Ricordo, anni fa, di aver visto un film che dal titolo nulla lasciava presagire della pregnanza del suo contenuto, invero assai educativo. Paradise road (La strada del Paradiso) era il titolo di questo film che narrava le vicissitudini di un gruppo di donne occidentali, di varia nazionalità (inglesi, olandesi, australiane e americane) rinchiuse in un campo di concentramento giapponese, a Sumatra, durante la Seconda guerra mondiale. Sottoposte alle violenze psicologiche e corporali che una prigionia di tal fatta in sé comporta, queste valorose signore, trovarono la forza di opporsi all’avversità del loro destino, fondando un coro. E tale fu la loro bravura e la loro volontà di comunicazione attraverso il canto che anche i loro aguzzini giapponesi finirono ben presto per esserne contagiati, al punto da modificare il loro efferato comportamento.

Perché abbiamo affidato a questo racconto l’exordium del nostro saggio? Di primo acchito sembrerebbe che nessun nesso leghi il titolo di questo lavoro alla trama del film. E, invece, un nesso c’è ed è solidissimo. La morale che si ricava dalla visione di questa pellicola è molto semplice e, nello stesso tempo, molto significativa. Essa ribadisce una volta di piú il valore etico, universale della musica, del canto corale in particolare, la sua insostituibile funzione pedagogica nel processo di formazione della personalità dell’individuo.

A ben vedere, quelle donne recluse, cosí diverse fra loro per cultura, provenienza geografica ed estrazione sociale, si ritrovarono unite ad affermare l’incomparabile grandezza di quei valori che da sempre spingono gli esseri umani a coesistere, a cercare gli uni negli altri la possibilità di comune sopravvivenza attraverso il cantare in coro.

Esprimendo loro stesse in una comunità corale, quelle prigioniere, dimentiche dei loro affanni, delle loro miserie, delle loro angosce, vinsero il terrore dell’isolamento affidandosi al canto, consapevoli della forza straordinaria che le loro voci avrebbero esercitato esprimendosi nella sublime nobiltà dell’arte.

È sicuramente vero che chi canta conquista la capacità di comprendere la bellezza dell’universo; manifesta la sua gioia; esce dall’isolamento nel quale lo tiene la società moderna; comunica con gli altri esseri viventi; possiede la facoltà di agire e di operare verso la diuturna aspirazione alla perfezione.

Dall’armonia della voce nasce l’armonia dello spirito. Non a caso, i filosofi greci, latini e medievali facevano coincidere l’armonia degli astri con l’armonia dei suoni musicali. E l’armonia musicale, specie se espressa col canto, abitua all’ordine e al rigore; sviluppa l’armonia di tutte le manifestazioni umane, nello spirito come nell’intelletto; insegna a essere modesti ovvero consapevoli delle proprie risorse e umili, ovvero delle difficoltà che vi sono per raggiungere la meta.

Cantare serve a donare un sembiante di eternità a pensieri e a parole che altrimenti non avrebbero senso. Le emozioni piú forti dell’animo umano, la felicità, l’amore, la sofferenza, il dolore sono come personificate dalla voce, la quale libera un messaggio che risuona e suscita sensazioni sempre diverse e mutevoli in colui che ascolta.

Non a caso già nel sesto secolo avanti Cristo, Pitagora poneva la musica al primo posto nell’educazione dell’uomo e la considerava una medicina dell’anima. Platone, la avvicinava alla filosofia fino al punto d’identificarla con essa.

Agli albori del Medioevo, Boezio riteneva turpe l’uomo che non possedeva la conoscenza della musica e delle lettere mentre Isidoro di Siviglia, nelle sue Etymologiae sive Origines affermava che «sine musica, nulla disciplina potest esse perfecta» (senza musica nessuna disciplina può essere considerata perfetta), come, dire: senza musica non esiste nulla. Guido d’Arezzo non esitava ad affibbiare il poco encomiastico appellativo di «bestia» a coloro i quali praticavano la musica senza conoscerne l’intima essenza mentre san Tomaso d’Aquino considerava vergognoso non saper cantare e lo valutava tanto grave quanto non saper leggere.

In piena epoca rinascimentale, Shakespeare poneva sulla bocca di Lorenzo, all’inizio del quinto atto del Mercante di Venezia, parole profetiche sulle virtú della musica: «l’uomo che non ha alcuna musica dentro di sé, che non si sente commuovere dall’armonia di dolci suoni, è nato per il tradimento, per gli inganni, per le rapine. I moti del suo animo sono spenti come la notte, i suoi appetiti tenebrosi come l’Erebo. Non fidarti di lui. Ascolta la musica».

Nietzsche sosteneva che «una vita senza musica non è una vita».

Potremmo continuare cosí all’infinito e troveremmo sempre nei pensieri dei filosofi, dei poeti, dei letterati, degli uomini di cultura, degli educatori, del passato come del presente, espressioni analoghe a quelle appena riportate.

Non siamo di certo noi i primi ad affermare l’enorme importanza che riveste una precoce educazione musicale per la formazione globale della persona e a ricordarne qui gli indiscutibili benefici. E, si badi bene, non si tratta dei benefici di una semplice «informazione», la quale è mera conoscenza ed elencazione di dati esteriori; neppure di semplice «pratica musicale», importante senza dubbio, ma tale che, se non incastonata entro un progetto didattico mirato e non armonizzata con un sapere generale, potrebbe rimanere avulsa da un contesto di cultura e di indagine interiore e non andar oltre lo stadio di pura tecnica; neppure si pone l’accento sulla «istruzione», intesa come un prosieguo logico e ordinato di conoscenze, il rischio delle quali può essere quello di chiudersi in una sfera intellettualistica. L’educazione riguarda l’uomo, la sua completa formazione; vuole da lui stesso cavar fuori – secondo, anche, il significato etimologico del verbo «educare» che deriva dal latino e-ducere – quanto di meglio egli possiede, in modo che la sua autentica personalità si riveli e abbia coscienza di sé stessa, si sviluppi armoniosamente e fiorisca secondo le capacità e le inclinazioni che le sono proprie.

In tale caso si può parlare solo di «benefici» apportati da un’educazione musicale che risulta valore autentico. Allora, solo allora l’educazione annovererà anche le informazioni, le pratiche, le istruzioni sopra ricordate, fondendole unitariamente e superiormente.

