Cantare in coro e, nello specifico, esserne il preparatore o il direttore significa occuparsi di una lunga serie di aspetti individuali e collettivi che coprono un ampio spettro di tematiche. Volendo passare in rassegna alcuni di questi aspetti, senza alcuna pretesa di esaustività, vi sono questioni di apprendimento e di memorizzazione del brano, una ricerca di corretta intonazione degli intervalli, un attento dosaggio dei respiri, un’analisi che si muove dal piano del linguaggio musicale a quello semiologico, esegetico ed estetico, uno studio interpretativo, una messa in voce delle melodie, un approfondimento della dizione, nonché poi una cura per l’esecuzione collettiva nelle sue componenti di intonazione generale del brano e di uniformità ritmica, timbrica e fonetica.

La condivisione delle innumerevoli informazioni che ci arrivano dal brano musicale, la valutazione ed il superamento delle problematiche sopraccitate, l’apporto individuale di ciascun cantore ed il confronto con il direttore o il responsabile dell’esecuzione sono tutti ingredienti necessari per approdare ad un risultato consapevole che non sarà però definitivo ma sempre in evoluzione, mai uguale a se stesso.

A tutte queste problematiche, che sono proprie del cantare in coro, vanno aggiunti alcuni accorgimenti che riguardano il contesto e l’ambiente che fisicamente conterrà e veicolerà i suoni prodotti.

La prima preoccupazione di un qualunque esecutore musicale è legata certamente alla crescita tecnica riferita al suo strumento: è questa conoscenza che potrà permettergli di superare le insidie esecutive presenti in ogni brano musicale. Questo vale naturalmente anche per l’apparato vocale, strumento straordinario e al contempo misterioso del cantore, dalle innumerevoli possibilità ma anche molto complesso da conoscere, affinare e salvaguardare. Certamente l’aspetto tecnico non è l’unico obiettivo: se ci riferiamo alle preoccupazioni di chi deve trasmettere le strategie per una corretta crescita corale e vocale (penso a docenti, direttori di coro, responsabili del canto nelle comunità parrocchiali, …), le competenze da mettere in gioco dovranno necessariamente essere molte di più e corrispondere a quel corpus di esperienze teorico-pratiche al quale ogni direttore dovrebbe attingere. Parliamo per questo di competenze musicali, tecnico-vocali, linguistiche, liturgiche, socio-psicologiche, pedagogiche e gestuali.

Prima di affrontare teorie e problematiche riferite all’utilizzo dell’apparato fono-articolatorio, e visto che questo breve contributo fa da cappello introduttivo ad un percorso che i lettori potranno seguire nei prossimi numeri, penso sia interessante riflettere a grandi linee sulla storia del canto corale e dell’utilizzo della voce, per capire che l’argomento è sempre stato trattato e vissuto con attenzione nel corso della storia. Tornando indietro di qualche secolo, ci accorgeremo con piacevole sorpresa che gli argomenti che oggi affollano i pensieri di coristi e direttori di coro erano ben presenti, e in modo molto simile ad oggi, fin dall’antichità.

Alcuni scritti di teorici della musica del XII secolo, riportati da E. De Mircovic nella pubblicazione “Una voce dentro il coro” – grazioso e interessante libretto pubblicato nel 2013 – parlano, in modo simpatico e a volte anche pungente, degli aspetti della pratica corale e dell’importanza che in quel periodo veniva data alla musica, alla sua dignità estetica e scientifica e alla sua importanza spirituale. Questi trattati erano molto letti e copiati nei monasteri medievali poi, come avvenuto per molti documenti storici, sono stati dimenticati per secoli; valenti filologi li hanno riesumati e ora li troviamo raccolti nel Thesaurus Musicarum Latinarum, odierno scriptorium elettronico, un data-base di ricerca musicale dell’Indiana University-Bloomington consultabile in lingua originale da chiunque. Di seguito riporterò una selezione dei “precetti” di Girolamo di Moravia (XIII sec.) e della “classificazione delle voci” di Isidoro di Siviglia (VI sec). Non faremo fatica a rintracciare in questi contributi, che cito come da pubblicazione, situazioni e personaggi che ancora oggi possiamo trovare nei nostri cori e che fanno parte a pieno titolo della vicenda corale.

