Premessa

Da un anno circa sto orientando le mie ricerche su un aspetto particolare della composizione musicale gregoriana, ovvero mi sto chiedendo se e quanto essa, nei due repertori in cui è stata fissata (canti dell’Ufficio e canti della Messa), sia dipendente dalla ‘legge della simmetria’, legge che presiede alla composizione del testo biblico al quale attinge a piene mani il repertorio gregoriano. Lo scopo della ricerca è di ridestare la riflessione sull’estetica musicale, inaugurata da Ferretti nella sua pregevole opera del 1934 per sondare se vi sia un livello più profondo dei vari aspetti formali legati alla rilevanza dell’accento tonico nella formazione della melodia e alla capacità combinatoria dei compositori gregoriani nel trattamento delle strutture formulari (1). Si tratta di indagare il repertorio gregoriano nei tre aspetti essenziali – testo, melodia, ritmo – per comprendere il senso complessivo della costruzione sonora, che di volta in volta si esprime in forme ben determinate in grado non solo di spiegare ma anche di rafforzare il significato del testo corrispondente, in un gioco di rimandi e connessioni di senso. Per questo, ci viene in soccorso l’analisi retorica, intesa come disciplina che studia l’organizzazione dei testi biblici – fonte privilegiata del canto gregoriano – e si propone di identificare le regole della retorica che hanno presieduto alla redazione di quei testi (2). Devo riconoscere che la scintilla di questa mia ricerca è stata innescata dalla lettura di un libro che ha suscitato in me un sincero interesse e mi ha stimolato ad approfondire l’argomento avviando una consultazione sistematica del repertorio (3).

Quando si accosta la sacra Scrittura, spesso si ha l’impressione di trovarsi di fronte a testi frammentari, ripetitivi, a volte discordi tra loro. Basti pensare ai due racconti della creazione in Genesi 1, l’uno più recente uscito da ambienti sacerdotali, solenne e scandito secondo l’organizzazione della settimana liturgica, l’altro più arcaico, quasi antropomorfico nella rappresentazione di Dio, derivato dalla tradizione jahwista. In realtà, i testi biblici non sono semplicemente l’esito di un ‘montaggio’ redazionale più o meno riuscito di materiali che si sono sedimentati in epoche diverse, ma sono ‘composti’ e ‘composti bene’. Si tratta di scoprire il criterio che sta alla base della composizione biblica. Sappiamo che il testo biblico, proveniente da un ambito culturale semitico, è organizzato secondo procedimenti compositivi propri e, quindi, diversi dalle categorie della retorica classica, dove la frase è disposta secondo le regole della sintassi attraverso l’impiego di subordinate legate in modo consequenziale. Se noi leggiamo il testo biblico con gli ‘occhiali’ della retorica greco-latina, i nostri occhi non riescono a ‘vedere’ altri segni che solo l’indagine della poetica semitica è in grado di rendere evidenti. Sorge molto opportunamente una domanda: quali sono dunque le caratteristiche di questi testi? Per ciò che riguarda il nostro argomento possiamo limitarci a enunciarne almeno due.

La prima caratteristica dei testi biblici è la concretezza: mentre la retorica classica, influenzata dalla filosofia greca, cerca di illustrare un’idea sviluppandola secondo nessi logici conseguenti, la retorica biblica non fa ragionamenti ma racconta e ‘descrive’ la realtà lasciando al lettore il compito di trarre la conclusione. Per rimanere ancora in Genesi 1, anziché dimostrare con logiche argomentazioni che Dio è creatore, il redattore racconta come Dio crea il mondo in sei giorni. La seconda caratteristica della retorica biblica è la paratassi, attraverso la quale il testo si dispone secondo una giustapposizione di frasi l’una accanto all’altra, e non secondo il legame logico e subordinato della sintassi. Ciò che lega le unità verbali è spesso la congiunzione et (che purtroppo in molti casi si perde nella traduzione italiana), raramente quia o qualche altro avverbio che regge una subordinata. Osserviamo il testo di un’antifona dell’Ufficio: Dabo in Sion salutem / et (dabo) in Ierusalem gloriam meam. È un passo di un testo profetico (Is 46,13), costruito secondo la forma di un versetto salmico, cioè in due stichi giustapposti. È una della numerosissime antifone del repertorio sillabico costituite da frasi brevi e apparentemente semplici, regolate però da precise prescrizioni, tanto da risultare incisive all’ascolto e, quindi, portatrici di fecondità di pensiero. Di più. L’esiguità e la densità del lessico ebraico esigono come ‘compensazione’ il ricorso a una ricca combinazione di ‘posizioni’ verbali. Ogni parola ottiene il suo significato non solo dalla sua funzione grammaticale o sintattica ma dalla collocazione scelta per metterla in rapporto con altre in un organico e armonico dispositivo d’assieme. La ‘visibilità’ è la principale caratteristica della poetica ebraica; le parole sono scritte sulla pagina nel rispetto di una disposizione ottica coerente secondo due direzioni fondamentali: ricorrenze e contrasti. Le prime consistono nella ripetizione di parole simili come nel caso di Dabo in Sion salutem / et in Ierusalem gloriam meam dove in Sion salutem e in Ierusalem gloriam sono entità verbali che si corrispondono. I secondi sono realizzati mediante l’accostamento di termini contrastanti come nel communio Oportet, di cui è riportato il commento, dove l’antinomia risulta tra mortuus fuerat e revixit, perierat e inventus est. Come si può facilmente intuire, siamo di fronte a un intenzionale gioco di rimandi, allusioni e connessioni di senso, che spiegheremo in dettaglio nel seguito della trattazione.