Per questi motivi l’educazione musicale riesce a portare il discepolo all’interno stesso della musica e a portare la musica nel cuore della personalità del discepolo. L’allievo diventa cosí non solo uditore o ripetitore o esecutore, ma musicus, in quanto scienza e pratica si fondono allora in lui in una superiore conoscenza e in una mirabile sintesi.

Roberto Goitre, un didatta fra i piú insigni del secolo scorso, pioniere del rinnovamento dell’insegnamento della musica in Italia e strenuo sostenitore dell’educazione precoce del bambino attraverso la pratica del canto corale, sosteneva infatti che sin dall’infanzia, la musica avrebbe dovuto far parte di quel progetto formativo generale il contenitore naturale e istituzionale del quale doveva essere la «scuola». In tale progetto, la pratica corale avrebbe dovuto svolgere un ruolo principale, non foss’altro perché nell’ambito della didattica musicale, essa è la disciplina piú altamente formativa della psiche e dell’intelletto umano.

Di fatti, ogni iniziativa musicale educativa proposta al di fuori della scuola avrà sempre il sapore di un imbarazzante intervento di recupero e avrà quindi una parziale quanto tardiva capacità di incidenza nella formazione globale del discente. Ogni rimedio di tipo piccolo-riformistico, di carattere settoriale, per quanto seriamente concepito, non avrà mai la minima possibilità di sortire risultati di fondo e duraturi se non sarà in grado di condurre un’azione decisa per avvicinare la società civile alla consapevolezza che la mancanza di un’educazione musicale di base significa privazione di un elemento insostituibile nel processo di crescita e di formazione dell’individuo.

D’altra parte, riteniamo che ancor oggi, prima sorprenda e poi generi fastidio quanto riportato nella Relazione del Corpo ispettivo sull’andamento generale dell’attività scolastica e dei relativi servizi per l’anno 1980-1981, là dove si legge che «nell’imminenza della riforma dei programmi d’insegnamento elementare (!), non si perda d’occhio l’importanza di una vera educazione musicale precoce. Dal momento in cui i bambini arrivano a scuola, si dovrebbe cominciare a nutrire di esperienza musicale il loro spirito, per sviluppare il senso del ritmo e la percezione dell’altezza dei suoni, esattamente come in loro si sviluppa il colpo d’occhio e il senso della misura e delle distanze: capacità che certamente non sono innate». Parole profetiche, queste degli ispettori ministeriali, rimaste peraltro drammaticamente inascoltate se, a sette lustri di distanza dalla stesura di quella relazione, siamo ancora costretti a denunciare una situazione a dir poco disastrosa dell’insegnamento della musica in Italia, nella scuola primaria e non solo in quella.

Il fallimento dei tentativi ministeriali che negli ultimi decenni hanno preteso di riformare l’insegnamento della musica nel nostro Paese è sotto gli occhi di tutti.

Come scrisse Eugenio Montale in un suo celebre epigramma, «è inutile parlare di riforma quando non s’intuisce neppure la forma».

A tutt’oggi nessun documento ministeriale in materia di riforma dell’insegnamento della musica della scuola primaria e secondaria prevede infatti che:

  • d’ora in poi, a tutti i bambini e a tutte le bambine della scuola elementare sia garantita, col contributo di personale qualificato ed esperto nel settore, una educazione musicale centrata sulla pratica corale e strumentale, oltre che sulla conoscenza degli elementi di base del linguaggio musicale;
  • che sia assicurata loro la possibilità di iniziare lo studio di uno strumento musicale fin dal ciclo primario;
  • che sia consolidato l’indirizzo musicale nella scuola secondaria di primo grado, assicurando l’attivazione di un numero adeguato di corsi in ogni provincia, sulla base delle richieste avanzate dai varî istituti;
  • che sia rafforzata la presenza della musica nel curriculum generale delle scuole secondarie di secondo grado;
  • che sia resa operativa l’istituzione dei licei musicali con l’assunzione di personale specificamente preparato e predisponendo, con opportuni finanziamenti, sedi adeguate e attrezzature idonee;
  • che siano promosse e sostenute tutte le iniziative necessarie per creare un circolo virtuoso tra strutture formative e istituzioni di produzione e di diffusione della cultura e della pratica musicale.

E pensare che soltanto privilegiando questo percorso l’Italia potrebbe davvero ambire a diventare un paese come tanti altri in Europa nel quale la musica la si insegna sul serio. Altrimenti, perdurando l’attuale situazione, l’Italia continuerà ad essere un paese di sordi e di analfabeti musicali.

Vogliamo fare qualche esempio? In un’inchiesta pubblicata tempo fa dalla casa editrice «Il Mulino» di Bologna, su un campione di sessantamila soggetti, nella fascia d’età compresa fra i quindici e i ventiquattro anni, il 23% non ascolta mai, sponte sua, alcun tipo di musica. Mai! Il 26%, molto raramente, cioè per caso, di rimbalzo, mai per scelta. Per la metà dei giovani italiani, la musica – tutti i generi di musica – resta un universo alieno, muto.

Se dal consumo passiamo alla pratica, la situazione è ancora peggiore. Soltanto il 9% della popolazione sa suonare bene o male uno strumento: una percentuale questa, rappresentata per grandissima parte dai ragazzini di età compresa fra gli undici e i quindici anni che testimonia quanto importante se non decisivo sia l’insegnamento dell’educazione musicale impartita in età precoce, sui banchi di scuola e non lasciata al libito dell’iniziativa personale cosí come la riforma dei cicli scolastici prevederebbe.