GEROLAMO DI MORAVIA “TRACTUS DE MUSICA” (FRANCIA, SEC. XIII)

  1. Affinché il canto venga eseguito diligentemente da tutti, ci si accordi in anticipo sul ritmo di esecuzione, secondo l’uso antico o secondo l’uso moderno. (ndt. stavano diffondendosi in quegli anni nuove norme ritmiche per eseguire la polifonia, in contrapposizione al ritmo libero del canto monodico)
  2. Quantunque nel coro vi siano cantori di ugual bravura, si deve tuttavia designare un unico direttore e intonatore, a cui tutti si atterranno con la massima diligenza e non si farà alcuna cosa diversa da ciò che lui farà, sia nelle note che nelle pause. Ciò appunto sarà perfetto. (ndt. le partiture erano rare, i cantori eseguivano a memoria e dovevano seguire le intenzioni del direttore che cantava insieme ai cantori dirigendo, eventualmente, con una sola mano)
  3. Non si mescolino in tale canto voci dissimili, in quanto, parlando non scientificamente, ma volgarmente, alcune voci sono di petto, altre di gola, altre provengono dalla stessa testa […]. Le voci di petto hanno vigore nei bassi, quelle di gola negli acuti, quelle di testa nei sovracuti. Di medie sono di gola. Nessuna si mescoli alle altre, ma si uniscano tra loro.
  4. Poiché, d’altra parte, tutte le voci riescono ad avere vigore nel registro di petto, è necessaria una quarta condizione: il canto non venga mai iniziato troppo in alto, ovvero da quelli che cantano di testa, e nemmeno troppo in basso, perché sarebbe simile ad un ululato, mentre se iniziato troppo in alto sarebbe simile ad un grido, ma si inizi nell’estensione media, consona per il canto, in modo che il canto non sia influenzato alla voce, ma piuttosto sia la voce indirizzata dal canto, altrimenti non si genereranno bei suoni. (ndt. in un’epoca in cui non c’erano diapason o strumenti precisi da cui prendere la nota iniziale, cominciare un canto con una nota troppo acuta o troppo bassa poteva significare non riuscire ad eseguire tutte le note del canto, ed era un rischio reale)
  5. Se poi qualcuno vuole conoscere nuovi suoni gradevoli, si adegui a questa regola: non disprezzi alcun canto, nemmeno il più rozzo, ma ascolti canti d’ogni genere. Infatti, se a volte perfino da una macina esce un suono piacevole, nonostante essa sia inanimata, è impossibile che un uomo, essere razionale, magari per caso fortuito, talvolta non emetta qualche bel suono. Ogni qual volta si udirà un suono che ci alletta, con diligenza lo si ricordi, per poterlo assimilare. Invece, il principale ostacolo alla bellezza dei suoni è la tristezza dell’animo, a causa della quale nessuna nota può aver vigore, né, d’altra parte potrebbe averne, se non fosse generata dalla gioia del cuore. Per questo motivo chi è malinconico può anche avere una bella voce, ma non può cantare veramente bene.

ISIDORO DI SIVIGLIA “CLASSIFICAZIONE DELLE VOCI” (560 ca.- 636, Etymologiae):

  • Le voci soavi possono essere sottili o spesse, perlopiù sono le chiare e acute che risuonano più a lungo, riempiendo lo spazio con un suono mantenuto, come le trombe.
  • Le voci sottili, quando non hanno fiato, sono come quelle dei bambini o dei malati, o delle donne, o come il suono delle corde sottili. Infatti, sono appunto emesse da corde sottilissime ed emettono suoni sottili e deboli.
  • Le voci sono pingui quando emettono molto fiato, come negli uomini.
  • La voce acuta è tenue ed alta, come si percepisce negli strumenti a corda.
  • La voce dura è quella che emette un suono con violenza, come il tuono o come il suono dell’incudine sotto i colpi del fabbro mentre percuote il ferro.
  • La voce aspra è rauca e si disperde in accenti spezzettati e discontinui.
  • La voce cieca è quella che una volta emessa subito tace e si soffoca, né dura a lungo come accadrebbe nell’acqua.
  • La voce «vinnolenta» è fiacca, molle e non si sostiene. Si dice appunto vinnolenta da «vino», e si flette come un molle ricciolo.
  • La voce perfetta è alta, dolce e chiara; alta per raggiungere gli acuti sublimi, soave per addolcire gli animi degli ascoltatori, chiara per riempire le orecchie. Se manca qualcuna di queste qualità non sarà perfetta.