Occupandosi in particolare della dispositio, cioè del modo di disporre le parole del testo, l’analisi retorica porta alla luce le strutture compositive dei testi biblici, strutture che si possono ricondurre a due forme basilari, le strutture parallele e le strutture concentriche. Tra i settantatré libri della Bibbia, in particolare il salterio risente interamente della composizione simmetrica nella duplice forma, che mette in evidenza, più di altre categorie, l’originale bellezza ritmica della composizione biblica. Le strutture parallele consistono essenzialmente nell’enunciare una frase, che viene nuovamente espressa con parole diverse aventi il medesimo significato. In tal caso, gli elementi in rapporto sono ripresi in modo lineare nello stesso ordine (A B C / A’ B’ C’):

Iustus Dominus in omnibus viis suis / et sanctus (Dominus) in omnibus operibus suis (Ps 144,17). Si parla, invece, di strutture concentriche quando gli elementi convergono verso il centro e, quindi, ricompaiono in ordine inverso (A B C / C’ B’ A’). La più comune di queste strutture è la forma chiastica (dal greco Xiasmos, la cui prima lettera è a due tratti incrociati): Effundo in conspectu eius orationem meam / et tribulationem meam ante ipsum pronuntio (Ps 141,3). Oppure: Qui habitat in adiutorio Altissimi / in protectione Dei caeli commorabitur (Ps 90,1). Anche l’incipit del Prologo di Giovanni è in forma chiastica: In principio erat verbum  / et verbum erat apud Deum. Questa convergenza è talmente forte che, in taluni casi, si genera un elemento centrale che diventa il fulcro dell’intera frase (A B C /x/ C’ B’ A’): Redemptionem misit Dominus / populo suo / (Dominus) mandavit in aeternum testamentum suum (Ps 110,9). L’evidenza di tali simmetrie si manifesta agevolmente quanto più la traduzione rispetta e conserva la dispositio del testo in lingua originale.

A questo punto la questione è la seguente: di fronte alla disposizione simmetrica del testo, il compositore gregoriano è indifferente oppure la riconosce e, quindi, plasma la composizione in modo da potenziare l’efficacia persuasiva del testo?

Alcuni esempi del repertorio dell’Ufficio

Nel repertorio gregoriano la composizione simmetrica si rintraccia in particolare nelle antifone sillabiche perché la sobrietà melodica rimanda più facilmente alla declamazione e, in molti casi, il testo stesso risponde alla semplice struttura di un versetto bimembre, cioè suddiviso in due stichi. Numerose sono le antifone dell’Ufficio organizzate in questo modo, dove la struttura simmetrica viene spesso segnalata dal notatore con un segno di interpunzione, equivalente alla lettera x (expectare) o all’episema aggiunto alla virga o al tractulus dell’ultima sillaba della parola che conclude il primo stico. Nell’antifona Dabo in Sion troviamo la x che suddivide chiaramente in due stichi il versetto: Dabo in Sion salutem x et in Ierusalem gloriam meam. Questa è una prova certa che gli amanuensi di quell’epoca erano ben consapevoli della organizzazione del testo per unità di estensione minima del testo. La scrittura neumatica a cui faremo riferimento è la notazione sangallese, segnatamente il codice di Hartker 390-391 per i canti dell’Ufficio e il codice di Einsiedeln 121 per i canti della Messa (4).