Che l’Italia sia un paese nel quale la musica, quella seria per intenderci, occupa un posto del tutto insignificante nella società civile, lo aveva compreso assai bene anni fa il grande direttore d’orchestra rumeno Sergiu Celibidache. Alla imprudente domanda di un giornalista che gli chiedeva che cosa pensasse della situazione musicale italiana, visto che lui in Italia aveva soggiornato a lungo, diretto moltissimo e anche tenuto memorabili corsi di perfezionamento, la risposta del Maestro fu una di quelle che non lasciano scampo: «Che straordinario e strano paese è il vostro», disse allo sprovveduto cronista. «Una volta ci si veniva per apprendere la musica. Si trattava di un viaggio obbligato per ogni musicista che volesse apprendere i segreti dell’arte dei suoni. Ed era un’avventura meravigliosa: basta leggere le lettere di Mozart o di Mendelssohn, per rendersene conto. Ma, oggi, di questo passato, non è rimasto piú nulla. L’Italia fa scuola nel mondo della moda e va benissimo in questo senso per chi voglia comperare vestiti, camicie, scarpe e calze, ma per la musica è meglio lasciar perdere. In questo versante si può soltanto perdere tempo».

Esagerava il Maestro rumeno rilasciando questo implacabile giudizio sulla situazione musicale italiana oppure non faceva altro che rilevare, sia pure con espressioni colorite, un dato di fatto e per giunta incontrovertibile?

Chi se la sente qui di affermare che la musica gode in Italia di quella considerazione, di quell’importanza, di quel peso nella vita sociale del cittadino che meriterebbe? Mai come nel momento attuale la musica occupa in Italia un ruolo periferico, per non dire ininfluente, nel quadro pedagogico dedicato alla formazione dell’individuo. Ormai in Italia sta estinguendosi ogni residua traccia di cultura musicale.

Il nostro Paese ha infatti una pessima vita musicale. Con questa affermazione non intendiamo riferirci alle tradizionali stagioni d’opera o concertistiche dei maggiori teatri nostrani (anche quelle in crisi grazie ai demenziali tagli finanziari decisi dal Ministero dei beni culturali) ma a una normalissima pratica musicale (corale o strumentale che sia), svolta da soggetti adeguatamente alfabetizzati nel corso dei normali cicli scolastici.

La musica, affidata ad una attività limitata, è per di piú malamente distribuita, territorialmente e socialmente, è praticata ancor meno e, di fatto, non viene insegnata nella scuola, o tanto poco e disorganicamente da non lasciare seria traccia nella formazione della persona. È amaro doverlo constatare, ma in Italia non esiste ancora una vera educazione musicale, un progetto educativo che abbia nella diffusione del sapere musicale e nel conseguimento di un’esperienza attiva della musica il suo punto di forza. In Italia, l’aspirazione a una società civile in cui la musica occupi un posto importante appartiene al regno dell’utopia.

Sembra quasi che nella società attuale stia prevalendo l’idea scellerata che la musica non sia necessaria all’uomo. Mai come in questi ultimi tempi essa è stata vilipesa e umiliata, considerata come qualche cosa di inutile per la crescita morale e civile dell’individuo.

Se consideriamo il problema dal punto di vista esclusivamente pratico e finanziario, secondo il quale con la cultura (e, dunque, a maggior ragione, con la musica) non ci si riempie la pancia, giungiamo alla conclusione che la musica non serve a nulla, essendo un costoso e frivolo perditempo.

Come la poesia non serve a nulla, come guardare il sole che si perde dietro l’orizzonte e cosí come tante altre azioni o gesti che compiamo ogni giorno e che ci donano emozioni.

Ma noi sappiamo che non è cosí. Anche se l’amore per il bello, la passione per l’arte, il delirio per quel dolce rumore della bellezza, come ebbe a dire una volta Vincent van Gogh, non hanno apparentemente alcuna utilità, senza di esse la nostra esistenza sarebbe povera, vuota, senza senso. La bellezza nasce da ciò che non è mai stato pronunciato prima; dall’ineffabilità del «non detto»; dal mai percepito; da una improvvisa scintilla di armonia che ci colpisce e ci fa comprendere quale dono meraviglioso siano i nostri sensi.

La musica sta tutta in questa scintilla di luce, in questa vertigine di ebbrezza, in qualsiasi sensazione che ci viene alla mente mentre la facciamo o l’ascoltiamo.

La musica non serve a nulla, cosí pensano i poveri di spirito . Essa innalza invece cattedrali di bellezza là dove c’è aridità e miseria delle coscienze.

Nell’arte non ci sono verità assolute. La musica pone di continuo domande alle quali non sempre siamo capaci di rispondere. È come il cielo che muta di colore e di intensità in maniera incessante.

Cosí come non possiamo racchiudere una porzione del cielo in un barattolo per meglio osservarlo, ogni volta che lo desideriamo, cosí non siamo capaci di dare una risposta ai segreti dell’arte.

Forse proprio perché la musica, la piú misteriosa e inafferrabile fra tutte le arti, non serve a niente, essa ci appassiona, ci infiamma, ci rapisce, ci sublima.

Quando una voce si fonde con altre voci in un coro, nasce qualche cosa di nuovo: non è piú quella voce a esistere; è la voce di un corpo nuovo che vive una sua vita autonoma, che ha un suo colore, una sua forza e, soprattutto, una sua espressione.

Chi canta in un coro si rende conto di ciò. Si rende conto di essere parte indispensabile di un nuovo organismo e sa di contribuire alla vita di esso con la sua voce, con la sua volontà, con la sua disciplina, con il suo pensiero, con il suo sentimento.

Già agli inizi del Novecento, Alberto Savinio, nel suo libro La scatola sonora (Milano, Ricordi, 1955), affermava che «la musica è elemento essenziale dell’educazione» e che «non può esservi civiltà senza musica. La musica insegna a vivere, nel senso piú profondo e metafisico della parola. E quella sola civiltà sarebbe perfetta ove tutto quanto, uomini e cose, si movesse a suon di musica».

Purtroppo, la forza dell’abitudine, irriducibile nemica della verità, per il suo potere e strapotere di far ritenere normali, accettabili, o almeno sopportabili situazioni che normali, accettabili o sopportabili non sono e che, anzi, gridano vendetta, gioca in proposito tiri mancini facendo credere che questa situazione poi cosí tanto disastrosa non sia.

Se la musica si insegna nella scuola dell’obbligo poco e male, al punto da non lasciare seria traccia nella formazione della persona, che importa: gli Italiani, con il loro estro, con la loro riconosciuta vivacità d’istinto, con le loro innate attitudini, con le grandi tradizioni musicali che sono state loro tramandate dal passato, sanno supplire a tale carenza. Ma non è affatto vero che sia cosí. Non si supplisce alla mancanza di formazione organica nemmeno con le piú straordinarie qualità naturali e la piú ricca delle civiltà musicali.