E così, fino al XVI secolo, possiamo trovare innumerevoli trattati e contributi al servizio di musici e cantori, basti pensare agli scritti di Adriano Banchieri nella sua “Cartella Musicale” o di Claudio Monteverdi come la “Lettera da Venezia ad Alessandro Striggio”. Dal XVI secolo fino all’inizio del XIX – come ampiamente esposto dalla relazione di Mauro Uberti “Caratteri della tecnica vocale in Italia dalla lettera sul canto di Camillo Maffei al trattato di Manuel Garçia(Gorizia 1984) – la tecnica vocale non sembra subire importanti variazioni. È a partire dal XIX secolo che invece le tecniche vocali si moltiplicano e, nel 1931, il laringologo francese Alexis Wicard arriverà a descrivere approssimativamente dieci tecniche oltre a quella da lui definita “fisiologica”. Le fonti dell’epoca sono innumerevoli e di varia natura: vi sono trattati riferiti direttamente al canto, trattati strumentali che fanno riferimento alle dinamiche vocali, rappresentazioni iconografiche, libri-paga che si riferiscono al numero e alla tipologia delle voci, trattazioni di retorica e di prassi esecutiva che forniscono un’ampia trattazione sul comportamento e sulla tecnica vocale.

Vorrei ora soffermarmi proprio sui due termini appena utilizzati: comportamento vocale e tecnica vocale. Questi vengono spesso grossolanamente accomunati, dal momento che si rifanno entrambe a ciò che comunemente, e in modo improprio, viene chiamata “prassi vocale” o “vocalità”.

La “tecnica vocale” è rappresentata e definita da un insieme di regole che riguardano l’apparato vocale e il suo utilizzo al fine di produrre suono per un utilizzo specifico riferito all’esecuzione di un determinato passaggio o repertorio. Grazie ad essa possiamo apprendere e sperimentare atteggiamenti e movimenti corporei necessari ad ottenere il suono più adatto alle nostre esigenze, per il superamento della performance e per l’ottenimento degli obiettivi interpretativi. Molte volte, infatti, i risultati esecutivi non sono soddisfacenti proprio perché la comprensione stilistico-interpretativa non è supportata da una adeguata preparazione tecnico-vocale. I riferimenti strumentali di base, che potremmo definire preparatori o propedeutici al canto e che danno la possibilità di affrontare specifiche tecniche vocali, possono invece essere identificati come “comportamento vocale”. Parlando di corretto comportamento vocale vorrei fare alcuni brevi riferimenti agli aspetti che sono strettamente connessi all’argomento e che potranno essere approfonditi nei prossimi contributi.

Il primo di questi aspetti è di tipo fisiologico e ci proietta verso una conoscenza consapevole del nostro strumento; ogni direttore dovrebbe istaurare un dialogo tecnico-vocale con i propri coristi per portarli ad una conoscenza sperimentata degli apparati fono-articolatorio e respiratorio, ai quali attingere in fase di preparazione ed esecuzione del repertorio, qualunque esso sia.