Un esempio di evidente simmetria si trova nell’Antiphonale Monasticum, 803, con la versione melodica rivista da Giacomo Frigo nell’AM di Praglia III, 23: Lumen ad revelationem (Esempio 1). È l’antifona del 2 febbraio che apre la processione della candelora nella festa della Presentazione di Gesù al tempio. La fonte del brano è Luca 2,32 e il testo è già costruito secondo una disposizione simmetrica: suddivisione evidente in due stichi e forte legame di senso tra i rispettivi termini iniziali  (Lumen e gloriam), secondo lo schema semplice A B / A’ B’. Anche se il notatore tralascia di scrivere il segno caratteristico (x) della distinzione delle due unità verbali, sono propio i termini iniziali dei due stichi a far risaltare la loro identità per parentela semantica, somiglianza melodica e medesima attribuzione di valore. La prima parola dell’antifona sembra accentrare su di sé una particolare densità di accentuazione, che emerge con particolare evidenza se messa in relazione al successivo contesto totalmente corsivo. Tuttavia, dobbiamo ammettere che il poderoso gesto retorico su Lumen non compromette la chiara disposizione simmetrica del testo. Diversamente da altre antifone (per esempio Aqua quam ego dedero – AM di Praglia I,189), dove la prima parola del testo raccoglie su di sé in modo esclusivo l’accento fraseologico, diventando la prima e unica meta accentuativa e di significato, qui tra lumen e gloriam si stabilisce un evidente parallelismo melodico ed espressivo. Per raggiungere il suo scopo, il notatore opera tre scelte chiare e convincenti: entrambe le parole sono collocate sullo stesso grado melodico acuto; entrambe danno vita a un medesimo procedimento melodico; entrambe ricevono una pari attribuzione di dignità, pur con sostegni grafici differenti: episema su sillaba tonica di Lumen e cephalicus (segno liquescente) su sillaba finale di gloriam, artificio quest’ultimo certamente più raffinato attraverso il quale l’articolazione della parola è come ‘trattenuta’ per impedire che venga assorbita dal flusso verbale successivo. In questo modo la liquescenza coinvolge necessariamente l’intera parola, che sarà declamata con tutta l’intensità e la profondità che le si addice. La corrispondenza tra Lumen e gloriam è confermata dallo stesso evangelista in quanto i due termini sono la spiegazione o, meglio, l’esegesi del termine greco sotérion, citato da Luca a conclusione del versetto precedente: «perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza (sotérion): luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele» (Lc 2,32). È l’anziano Simeone che parla, personaggio che commuove per la sua fede perseverante: per tutta la sua lunga vita ha inseguito la speranza di vedere il Messia. Ora, guidato dallo Spirito, lo riconosce in questo bambino portato al tempio dai genitori e può finalmente concludere la sua esistenza nella pace e nella gioia per aver conosciuto finalmente il salvatore, luce e gloria dei popoli.

Riprendiamo l’antifona Dabo in Sion salutem et in Jerusalem gloriam meam (AM di Praglia I, 40), alla quale abbiamo fatto cenno sopra e che risulta essere la forma più comune di parallelismo simmetrico poiché costituita da tre membri per ogni stico: A B C / (A’) B’ C’. Il primo membro del secondo stico (dabo) è sottinteso e non pregiudica affatto la disposizione simmetrica (Esempio 2).