Il problema ha invece le dimensioni di un autentico vuoto culturale, di proporzioni gigantesche ed è in continua, irreversibile espansione. Esso non sopporta giustificazioni o stentate ammissioni parziali, investendo situazioni oggettive generalizzate e precisi orientamenti di fondo.

Se è vero che la sopravvivenza di una società consiste nell’assicurare la trasmissione delle conoscenze e dei valori che essa ritiene essenziali per la conservazione della propria identità, oggi nel nostro paese ci troviamo di fronte, almeno per quanto concerne la cultura musicale, a un atteggiamento di sfiducia a voler considerare la musica non soltanto un’arte ma un formidabile strumento pedagogico e formativo.

La pratica musicale rappresenta nella società civile una forza enorme. Purtroppo, sovente, essa viene impartita in malo modo e con difficoltà. Lo sviluppo dell’attività musicale e, soprattutto, della pratica corale non può non riguardare soltanto l’Italia ma l’Europa intera. La vita culturale di una nazione, che comprende la vita corale, contribuisce a sviluppare la partecipazione e la cooperazione nelle relazioni sociali, culturali e politiche. Questo è un problema importante per l’avvenire della democrazia. Ma è altrettanto importante mantenere assai stretti i legami fra educazione e cultura in quanto essi si alimentano e si arricchiscono reciprocamente. Risvegliando nei bambini e nei giovani l’amore per la musica e ogni altra forma d’arte espressiva si crea un potente antidoto alla perniciosa cultura del consumismo e dell’omologazione del gusto.

Se pensiamo quasi cinquant’anni fa Roberto Goitre, nel suo saggio Validità del canto corale diceva queste stesse cose, possiamo farci un’idea di quanto poco o nulla sia stato fatto e quanto sia ancora lunga la strada che il nostro Paese deve percorrere per mettersi alla pari con quelle nazioni europee che hanno individuato nella cultura e nell’educazione globale dell’individuo, l’obiettivo primario su cui investire risorse e profondere le migliori energie.

Per essere ancora piú espliciti, occorre dire che una politica culturale si riconosce dalle idee guida che la informano e dai criteri con i quali essa viene gestita. Perché se «politica culturale» vuol dire trasformare la cultura in un fatto che appartenga alla vita di tutti i cittadini e non solo a una parte privilegiata di essi, allora è fuor di dubbio che nel nostro paese di cultura se ne fa ben poca. Al contrario, una intelligente, mirata, illuminata politica culturale, rivolta alla diffusione e all’incremento del sapere musicale, dovrebbe voler dire rendere la musica non piú evento fuori del comune, non avvenimento eccezionale, ma un fatto consueto, quotidiano (il caso dell’Orchestra nazionale giovanile del Venezuela, frutto di un modello didattico e musicale ideato e promosso da José Antonio Abreu è lí a testimoniarlo). Un’abitudine, dunque. Meno musica d’élite, piú attenzione alla realtà della scuola, ma non a parole e con promesse vacue. Con fatti concreti, facilmente verificabili. A incominciare da un serio e congruo apporto finanziario.

Come facciamo a credere che la riforma in atto dei cicli scolastici scaturisca da una visione organica e non frammentaria delle situazioni dinamiche che esistono in questo paese e che, all’interno di essa, sia riservato alla musica un percorso educativo senza soluzione di continuità, dalla scuola elementare all’università o sia piuttosto il frutto del solito pasticcio all’italiana?

Come facciamo a credere che le ore e ore di trasmissioni radiofoniche dedicate alla musica di consumo, vera e propria spazzatura acustica, e gli indecenti spettacoli televisivi siano soltanto il frutto di ferree leggi di mercato o, al contrario, scaturiscano da una strategia piú perversa volta a mantenere la società italiana al piú infimo livello di analfabetismo musicale?

Noi non crediamo affatto che i giovani di vent’anni che oggi vanno in delirio negli stadi di fronte al loro idoli canzonettari, quando ne avranno cinquanta cambieranno genere musicale e si metteranno a cantare Palestrina e Monteverdi o si esalteranno ascoltando un Lied di Brahms.

Ma davvero la società italiana si merita tutto questo?

La musica è una delle basi fondamentali della vita culturale di un paese che vuol definirsi civile: essa è un patrimonio essenziale e imprescindibile per lo sviluppo della società democratica. Agire contro la musica significa agire contro l’educazione, la crescita e la consapevolezza di coloro che nella società vivono e operano; significa minacciarne concretamente il futuro, lo sviluppo intellettuale e psichico.

Basterebbe volgersi indietro, leggere la storia, per vedere come la presenza della musica nel contesto delle discipline considerate formative dell’individuo abbia svolto un ruolo determinante, come essa sia sempre stata ritenuta elemento troppo essenziale della struttura sociale perché se ne potesse fare a meno. Senza risalire troppo nel tempo, ecco che cosa scriveva il grande educatore e pedagogista Giuseppe Lombardo Radice nel 1923, nelle note al Quadro di orientamento per la formazione dell’orario delle classi della scuola elementare: «agli insegnamenti artistici è fatto un posto assai grande perché si vuole che essi, soprattutto il disegno e il canto, siano considerati discipline fondamentali nelle scuole dei fanciulli». Al di là del tono fin troppo enfatico e dell’eccessivo ottimismo nell’innata forza creativa dello spirito umano capace di suscitare manifestazioni di carattere squisitamente artistico nell’uomo ancor fanciullo, le parole di Lombardo Radice esprimono il giusto apprezzamento nei confronti di discipline, allora come oggi, considerate o inutili o a malapena ricreative.

Senza pretender di rivoluzionare un sistema di pensiero molto condiviso, cerchiamo di dare una risposta a questa semplice domanda: perché il termine cultura impaurisce e quello musicale, impaurisce ancor piú? Perché, quando non è direttamente abbinato a «turismo» o a «sport» la parola cultura diventa una parola ostica?

Forse perché richiama fatica e studio, applicazione e metodo, vivacità e acutezza d’ingegno? Tutti vocaboli progressivamente messi al bando dall’odierna società che non ha tempo da perdere e vuole realizzare tutto subito e in fretta: un destino che strategie ossessivamente affermative, d’immagine e da record a ogni costo del mondo sportivo, indicano benissimo.