Gli apparati fono-articolatorio e respiratorio, che costituiscono l’asse portante del nostro sistema vocale, sono due apparati diversi ma che condividono gli stessi organi: polmoni, laringe, faringe, cavità orale e fosse nasali. Possiamo dunque pensare ad un insieme di tre sotto-apparati che, in modo coeso e complice, concorrono alla produzione del suono e della voce cantata. Essi funzionano in modo ottimale e del tutto naturale fin dalla nascita ma, per un utilizzo specifico come quello richiesto dal canto, è necessario conoscerli, sperimentarli e, non da ultimo, allenarli. Questi tre sotto-apparati sono:

  • apparato motore (corpo respiratorio)
  • apparato di produzione del suono (corpo vibrante)
  • apparato di amplificazione del suono (corpo risonante)

Apparato motore (corpo respiratorio)

L’apparato motore comprende principalmente i due polmoni che sono contenuti nella gabbia toracica, limitati inferiormente dal diaframma e delimitati superiormente dal gruppo bronchiale. I polmoni presiedono alla funzione respiratoria. L’aria espirata dai polmoni, dopo aver attraversato le ramificazioni aerifere dei bronchi, passa nella trachea, costituita di anelli cartilaginei sovrapposti a forma di tubo cilindrico e adiacente agli organi deputati alla fonazione. Il cantore (o cantante) dovrà allenarsi in modo meticoloso per molti anni per imparare a gestire la respirazione in modo completo e consono alle esigenze canore. Una corretta respirazione preposta al canto utilizza tutti i muscoli che fanno parte dell’apparato motore, dando così origine ad una respirazione che possiamo pensare divisa in tre zone. Per permettere ai polmoni di espandersi durante la fase d’inspirazione in modo completo, dovremo imparare a rilassare e controllare tutti i muscoli preposti allenando così tutti i tipi di respirazione che questi muscoli generano:

  • respirazione addominale: (coinvolge le fasce muscolari addominali, cioè quelli che in fase di inspirazione, espandendosi verso l’esterno, permettono il giusto abbassamento del diaframma).
  • respirazione intercostale: (coinvolge le fasce muscolari attorno alla cassa toracica permettendo la sua completa apertura).
  • respirazione dorsale: (coinvolge le fasce muscolari della schiena, specie quelle della zona lombare a completamento di un movimento muscolare che sarà, in questo modo completo).

La respirazione clavicolare, spesso utilizzata dai coristi non preparati, è da evitare, in quanto troppo vicina ai muscoli laringo-faringei che devono invece rimanere rilassati. Esistono appositi esercizi vocali che servono per allenare le tre zone adibite alle tre respirazioni che poi dovranno essere utilizzate simultaneamente e in modo integrato con l’unico scopo di far arrivare alla laringe una colonna d’aria di qualità. Una colonna d’aria di qualità sarà condizione imprescindibile per un corretto funzionamento dell’apparato laringeo e per un mantenimento in salute delle corde vocali. Molti direttori di coro poco attenti fanno utilizzare l’apparato vocale senza le dovute conoscenze tecniche, affaticando molto la voce dei coristi e causando, in qualche caso, l’insorgere di afonie o patologie che pregiudicano la qualità dell’esecuzione e che, a lungo andare, richiedono l’intervento di specialisti per la loro risoluzione in ambito clinico e terapeutico.

Apparato di produzione del suono (corpo vibrante)

L’apparato di produzione del suono, cioè l’elemento vibrante, si trova nella laringe, anch’essa formata da cartilagini giustapposte in modo da creare un involucro funzionale alla protezione dei muscoli cordali e alla raccolta del suono generato. Tutte queste cartilagini sono riunite da membrane e muscoli che determinano l’abbassamento e l’innalzamento della laringe, per dare origine rispettivamente a suoni acuti e a suoni gravi.

La struttura laringea, per le parti che ci interessano, è composta da:

  • cartilagine tiroidea
  • cartilagine cricoidea
  • epiglottide
  • corde vocali vere
  • corde vocali false
  • aritenoidi
  • anello ariepiglottico

Le corde vocali sono poste nella zona tiroidea e innestate a V nella cartilagine, mentre, nella parte posteriore, i due estremi della V sono innestati alle cartilagini di forma piramidale chiamate aritenoidi che sono come due piccole leve incastonate nella cartilagine sottostante chiamata cricoide. Queste due piccole leve, grazie ad un movimento di rotazione e scivolamento, aprono e chiudono le corde vocali vere che sono le deputate alla trasformazione dell’aria in energia sonora.