L’antifona è collocata nel tempo di Avvento e il testo proviene da un libro profetico (Isaia 46,13), tuttavia ricalca la struttura compositiva dei versetti salmici, nei quali i due stichi ripetono con parole diverse il medesimo concetto: Darò in Sion la salvezza / e in Gerusalemme la mia gloria. Il monaco Hartker, il maestro cantore che ha compilato l’antifonale, opera subito una distinzione ponendo tra i due stichi una lettera aggiuntiva: la x (expectare), affinché emerga con chiarezza la struttura simmetrica. Ma la simmetria non si ferma solo all’aspetto testuale, investe anche la composizione musicale. Sion e Gerusalemme sono il luogo dove il Signore riverserà la sua salvezza: evidentemente si tratta dello stesso luogo poiché Sion è il monte su cui è costruita la città. Ebbene, se noi osserviamo con attenzione come il compilatore tratta Sion e Jerusalem, ci accorgiamo che entrambe le parole sono trattate in un modo molto simile che le accomuna. Sono precedute dalla preposizione in, corredata sia di lettere aggiuntive che segnalano per entrambe un grado acuto della scala (altius e levare = la città sul monte) che dello stesso segno liquescente, il cephalicus. Quest’ultimo conferisce una dilatazione ritmica che prepara con cura le due parole più significative del brano, dotate di una conveniente estensione melodica e delimitate da segni che circoscrivono con nettezza le due entità verbali (pressus maior preceduto da articolazione iniziale su Sion e virga con episema su Jerusalem). La salvezza del Signore, rappresentata dalle parole salutem e gloriam, dove ci aspetteremmo una declamazione enfatica, di grande intensità, riceve inaspettatamente un trattamento ordinario per l’impiego di neumi corsivi su entrambe le parole. La simmetria si coglie, dunque, per l’accostamento di una duplice coppia di parole, dove la prima di ciascuna (Sion e Jerusalem) emerge sulla ordinarietà della seconda (salutem e gloriam). Ciò che conta in questa antifona è sapere dove si manifesta la salvezza del Signore: sul monte Sion, il monte di Gerusalemme, che, secondo il salmo 86, diventerà patria spirituale di tutti i popoli. Al capitolo 60, Isaia, lo stesso autore da cui attinge il compositore gregoriano, confermerà che la confessione del Signore come unico Dio è imprescindibile dal suo amore per Gerusalemme, chiamata “Città del Signore, Sion del Santo di Israele”. È necessaria, tuttavia, una precisazione: non possiamo pensare che salutem e gloriam siano termini secondari perché entrambi ricevono una elevazione melodica su sillaba tonica, preparata proprio dalla liquescenza sulla preposizione in. Infatti, la liquescenza in entrambi i casi produce un accumulo di tensione che non si scarica immediatamente su Sion o Jerusalem, ma le supera per additare oltre il punto focale dell’accentuazione, cioè su salutem dove si conclude il primo arco di frase configurato proprio dalla x, e su gloriam meam a conclusione del secondo stico. Graficamente possiamo rappresentarla nel modo seguente:

Dabo in S i o n’ salutem / et in J e r u s a l e m’ gloriam meam

Una conferma di ciò che è stato affermato ci viene da un’altra antifona (Esempio 3) che ripropone lo stesso testo con la sola variante del verbo iniziale: Ponam in Sion salutem et in Jerusalem gloriam meam (AM di Praglia I, 53). Anche in questo caso ho scelto l’antifonale di Praglia, ottimo lavoro di Giacomo Frigo in via di ultimazione, perché ci offre la versione melodica più aderente al codice di Hartker e, come è facile immaginare, determinante per la riflessione che stiamo facendo. Il rivestimento melodico del primo stico è più dimesso dell’antifona precedente: infatti il disegno melodico su Sion è accorciato, sono assenti la x dopo salutem e l’episema su Jerusalem. Tuttavia, la simmetria compositiva è ancora perfettamente riconoscibile, soprattutto per la presenza imprescindibile dei due cephalicus su in. È questa preposizione che rende ragione della simmetria parallela, diventando il simbolo grafico del collegamento ‘paratattico’ tra i due stichi dell’antifona. Infine, l’accorciamento di Sion rende ancora più evidente il rilievo di salutem che, rispetto all’antifona precedente, tocca l’apice melodico con un eloquente levare, collegandosi più agevolmente nella forma e nel significato al suo termine corrispondente gloriam.

Come si può osservare da questi esempi, possiamo dare una prima risposta alla precedente domanda: appare con chiara evidenza che il compilatore gregoriano, una volta individuata la struttura simmetrica del testo, sia in grado di rivestirla con una forma melodica e ritmica tale da renderla ancora più esplicita e così rafforzare il messaggio che essa contiene.

Alcuni esempi del repertorio della Messa

Esistono buoni esempi di simmetria anche nel Graduale Triplex. Con l’antifona Lumen abbiamo constatato che la legge della simmetria non è caratteristica esclusiva del Primo Testamento, ma è rintracciabile anche nel Nuovo, poiché gli autori, anche se scrivono in greco, sono stati fin dalla giovinezza giudei osservanti e attenti lettori della Scrittura ebraica assumendone stilemi e schemi letterari. Sovente, il parallelismo permane nelle citazioni che il Nuovo Testamento attinge dal Vecchio. Nel prossimo esempio si tratta di un parallelismo originale che si ritrova nel Vangelo di Luca.