Per questo da noi cultura rima sovente e bene con «scocciatura»: poco redditizia a livello di ritorno d’immagine. Vuoi mettere le manifestazioni sportive rispetto a quei patetici manipoli di bambini che si ostinano a cantare in coro, che amano proporre repertori raffinati e non le canzoni dello Zecchino d’oro, che credono nel valore socializzante del far musica insieme? Che vada bene, fanno soltanto un po’ di tenerezza. Nulla piú.

Da qualche tempo si è insinuata in coloro che non praticano il canto corale (e sono la maggioranza) la convinzione che esso sia un’attività riservata a una classe ristretta, fatta di iniziati, di appassionati, di fanatici della polifonia. Ciò spiegherebbe il perché, a causa di questa idea sbagliata, le attività corali in Italia, siano economicamente poco sostenute dalle istituzioni e figurino al fondo della lista delle priorità. Al contrario, le attività sportive godono di un’attenzione di gran lunga maggiore. Può essere per lo spettacolo che esse offrono o per gli ideali che inculcano nei giovani che le praticano, come il lavoro in équipe, la salute fisica, la volontà di riuscire?

Nonostante sia ormai stato dimostrato con argomentazioni scientifiche alla mano, come l’esperienza corale non rappresenti soltanto un importante elemento di aggregazione ma anche e soprattutto un fatto culturale che ha peso nell’esistenza e nella formazione dell’individuo, sembra che alla nostra classe dirigente questa realtà non susciti alcun interesse, non sia meritevole di alcuna attenzione.

Mai come oggi, invece, il verbo «educare» è stato un termine a parole cosí sacro e nei fatti un’utopia tanto irraggiungibile.

Ciò che soprattutto preoccupa in questi ultimi tempi è il progressivo distacco tra cultura media e interesse alla musica nella maggioranza delle persone che seguono senza un particolare impegno le vicende quotidiane della vita nazionale.

Nessuno, certo, è disposto a negare l’importanza dell’educazione musicale, salvo poi sentirsi pienamente autorizzato a non interessarsene. È un fenomeno inarrestabile, quando vi concorrano – come sta avvenendo nella nostra società – la desuetudine per mancanza di una forza stimolante (ecco la funzione primaria della scuola!) e quindi l’indifferenza, che finirà magari per divenire intima insofferenza. Sul piano dei riconoscimenti ufficiali, la forma sarà pur sempre rispettata. E, senza intenderne la grandezza e l’incommensurabilità, i grandi creatori della musica continueranno a suscitare rispetto, compresi Palestrina, Monteverdi e Bach. Ma, al riparo dell’ufficialità, quali saranno i veri rapporti di identificazione?

Tentare oggi di educare alla musica un ragazzino di quindici anni, già refrattario a ogni tipo di espressione musicale che non sia quella che gli viene dai modelli circostanti, è una pia illusione.

Dalla scuola materna s’ha da cominciare, altro che storie! Con metodo, intelligenza, sensibilità. Nel bambino la sensibilità si risveglia dalle sensazioni che egli riceve. Piú tardi le riceve, meno sviluppate risulteranno le sue capacità musicali. L’educazione al suono e alla musica deve essere attiva, vivificante per influenzare lo sviluppo delle capacità dell’individuo. Educare alla musica e con la musica. A quattro anni può essere già tardi per formare l’orecchio musicale. Autorevoli studi di psicologia hanno dimostrato come le attitudini mentali del bambino siano le piú idonee per un apprendimento precoce della musica. Fin da quando vive nel grembo materno, egli assorbe tutto ciò che il mondo circostante gli trasmette e ne fa tesoro, una volta nato, nel momento della rielaborazione e della verifica cognitiva di ciò che ha appreso. Orecchio e voce sono due elementi legati indissolubilmente fra loro. Coltivando la voce si migliora anche la qualità uditiva dell’orecchio. Per questa ragione la pratica corale è un fattore importantissimo nel processo educativo del bambino. Essa deve diventare prassi comune dell’iter didattico non un qualche cosa di episodico o, peggio ancora, di eccezionale. «Le prime abitudini», sosteneva Rousseau, «sono le piú forti». Come può esservi familiarità con la musica se non la si pratica fin dalla piú tenera età? L’educazione musicale, come ogni altra disciplina, è un processo naturale che si svolge e progredisce in virtú di esperienze dirette effettuate in ambito scolastico. Nel nostro paese si pretende invece che a undici anni, con il vuoto musicale pressoché assoluto alle spalle, un ragazzo prenda in mano un violino e diventi un novello Paganini. Chi lo potrà fare in maniera consapevole? Soltanto chi avrà ricevuto un’adeguata educazione musicale in seno alla famiglia, frequentando la scuola materna, partecipando a un coro di voci bianche o facendo pratica strumentale di gruppo. Nei paesi d’Europa in cui l’insegnamento scolastico della musica non è rimasto soltanto una sterile dichiarazione di intenti ma si è trasformato in qualche cosa di vivo e di palpitante nelle coscienze degli individui; in cui ci sono piú cori e complessi di musica d’insieme che discoteche, sono quelli socialmente e civilmente piú evoluti.

Proviamo sempre un senso di doloroso fastidio quando dobbiamo rifarci alle esperienze di altre nazioni, magari meno progredite della nostra sul piano economico e industriale, ma di gran lunga piú emancipate su quello della cultura e dell’istruzione.