Apparato di amplificazione del suono (corpo risonante)

L’aria trasformata in energia sonora dalle corde vocali vere, si propaga nel tratto vocale sopraglottico costituito da:

  • parte superiore della laringe
  • faringe
  • cavità orale
  • cavità nasali
  • cavità para-nasali
  • cavità frontali
  • cavità temporali

L’insieme di questi organi rappresenta lo spazio che il suono attraversa dalla sua produzione all’uscita dalla bocca o dal naso. In questo spazio il suono generato ha la possibilità di arricchirsi grazie all’energia dei suoni armonici superiori che si creano e che variano a seconda dei cambiamenti del tratto vocale.

Una corretta emissione, cantata o parlata, prevede quello che foniatri e maestri di canto definiscono il bilancio di risonanza, cioè l’equilibrato coinvolgimento di quell’insieme di cavità situate nelle zone sopraelencate e che costituiscono la nostra cassa di risonanza fungendo così da amplificatore dei suoni. Queste zone, a differenza degli strumenti musicali, sono cavità modificabili in volume e conformazione, grazie alla presenza di organi mobili (lingua, labbra, laringe, velo palatino); la variazione, anche minima, di questi spazi muta la quantità e la qualità dei rinforzi armonici dando alla voce la straordinaria possibilità di modificare il timbro – in termini musicali il colore – dando luogo a quella multiformità di emissioni che noi classifichiamo grazie a determinate caratteristiche percettive riconoscibili. Le cavità di risonanza sono quindi spazi confinanti contenenti aria e in grado di risuonare, cioè di vibrare quando investiti da un’onda sonora, quella appunto che viene prodotta dalla vibrazione delle corde vocali.

Il suono laringeo, arricchito e amplificato grazie agli ambienti di risonanza attraversati giunge all’ambiente, e quindi all’uditore, con caratteristiche acustiche strettamente dipendenti dall’atteggiamento funzionale adottato da colui che emette il suono, oltre che dalla natura anatomica delle cavità di risonanza.

La respirazione

La respirazione, come tutti sanno, può essere involontaria o volontaria. Tutti noi respiriamo fin dalla nascita e non dobbiamo assolutamente ricordarci di respirare perché la respirazione è del tutto automatica e involontaria. Durante l’inspirazione, i polmoni si riempiono, la gabbia toracica si amplia, il diaframma si abbassa. Nell’espirazione avviene il contrario: il diaframma automaticamente si rialza, i muscoli intercostali richiudono la gabbia toracica, i polmoni si svuotano buttando fuori l’aria inspirata. Quando parliamo o cantiamo, la respirazione, da involontaria, diventa volontaria, in quanto abbiamo diverse esigenze di durata e di controllo legate alla fase espiratoria, che deve certamente aumentare, onde evitare di rimanere senza aria prima della conclusione della frase. Inspireremo quindi una quantità maggiore d’aria e ne rallenteremo l’uscita nella fase espiratoria con l’obiettivo di far arrivare alle corde vocali un flusso d’aria a pressione costante.

Come già schematizzato si hanno diversi tipi di respirazione: addominale (o diaframmatica), intercostale, dorsale e clavicolare. Voglio subito precisare che preferisco parlare di respirazione «addominale o basso-addominale» e non di respirazione «diaframmatica» in quanto, nella respirazione volontaria, cioè quella adatta al canto, noi andiamo ad allenare e ad agire sui muscoli addominali, per permettere al muscolo diaframmatico di poter lavorare nelle sue fasi di abbassamento e innalzamento in modo del tutto naturale e involontario, come da sempre fa.

La respirazione più razionale e raccomandabile, dal punto di vista fisiologico e del rendimento vocale è quella addominale. Con essa, come avviene per un neonato in posizione supina, contemporaneamente alla dilatazione dei polmoni, che avviene nell’atto dell’inspirazione, si ha il sollevamento delle pareti addominali e quindi il naturale abbassamento del diaframma che accompagna i polmoni nella loro dilatazione dovuta all’entrata dell’aria.