Il communio Oportet te (GT 95) ce ne dà una valida testimonianza (Esempio 4). Pur appartenendo al repertorio della Messa, è assimilabile allo stile sillabico delle antifone dell’Ufficio. Il testo si riferisce alla conclusione della parabola del padre misericordioso, raccontata da Luca al capitolo 15 del suo vangelo: il padre spiega al figlio maggiore le ragioni del suo gesto di misericordia nei confronti del figlio minore. Anche qui possiamo rilevare come la composizione gregoriana attinga a piene mani all’arte retorica antica, attraverso il tono della voce, l’alternanza di tensione e distensione, l’utilizzo di simmetrie in grado di potenziare l’effetto della parola pronunciata. Insomma gli strumenti retorici, nella loro variegata molteplicità, svolgono sempre un ruolo decisivo per la comprensione e la corretta proclamazione del testo.

Il tono di voce dell’incipit è modellato semplicemente nel rispetto della naturale accentuazione della parola Oportet (è necessario), dotata di intervallo di quarta su sillaba tonica. Per nulla imperiosa o impositiva, questa iniziale meta accentuativa ha il sapore di un’amorevole esortazione paterna. Ma, sempre nel primo inciso sulla sillaba pretonica gaudere ci imbattiamo in un neuma liquescente (cephalicus). Esso ha la funzione di preparare l’accento del primo verbo significativo del brano: Oportet te fili gaudere (è necessario, o figlio, che tu ti rallegri). Il figlio maggiore è invitato a rallegrarsi, a passare dallo sdegno alla gioia, e anche il cantore è invitato a rallentare il flusso della declamazione proprio in corrispondenza del verbo gaudere, perché è proprio questo verbo che introduce alla seconda parte, costruita secondo la legge della simmetria. E qui il padre  spiega le sue ragioni: quia frater tuus mortuus fuerat et revixit, perierat et inventus est (era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato). Emerge  chiara e potente la forma poetica del parallelismo, la quale, come si è detto prima, si può presentare in due modi: la ripetizione può avvenire con termini analoghi o di sviluppo (Esempi 1, 2 e 3), oppure con termini antitetici. È quest’ultima la forma che meglio si presta allo scopo e che viene sfruttata nel communio Oportet in tutta la sua efficacia, poiché il contrasto tra i termini, o antinomia, impiegati in un’alternanza stringente dà infatti rilievo all’idea che si vuole rafforzare. L’accostamento di una duplice coppia di verbi antitetici (mortuus e revixit, perierat e inventus est) ha lo scopo di scuotere l’ascoltatore e indurlo a riflettere sulla concreta possibilità che questo evento si sia davvero verificato. Da una parte, siamo di fronte a un prodigio che sfugge alla logica umana e, dall’altra, al ribaltamento della giustizia retributiva, sconvolgente per la mentalità ebraica di quel tempo: il figlio minore, per ciò che ha fatto, avrebbe meritato la morte o un castigo severo. Invece, il padre lo riabilita completamente nella figliolanza e quindi nell’eredità. È una vera e propria risurrezione (et revixit) che porta al ritrovamento del figlio (et inventus est), eventi prodigiosi prodotti dalla misericordia che procurano gioia in cielo e in terra. Da qui l’invito del padre al figlio di passare dal rancore alla condivisione gioiosa. Per rendere al meglio l’antinomia testuale il compositore impiega due schemi melodici identici per i termini paralleli, all’interno dei quali, tuttavia, applica una chiara differenziazione ritmica: declamazione corsiva alla prima coppia di verbi (mortuus fuerat e perierat) a fronte di una dilatazione prolungata della seconda coppia (revixit con le due virgae episemate consecutive e inventus est dove la dilatazione è prodotta dall’impiego massiccio del segno liquescente). Questa modalità compositiva ‘a tinte marcate’ viene sfruttata per far emergere la verità sull’errore, il bene sul male, la salvezza sulla perdizione, la vita sulla morte. L’ascoltatore è come investito dalla carica espressiva di questi procedimenti ed è costretto ad ammettere la veridicità dell’accaduto. Ecco la rappresentazione grafica dell’ultimo membro di frase, dove si riconoscono quattro piccoli archi melodici in una relazione alternata, il primo con il terzo e il secondo con il quarto, nella forma chiastica:

mortuus fuerat’ et revixit / perierat’ et inventus est

Un’ultima osservazione a latere: in questo communio il confronto tra le due notazioni in campo aperto (Laon e Einsiedeln) volge decisamente a favore del notatore sangallese. Per tutto il brano Laon, potendo scegliere tra il punctum corsivo e il più dilatato uncinus, sceglie una successione di uncini suggerendo una declamazione dotata di ritmo sillabico allargato, ma sostanzialmente uniforme. Così appare attenuata la forza del messaggio contenuta nell’ultima frase dall’alternanza delle antinomie, che solo la notazione sangallese, sostenuta dalle raffinate e convincenti tecniche dell’arte oratoria, è in grado di esprimere vividamente. Sembrerebbe che la legge della simmetria sfugga al notatore metense, ma è una questione aperta, ancora da studiare.

Il prossimo caso (Esempio 5) è più lungo e articolato, ma anche qui la simmetria testuale lascia una impronta riconoscibile nella composizione musicale. Il communio Petite (GT 314) è formato da una coppia di tristici in parallelo, vale a dire una coppia di tre versi collegati e corrispondenti tra loro. La prima coppia si conclude con aperietur vobis, mentre la seconda con aperietur, alleluia. Il parallelismo è evidente per la disposizione ‘paratattica’ del testo, per le scelte melodiche e infine per le soluzioni ritmiche. Il primo, secondo e terzo verso del primo tristico sono rispettivamente paralleli al primo, secondo e terzo verso del secondo tristico. Anche in questo caso il parallelismo non è derivato dal Primo Testamento ma è originale e si ritrova nei due vangeli di Luca e Matteo.

Gli esegeti hanno spiegato in vari modi i verbi ‘chiedere’, ‘cercare’ e ‘bussare’. Seguendo l’intuizione di San Giovanni Crisostomo nell’omelia XXIII sul presente passo del Vangelo di Matteo (5), si può dire che Gesù abbia ordinato di ‘chiedere’ promettendo in risposta il dono. Non solo di chiedere, ma di farlo con perseveranza e sollecitudine: questo significa ‘cercare’. Non solo con perseveranza e sollecitudine, ma anche con fervore e forza. Perciò gli evangelisti sono ricorsi alla forza del verbo ‘bussare’. Nella prima terna l’invito è diretto: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Nella seconda terna viene ribadito lo stesso concetto nella forma impersonale: chiunque chiede riceve, chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto. Per la sua frequenza e per la sua efficacia la modalità della ripetizione esposta con una disposizione simmetrica verrà assunta come la prima regola dell’arte oratoria poiché raggiunge in modo diretto lo scopo della persuasione.

Come interviene il compositore gregoriano su un testo già regolato dal parallelismo?

La prima osservazione riguarda la simmetria compositiva che viene riproposta per ben tre volte con lo stesso schema, nonostante il diverso trattamento riservato alle singole coppie della terna. La simmetria si coglie innanzitutto nei quattro verbi nelle prime due coppie della terna: le risposte accipietis e invenietis presentano una densità melodica e ritmica di grande rilievo rispetto ai rispettivi Petite e quaerite, trattati in uno stile pressoché sillabico e corsivo. Come a dire: chi cerca Dio con cuore sincero riceve sempre da lui una risposta. Anzi, è lui stesso che ci invita a bussare, a entrare, a invadere il suo spazio per poter dimorare in lui. Quindi, ecco la sorpresa del terzo verbo: la sillaba tonica di pulsate (bussate) possiede un’estensione melodica molto più ricca e una dotazione ritmica completamente appoggiata rispetto all’ordinarietà di Petite e quaerite, quasi a significare la forza e l’energia necessarie per compiere quel gesto. Segue il verbo aperietur, anch’esso dotato di neumi allargati a chiusura della prima terna, segno dell’accoglimento della richiesta. Possiamo dire, seguendo la pista di Giovanni Crisostomo, che in questo ultimo invito, l’apertura della porta è correlata al vigore insistente di colui che bussa.