In Ungheria, ad esempio, l’educazione musicale ha inizio nella Scuola materna, la quale prevede sezioni appositamente costituite ad orientamento musicale. Il periodo dai sei ai quattordici anni, quello cruciale per lo sviluppo psicologico e intellettuale dell’individuo, costituisce «l’obbligo scolastico» e si compie nella Scuola primaria generale, la durata della quale è di otto anni. Qui le lezioni di musica sono impartite dall’insegnante di classe in ragione di un’ora alla settimana nel primo anno; di due ore dal secondo al quarto anno compreso, mentre dal quinto all’ottavo anno, la musica è insegnata da docenti specializzati, per due ore settimanali, alle quali si aggiungono altre due ore di attività corale. Ma a fianco delle migliaia di Scuole primarie generali operano, diffuse sull’intero territorio nazionale che, ricordiamolo ha una superficie pari a un terzo di quella italiana e una popolazione di poco superiore ai dieci milioni di abitanti, quasi duecento Scuole primarie generali musicali, che con le sezioni staccate arrivano a cinquecento unità. Queste scuole, volute da Kodály, sono in via di accentuato incremento, avendo suscitato il piú forte consenso tra i diversi strati della popolazione, urbana e contadina. Si differenziano da quelle normali unicamente per il maggiore impegno musicale: la musica è curata a fondo, da insegnanti specializzati, fino dalla prima classe – in ragione di sei ore settimanali nei primi quattro anni, di quattro ore piú due di attività corale nel secondo quadriennio – verso una formazione di base completa, articolata nell’educazione ritmica e dell’orecchio, nel canto popolare, nel canto corale (il coro a tre-quattro voci è un obiettivo metodicamente perseguito), nella conoscenza graduale della teoria, nella pratica dell’ascolto musicale, commentato e discusso. La parte strumentale può essere curata, da chi lo richieda, fuori dell’orario normale, nelle Scuole musicali di insegnamento strumentale.

Passando al grado medio, dai quattordici ai diciotto anni, incontriamo la tradizionale distinzione tra Scuola secondaria ad indirizzo umanistico, cioè il Liceo (Gynmasium), di quattro anni, che dà accesso all’Università e ad altre scuole del grado superiore, e Scuole professionali.

Nel Liceo la musica è obbligatoria nei primi due anni, rispettivamente con due ore e un’ora. In tutti e quattro gli anni peraltro sono previste a parte due ore di canto corale, facoltative, ma molto incoraggiate e frequentate, mentre lo studio di uno strumento, come nella scuola primaria, può essere curato fuori dall’orario scolastico nelle nominate Scuole musicali di insegnamento strumentale. A fianco dei Licei sono stati istituiti Licei speciali musicali, aventi la medesima struttura didattica dei Licei normali, con l’unica differenza di un numero superiore di lezioni di musica, cioè quattro ore settimanali nel primo anno, tre nel secondo, due nel terzo e nel quarto, ed inoltre, costantemente nell’intero quadriennio, due ore settimanali di canto corale. È opportuno sottolineare che questi Licei, con maggior impegno musicale, sono del tutto distinti dai Conservatori di musica, in quanto il loro compito non è quello di formare futuri musicisti di professione ma di introdurre attivamente e organicamente alla pratica musicale, fuori da qualsiasi scelta di carattere professionale: si curano il canto popolare, la pratica corale, facoltativamente anche le esercitazioni strumentali d’insieme (per coloro che abbiano dimestichezza con gli strumenti), si studia la storia della musica.

Tralasciando di occuparci dei Conservatori di musica e delle Scuole superiori pedagogiche, nelle quali vengono formati gli insegnanti della Scuola primaria generale, dal quadro degli ordinamenti didattici ungheresi emerge chiaro e inequivocabile il ruolo insostituibile che nella pubblica istruzione viene assegnato alla musica, intesa come disciplina essenziale per la formazione della persona, per una piú completa partecipazione alla vita e alla società, per una piú ampia capacità di conoscenza e di sensibilizzazione nella sfera estetica e dei rapporti percettivi con la realtà.

Basterà riportare qualche pensiero di Zoltan Kodály (il massimo propugnatore, assieme a Bela Bartók, dell’educazione di massa del popolo ungherese), per avvertire una fede profonda nella funzione educativa della musica, solidamente ancorata ad una concezione sana ed ottimistica dell’uomo, delle sue attitudini, del suo inesauribile istinto a scoprire sé stesso e il mondo che lo circonda: «la musica è una parte indispensabile della cultura umana. È imperfetta la cultura di colui che manca di essa. Non vi è uomo completo senza musica. È chiaro, di conseguenza, che la musica deve essere compresa tra le discipline che si insegnano nella scuola. […] «Si è accertato che nelle scuole nelle quali la musica è obbligatoria e viene quotidianamente insegnata, i bambini apprendono meglio e piú facilmente ogni altra materia. Non è un fatto misterioso e magico, questo: esercitare ogni giorno la musica stimola la mente, in modo tale che l’apprendimento di ogni altra materia viene favorito».

Da affermazioni di carattere enunciativo, Kodály passa altrove (i suoi scritti sull’educazione musicale sono numerosissimi e occupano un vasto periodo della sua vita di artista e di educatore) ad una rappresentazione gradualmente piú razionale ed esplicativa: «il fine della musica è di capire meglio, di sviluppare ed espandere il nostro mondo interiore. Senza musica la vita non può essere completa. […] Noi dovremmo fare il possibile per infondere consapevolezza di questa verità in tutti. […] Scopo della musica non è quello di essere giudicata, ma quello di divenire la nostra essenza. La musica è il nutrimento spirituale per il quale non vi è alcun surrogato. Colui che non si ciba di musica vive in anemia spirituale fino alla morte. Non vi è nessuna vita spirituale completa senza musica, poiché l’animo umano ha delle ragioni che possono essere illuminate solo dalla musica. […] La musica non è uno svago per il fior fiore della società, ma una sorgente di forza spirituale che tutta la gente colta dovrebbe tendere a trasformare in bene pubblico. […] «La musica non è un privilegio per pochi ma un bene per tutti». La musica deve appartenere a tutti e tutti devono essere messi nelle condizioni di beneficiarne, non casualmente ma attraverso un rigoroso itinerario scolastico.

Le immagini e le espressioni di cui Kodály si vale non si discostano da una visione illuministica della musica. Ma è di grande portata il fatto che proprio in un artista di chiara formazione idealistica sia tanto radicata la visione della musica come bene realmente destinato a tutti, contro ogni tendenza aristocraticamente riduttiva dell’area di influenza del linguaggio musicale, tanto di frequente riconoscibile nel pensiero intimo di grandi personalità della cultura d’ogni tempo. Per troppi uomini di cultura la musica è il «dono divino», di cui, ahinoi!, solo pochi sanno godere i «benefici effetti»: perché questo sia, non si indaga, preferendosi il beato abbandono ad una visione mistica della musica, dell’arte, per coprire, in ultima analisi, la sfiducia organica nell’uomo, da un lato, la discriminazione classista operata dalla società, dall’altro.