La voce e i registri

La voce umana ha delle casse di risonanza poste sopra l’organo di produzione del suono e altre casse di consonanza poste sotto tale organo. Alle prime appartengono la faringe, la bocca, le fosse nasali, le cavità facciali, le cavità frontali e temporali, mentre alle seconde appartiene la cavità toracica.

La caratteristica delle prime è che al loro interno passa l’aria e, appena l’energia sonora arriva dentro di esse, l’aria contenuta comincia a vibrare, arricchendo e rafforzando quell’energia sonora. La cassa toracica, invece, permette al suono di arricchirsi creando così una gamma completa di armonici che danno al suono il colore proprio e la caratteristica vocale di ogni persona.

L’utilizzo consapevole delle zone di risonanza, degli innumerevoli muscoli coinvolti, della lingua, del palato molle e delle mandibole permette al cantore di modificare gli spazi nei quali il suono si sviluppa e quindi di poter aumentare considerevolmente le qualità timbrico-sonore della voce.

Quando parliamo di registri ci riferiamo ad alcune classificazioni che corrispondono alle zone dove si produce la sensazione sonora:

  • Registro di petto
  • Registro di centro
  • Registro di testa
  • Registro di falsetto (più comunemente «voce di falsetto»)

Nel registro di petto le vibrazioni che si generano vengono portate verso le cavità di consonanza inferiori e cioè verso la cassa toracica e questo avviene grazie alla trachea e ad una posizione molto profonda della cartilagine laringea.

Nel registro di centro le vibrazioni vengono portate verso le cavità della bocca. La consonanza di petto non cessa di esistere ma si unisce alla voce di testa, dando luogo ad un registro intermedio di “petto-testa”. La posizione della laringe è profonda come nella voce di petto, con un orientamento della colonna d’aria sonora verso le cavità di risonanza superiori alla laringe, cioè verso le zone della bocca e della testa. Un equilibrato passaggio dell’energia sonora attraverso il velo palatino, con conseguente coinvolgimento delle fosse nasali e delle ossa frontali e quindi di quella parte del viso chiamata, dagli addetti ai lavori, «maschera»», ci dà la sensazione della giusta impostazione in questo registro. Questo famoso «cantare in maschera» rende molto sonora la voce, con la capacità di correre, di arrivare molto in profondità, di coprire lunghi spazi sonori pubblici e, al contempo, di rendere sensibili e molto espressivi i piani dinamici ridotti e sussurrati.

Nel registro di testa, le zone di risonanza sono quelle più alte, cioè quelle che utilizzano le cavità temporali poste oltre il velo palatino. Il suono perde in forza ma ottiene in sottigliezza e agilità. Per dare corpo al suono, il cantore deve unire alla voce di testa un residuo di risonanza della voce di centro dando così origine ad una voce molto usata specie nella musica antica e nel Canto Gregoriano, chiamata voce mista.

La voce di falsetto, detta anche semplicemente falsetto, è usata per note acute e sovra-acute, quindi proprie del registro di testa. La usano soprattutto alcune voci maschili utilizzando zone e vibrazioni parziali delle corde vocali con grande uso dei suoni armonici. Il suono prodotto con questo tipo di tecnica può stancare per i suoni deboli, opachi e nasali: usato in modo accurato e sapiente, può però acquisire una certa sonorità trasparente e soave, ricca di fascino. Nei secoli XV e XVI i falsettisti erano cantori specializzati e molto ricercati, utilizzati dalla polifonia del tempo in sostituzione delle donne e dei fanciulli.

Per concludere, possiamo dire qualcosa sulla voce bianca che è propria del bambino e del ragazzo pre-adolescente. Pur utilizzando le frequenze della voce femminile, ha un’estensione meno vasta specie nella zona grave ed un timbro inconfondibilmente più mordente. Oggi, quelli che furono i pueri cantores delle scholae, un tempo molto rinomate, vengono sempre più sostituiti dalle voci femminili; questo, probabilmente a causa dell’incostanza dei fanciulli e della sempre più scarsa adesione all’attività corale che dovrebbe essere guidata in tutte le scuole da Musicisti e Direttori di Coro molto preparati (non a caso, ho usato le lettere maiuscole!).

