelle posizioni di soprano, contralto e tenore; chiave di fa nella posizione del basso); tuttavia, alcuni brani potevano essere scritti nelle cosiddette ‘chiavette’, un termine che identifica una combinazione di voci con ‘chiavi trasportate’ alte (violino, mezzosoprano, contralto e tenore o baritono), molto diffuse fra i compositori italiani del ‘500. Vedere un brano impostato con queste chiavi acute implicava per l’esecutore un trasporto sottinteso, da realizzare all’impronta scegliendo un tono decisamente più basso (solitamente una terza, quarta o una quinta sotto), sia che si cantasse a cappella, sia in presenza di uno strumento da tasto d’accompagnamento (il cui strumentista era ben abituato a questi trasporti estemporanei).

Queste tessiture alte erano invece perfettamente congeniali in quei luoghi dove i cantori erano unicamente donne, ossia i conventi; in quel caso le suore per eseguire polifonia avevano più opzioni: scegliere brani notati in ‘chiavette’ ed eseguirli senza trasportare, sceglierne altri in chiavi standard ma sostituire il basso o tutte le parti troppo gravi con strumenti, oppure trasportare le voci problematiche un’ottava sopra (contrappunto permettendo).