Basterebbe dunque l’esaltante lezione della didattica ungherese e la lungimiranza di quei governanti che nel dopoguerra prestarono attenzione alle proposte didattiche di Kodály e di Bartók per ribadire una volta di piú che il fattore piú importante dell’educazione musicale è solo quello di porre il discente nella possibilità di vivere in età precoce e in maniera attiva l’esperienza musicale. L’educazione delle sensibilità percettive e delle abilità riproduttive sono fattori determinanti per lo sviluppo della personalità del bambino. Se questo intervento educativo non viene impartito al momento giusto ovvero quando egli si trova nelle condizioni migliori per poterlo ricevere, nessun insegnamento posteriore potrà surrogare in alcun modo le lacune accumulate nel corso degli anni trascorsi senza aver vissuto alcuna esperienza musicale.

Per tale ragione, nell’ormai lontano 1972, Roberto Goitre, memore dell’insegnamento ungherese che aveva potuto constatare in prima persona frequentando in diverse occasioni i «templi kodályani» di Kecsemét e di Pecs, dava alle stampe il suo metodo Cantar leggendo, per la lettura cantata a prima vista. Con quest’opera il maestro e didatta torinese richiamava l’attenzione di insegnanti e operatori musicali sulla necessità di ripristinare in Italia la lettura della musica con il cosiddetto sistema del «do mobile» onde avviare seriamente un processo di alfabetizzazione musicale a vasto raggio e per mezzo dello strumento piú immediato e accessibile che un individuo possa praticare ovvero la voce umana. Ricollegandosi direttamente al modello d’insegnamento di Guido d’Arezzo (secolo XI) e quelli kodáliani, Goitre dimostrava con il suo Cantar leggendo come l’appropriazione della scrittura sonora, del vocabolario ritmico, della grammatica armonica e della sintassi compositiva, in una parola, l’alfabetizzazione musicale, non rappresentasse un fatto necessariamente specialistico né un arido preliminare al conseguimento di una tecnica strumentale; viceversa costituisse esattamente quell’area socializzabile del sapere musicale che non poteva in alcun modo essere surrogata attraverso l’assurda didassi della teoria e del solfeggio parlato ancor oggi impartiti nei nostri Conservatori di musica. Impadronirsi della competenza musicale vuol dire giungere a leggere la musica per vivere la musica; ovvero, essere capaci di individuare da soli, senza alcun ausilio strumentale le altezze sonore; educare l’orecchio a percepire le differenze di durata, d’intensità, di timbro. Per opporsi all’incredibile carenza educativa dei programmi della scuola primaria e secondaria Roberto Goitre si batté con ogni energia per riportare in Italia, cosí come anni prima aveva fatto Kodály in Ungheria, la vera tradizione dell’insegnamento della musica attraverso il canto.

È lui stesso a descriverci con parole vibranti il percorso seguito per giungere a tale traguardo, nella prefazione al suo metodo: un percorso lungo e difficile, fatto di tentativi, di sperimentazioni, di verifiche, ma alla fine, un percorso vincente che ha saputo restituire alla didattica e alla coralità italiana dignità e rispetto. Perché in una situazione cosí disastrosa com’era quella italiana degli anni Settanta (ma non è che nei primi due lustri del secondo Millennio le cose vadano poi cosí meglio…), tra molti pseudo didatti e pseudo pedagoghi, Roberto Goitre seppe, con il suo impegno intellettuale e artistico, fornire nuove metodologie e strumenti operativi rivoluzionari; perché nessun altro al pari di lui è riuscito a liberare la musica dal settorialismo e dall’isolamento culturale, evidenziandone le potenzialità educative e socializzanti.

Con la sua azione vulcanica e inarrestabile, egli concepí un vasto piano di rinnovamento pedagogico-didattico-musicale che comprendeva non soltanto il ripristino della lettura cantata a prima vista ma anche la sperimentazione scolastica, la formazione musicale degli insegnanti, la ricerca e la diffusione del canto popolare e il suo uso didattico, lo svecchiamento dei programmi conservatoriali di teoria e solfeggio, la ricerca didattica per avviare alla musica i piccolissimi, la pubblicazione di testi funzionali ai suoi intenti (Cantar leggendo, Canti per giocare, Far musica è…).

Agí sempre con metodo e serietà. Preciso fino allo scrupolo, studiò e verificò ogni punto di quanto veniva man mano proponendo. Lesse, risalí alle fonti musicologiche, ansioso anzi tutto di dotare ogni suo procedimento di una solida base scientifica. Si mosse in fretta, quasi con furia, come se presentisse la brevità della vita che gli rimaneva da vivere. Trovava però sempre il tempo e la pazienza per ascoltare con attenzione i problemi e i resoconti delle maestre di scuola elementare alle prime armi nell’applicazione del suo metodo. Non esitava a mutare opinione e a modificare il suo stesso lavoro di fronte ai risultati di una sperimentazione effettuata «sul campo». Come la musica è cosa viva, altrettanto viva doveva essere la metodologia che ad essa portava.

«È inutile nasconderci – scriveva Roberto Goitre nel suo già citato saggio Validità del canto corale – che, malgrado le battaglie coraggiosamente combattute e tuttora in corso, ancor oggi la scuola italiana e con la scuola la società non siano in grado di dotare l’individuo di una seria formazione musicale. Si direbbe che dopo otto anni di scuola dell’obbligo e anche tre di scuola dell’infanzia, le nostre istituzioni scolastiche non riescano a sfornare esseri musicalmente competenti. Di chi è la colpa? Dei vetusti programmi scolastici che dovrebbero preparare la classe insegnante? Dei Conservatori di musica? Della mancanza nelle istituzioni, di precisi orientamenti metodologici? Della fruizione smodata e insana dei mass-media durante gli anni della prima e della seconda infanzia? […] Salvo casi particolari e facilmente individuabili, là dove un qualche insegnamento della musica viene impartito, non importa a quale livello scolastico, vige la deleteria prassi di insegnamento per imitazione invece di offrire ai discenti, una volta per tutte, attraverso un’opportuna e qualificata metodologia, gli strumenti capaci di far leggere la musica a prima vista, di far pensare musicalmente mediante l’educazione dell’orecchio; il che consentirebbe di dare la chiave per conoscere ogni altro testo musicale. A questo punto – concludeva la sua amara analisi Roberto Goitre – verrebbe da pensare che la nostra pedagogia scolastica non valuti (o non voglia valutare) a fondo le illimitate possibilità dell’individuo, non valorizzi le sue facoltà psichiche ed intellettive, non le soccorra nella crescita; infatti, fornendogli già bell’e confezionate le informazioni invece di aiutarlo a scoprirle, gli atrofizza la capacità di pensare, gli spegne il fuoco del desiderio di conoscere, favorisce il suo disinteresse e, a poco a poco, lo porta a odiare quanto gli viene proposto».