Il secondo tristico è perfettamente modellato sulla struttura compositiva del primo, quindi si apre con una semplice recitazione su corda secondaria di protus: petit e quaerit, dotati dello stesso disegno melodico, sono totalmente privi di enfasi, mentre accipit e invenit ricevono una particolare e medesima attenzione melodica e ritmica. Di nuovo, il verbo pulsanti (a chi bussa) possiede melodia ed energia pari a pulsate, confermando il valore semantico e di contenuto del verbo bussare e conservando la stretta relazione con aperietur alleluia. Non va ignorata la collocazione liturgica originaria del communio: non siamo nel tempo ordinario come sembrerebbe dal GT, ma nella litania maggiore della vigilia di Pentecoste e quindi il dono che Dio ha promesso per ogni credente è il suo santo Spirito. Inoltre, l’alleluia conclusivo fa corpo unico con l’antifona mediante la bivirga su sillaba finale di aperietur. In entrambe le terne l’ars dicendi complessiva è distribuita secondo un dosaggio perfettamente simmetrico, dove l’enfasi declamatoria viene raggiunta con evidenza sulle parole pulsate e pulsanti: è Dio stesso che ci invita a bussare, ad entrare, a invadere il suo spazio per poter dimorare con lui.

Interessante può essere il confronto con il communio Domus mea di GT 402 (Esempio 6) che nella seconda frase presenta lo stesso testo nella forma di un’aggiunta liturgica, assente nel testo originale di Matteo. La melodia è diversa ma i verbi hanno lo stesso trattamento del communio Petite con una preminenza melodica e ritmica del secondo verbo di ogni coppia (accipit, invenit e aperietur). Al verbo pulsanti viene riservato lo stesso vigore già osservato in precedenza: si ribadisce che ciò che conta non è la soddisfazione automatica da parte di Dio delle nostre richieste, ma la relazione con Lui, Padre amoroso, il quale si fa sempre trovare e “si dona al cuore che lo ricerca”.

In conclusione, può essere arricchente anche il confronto con l’antifona dell’Ufficio in stile sillabico Omnis qui petit (AM 2005, 389), Esempio 7. Il confronto presenta una singolare coincidenza di pensiero e realizzazione tra il notatore di Einsiedeln e Hartker, i due giganti della notazione sangallese.

Se la accostiamo all’Esempio 5, le scelte retoriche dell’antifona corrispondono a quelle del communio, anche se il testo di Luca non viene riportato integralmente per l’omissione della terna iniziale Petite et accipietis. Come nel communio, dei tre verbi di richiesta (petit, quaerit, pulsanti) è l’ultimo ad essere messo in particolare rilievo. Inoltre, ad ogni verbo di risposta (accipit, invenit, aperietur) viene data maggiore importanza rispetto al suo relativo verbo di richiesta, a sottolineare che la risposta di Dio è sempre superiore alle aspettative e non commisurata alla preghiera. Anche questa piccola antifona ha una collocazione liturgica significativa: in Hartker si trova nella quarta domenica di Pasqua nel contesto di altre antifone che parlano dell’imminente ritorno di Cristo al Padre e della prossima consegna dello Spirito. Si conferma che la risposta di Dio è sempre infinitamente superiore alle aspettative, perché noi chiediamo ‘cose’ e Lui ci dona il suo Spirito, affinché la nostra gioia sia piena.

Note:

  • Paolo Ferretti O.S.B., Estetica gregoriana, Roma, Pontificio Istituto di Musica Sacra, 1934.
  • Il termine “analisi retorica” è recentissimo, appare per la prima volta in Roland Meynet, Quelle est donc certe Parole? Lecture rhétorique de l’Evangile de Luc (1-9 et 22-24), Parigi, 1979. Tra i precursori invece, l’iniziatore che presentò in una sua lezione a Oxford nel 1753 una descrizione del parallelismo biblico, suddiviso in tre categorie (sinonimico, antitetico e sintetico) così come si ritrova in tutti gli attuali dizionari, fu il reverendo Robert Lowth, riconosciuto come il padre dell’analisi ‘poetica’ della Bibbia.
  • Per un primo approccio storico sull’influenza della retorica semitica sui testi greci della sacra Scrittura si veda: Roland Meynet, L’analisi retorica, Brescia, Queriniana, 1992. Dell’autore è la massima a cui si è sempre ispirato nelle sue ricerche: “la forma è la porta del significato”, concetto non nuovissimo – già Agostino affermava che forma e contenuto sono un nesso inseparabile – ma certamente efficace e utile per ciò che viene affermato nel presente lavoro.
  • I due codici sono reperibili nell’opera monumentale Paléographie Musicale, Solesmes, Imprimerie Saint-Pierre, collezione fondata da André Mocquereau O.S.B nel 1889.
  • Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, Città Nuova Editrice, Roma 2003.