Comportamento vocale e intonazione

Molte sono le virtù che un coro dovrebbe avere; a mio avviso la più importante è l’intonazione. È vero, gli aspetti sono molteplici, e la crescita di un gruppo corale e quindi del singolo corista deve riguardare tutti gli elementi che concorrono a fare di un corista un bravo corista e di un coro un buon coro. Senso ritmico, accuratezza melodica e armonica, maturità interpretativa e stilistica sono tutti tasselli che permettono di rispettare la partitura e l’idea musicale di un compositore. Tutti gli elementi sono basilari ma, come già affermato, l’intonazione è uno degli aspetti più delicati e di difficile conseguimento.

In un coro, specie a cappella, l’intonazione è altamente qualificante e, per la stessa ragione, è anche di difficile realizzazione e mantenimento. Per il coro a cappella non è semplice mantenere la stessa altezza dall’attacco alla fine del brano. Difficile, sì, ma, come dicevamo, altamente qualificante della bravura e preparazione del coro, indice dell’abilità del maestro nonché della formazione musicale e corale dei singoli coristi.

Oltre all’intonazione tonale, esiste anche quella interna che permette di mantenere il giusto rapporto tra le note che compongono un accordo, ed è quella che chiunque è in grado di percepire, anche l’orecchio di un ascoltatore non troppo acculturato musicalmente. Diversamente, la tenuta tonale non costante, cioè il calare o il crescere di un brano, può anche non essere avvertita da un ascoltatore inesperto, se i rapporti interni fra le parti vengono mantenuti inalterati. Per ovviare a questo, molti cori utilizzano stratagemmi armonici più o meno voluti, e l’ascoltatore non saprà dire se il coro è calato o cresciuto. Certamente si sarà accorto che qualcosa è cambiato, specie nel “colore” che caratterizzava quel brano all’inizio.

Per un coro a cappella è più facile calare che crescere e le ragioni che portano al prevalere di questo inconveniente sono molte e di diversa origine. La mancanza d’intonazione può essere attribuita a molteplici cause tra le quali la mancanza di educazione musicale, la poca formazione di un orecchio interno melodico ed armonico, la scarsa fusione, un uso poco consapevole della voce e delle risonanze nonché dell’intero apparato respiratorio, gli influssi atmosferici, la stanchezza generale e la poca concentrazione, il particolare stato psicologico del gruppo corale, la mancanza della necessaria tensione muscolare nei cantori e nel direttore stesso.

Il direttore, oltre ad essere molto formato a livello uditivo/musicale, dovrà, in fase di scelta del repertorio, fare attenzione ad evitare brani che non sono alla portata del suo coro. Per il repertorio contemporaneo e molto cromatico è richiesta una grande maturità del singolo corista, infatti i generi cromatico ed enarmonico si svilupparono soprattutto con il professionismo e il virtuosismo del periodo della decadenza. Una volta scelti i giusti brani, dovrà fare attenzione ai processi di studio e memorizzazione della parte, facendo in modo che il susseguirsi degli intervalli possano essere messi in voce senza il supporto strumentale. Il corista deve imparare a ragionare sul passaggio tra nota e nota e deve essere erudito dal direttore su come adattare l’intonazione alle esigenze armoniche del brano. Il direttore, prima dello studio di un brano, dovrà far esercitare i coristi proponendo loro un percorso di vocalità adeguato, basato sulla formazione dell’orecchio armonico e melodico.

Per concludere, vorrei sottolineare un aspetto che mi sta profondamente a cuore: il momento della vocalità non deve essere inteso, come molto spesso succede, come un semplice riscaldamento della voce (alla sera, quando normalmente si tengono le prove, la voce non ha bisogno certamente di essere scaldata, essendo già stata impiegata durante la giornata!). Il corista dovrà invece essere guidato a conoscere la maggior parte dei trucchi legati alla respirazione, all’utilizzo delle vocali e delle risonanze per garantire il corretto rapporto tra i suoni e per risolvere autonomamente i problemi d’intonazione che in alcune circostanze si vengono a creare.