Questo deprecabile stato di cose ha finito per radicare in molti insegnanti l’opinione che la musica non possa contribuire a plasmare la personalità dell’individuo in quanto disciplina specialistica, troppo difficile, troppo lontana dagli interessi del bambino, quindi improponibile. D’altra parte, non si può certo farne colpa ai maestri. In fondo essi si sono formati a una scuola dove la musica non è mai stata presa in seria considerazione, non potendosi certo definire musica ciò che ancor oggi si propina nelle scuole e nei Licei pedagogici durante l’ora settimanale riservata alla materia.

E dobbiamo, naturalmente, non fare d’ogni erba un fascio. Esistono anche in Italia scuole materne ed elementari, o addirittura interi plessi scolastici, che sono assai avanzati nell’insegnamento della musica intesa come fruizione attiva, come propellente di idee su cui impostare il discorso interdisciplinare. Ma si tratta di fortunate eccezioni.

Nella nostra attività volta a diffondere il magistero goitriano abbiamo avuto piú d’una occasione per verificare nella realtà quanto stiamo affermando qui attraverso le parole, entrando a diretto contatto con bambini e ragazzi di scuola elementare e media. Abbiamo sempre constatato come fosse possibile tener desta la loro attenzione per lungo tempo senza fornire mai una nozione, facendola invece scaturire dal contesto del ragionamento, attraverso osservazioni pertinenti, proposte operative, esperienze concrete. Naturalmente, è appena il caso di dirlo, i risultati piú esaltanti sono stati raggiunti proprio attraverso la pratica corale, cioè attraverso una disciplina che, fra le tante, è la piú altamente formativa della psiche e dell’intelletto dell’individuo, fin dalla piú tenera età.

Sono passati piú di trentacinuqe anni dal luglio del 1980, quando Roberto Goitre scomparve improvvisamente. Molte cose sono cambiate da allora; molto è stato fatto sulla strada da lui indicata. Quando egli iniziò la sua opera di didatta (fu nel 1968, dopo aver preso contatto con il mondo musicale ungherese, ma la sua azione non fu manifesta che nel 1972, con la pubblicazione del Cantar leggendo) non sembrava davvero il «momento opportuno». Tanto in anticipo era sui tempi che sembrò un’anomalia, capitata a sorpresa in un paese cieco e sordo che di lui non voleva davvero saperne. Occorsero il suo coraggio e quello dei suoi collaboratori, la sua ferma convinzione, il suo entusiasmo, per proseguire senza lasciarsi scoraggiare.

Condividendo pienamente il pensiero e l’azione di Kodály, Goitre avrebbe desiderato muovere, come il maestro ungherese, dalla valorizzazione del canto popolare, divulgandolo nelle scuole e nei cori, per poter poi procedere, sulla base di moduli ritmici e melodici nostrani, all’insegnamento della lettura e della scrittura musicale. Ma fu ostacolato su questa strada dalla mancanza di repertori popolari organici e attendibili. Egli stesso lo dichiara nella già citata prefazione al Cantar leggendo: «Non potendo far leva su questo “corredo”, pensai di procedere all’insegnamento della musica ai bambini come per l’apprendimento di una seconda lingua».

Dopo la stesura e la presentazione del Cantar leggendo, Roberto Goitre tornò al suo primo intendimento: la ricerca e la pubblicazione di un repertorio popolare infantile, che infondesse linfa viva al preconizzato ingresso della musica nella scuola.

«L’educazione musicale in Ungheria – scriveva nel 1966 Kodály nella prefazione a un libro di educazione musicale – è sulla via esatta poiché è destinata a preparare musicisti ma anche semplici fruitori di musica. Continuando sulla stessa traccia essa dimostrerà la sua validità quando sarà condotta da quelli stessi che oggi hanno sperimentato i vantaggi di questa educazione. L’età della musica comincerà soltanto quando non solo singoli artisti e solisti eserciteranno l’arte, ma quando l’arte sarà diventata un bene comune del popolo della nazione. Ciò sarà possibile soltanto attraverso lo sviluppo del canto corale».

Zoltán Kodály ha tracciato per il suo popolo la strada da seguire e i risultati raggiunti in campo musicale dal popolo ungherese in questi ultimi decenni sono sotto gli occhi di tutti.

Roberto Goitre ha avuto il coraggio di fare altrettanto per gli italiani, ma non molti, rispetto a quelli che avrebbero dovuto essere, lo hanno fin qui ascoltato e seguito anche se cresce sempre piú la schiera di coloro i quali cercano oggi di proseguire la sua opera.

A noi il compito di continuare a difendere la validità del suo discorso metodologico e pedagogico oltre i confini di certe barriere ideologiche e preconcette opinioni di parte, ma soltanto nel nome di una crescita culturale, sociale, intellettuale e musicale del nostro paese.

Già lo aveva acutamente intuito Roberto Goitre al momento di affidare alle stampe il suo metodo. Volle concludere la sua prefazione con queste parole di Kodály, ieri come oggi quanto mai profetiche: «La nostra epoca di meccanizzazione conduce lungo una strada che porterà l’uomo stesso a finire di essere una macchina; solo il gusto del canto lo salverà da questo destino. È nostra ferma convinzione che il genere umano vivrà piú felice quando avrà imparato con la musica a vivere piú degnamente. Chiunque lavori per raggiungere questo scopo, in un modo o in un altro, non sarà vissuto invano».

Roberto Goitre è sicuramente fra questi.