Invitati dal Conservatorio Lucio Campiani di Mantova a recensire l’evento conclusivo della Settimana della Memoria, abbiamo trovato nel maestro Andrea Talmelli, neo eletto Presidente della Società Italiana per la Musica Contemporanea, un valido e disponibile collaboratore per il presente contributo. Nel ringraziare sia il Conservatorio mantovano che il maestro Talmelli, la Redazione di FarCoro suggerisce ai lettori di prendere visione della ricca programmazione attraverso i materialiconsultabili all’indirizzo:
http://www.conservatoriomantova.com/it/il-conservatorio/news/495-settimana-della-memoria-2017
Sarebbe oggi felice anche Paul Aaron Sandfort, il trombettista di Brundibar sopravvissuto allo sterminio che mi accompagnò nelle numerose rappresentazioni dello spettacolo dell’Istituto Peri di Reggio Emilia a cavallo del nuovo Millennio, di questo “passaggio del testimone alle generazioni nate dopo la Shoah”. A Mantova la Giornata della Memoria è diventata la Settimana della Memoria, sulla scia degli eventi numerosi e coralmente proposti da Enti e Istituzioni; e quel che più importa appunto, da Istituzioni scolastiche. “Impossibile pensare la formazione musicale senza la formazione delle persone e delle comunità”, si legge nel bel libretto che accompagna questa rassegna dedicata a Sergio Cordibella e culminata nellarappresentazione conclusiva del 29 gennaio al Teatro Bibiena. La formazione musicale e la formazione delle persone. Ne sapevamo qualcosa anche prima, a Parma, quando si avviò nel 1976 – tanti anni prima della stessa istituzione della Giornata della Memoria – la prima esperienza di Liceo musicale annesso al Conservatorio e io scrivevo Se questo è un uomo sui frammenti di Primo Levi che di lì a poco avrei conosciuto. Ritrovarmi spettatore, a tanti anni di distanza, di questo interesse così importante per la formazione delle persone e con il Conservatorio Lucio Campiani protagonista dell’evento insieme al Liceo musicale e coreutico Isabella d’Este, è stato dunque un momento per rivivere molteplici emozioni già sperimentate.
Ho assistito solo alla rappresentazione finale della Settimana, ma è facile intuire che, per la intensità partecipativa alla ricerca e all’approfondimento del progetto, tra conferenze, letture, canti, proiezioni e concerti in più parti della città, studenti e insegnanti coinvolti abbiano disegnato anche una bella pagina pedagogica oltreché artistica per Mantova, una pagina che è stato il frutto di lavoro di un intero anno. Se l’intento principale della rassegna era un percorso che conduceva alla rappresentazione conclusiva, quest’ultima a sua volta era concepita come un percorso che culminava nella
riproposizione della ormai celebre opera da camera di Marc Neikrug, Through Roses, un monologo con attore ed ensemble da camera eseguita in più parti d’ Italia e d’Europa, ma per la prima volta qui in forma scenica, con l’apporto registico e drammaturgico di Chiara Olivieri e Giovanna Maresta. Questo percorso struttura dunque un concerto-spettacolo composto di tre momenti di coinvolgente crescendo emotivo; momenti diversi, anche per i contesti che ognuno assume, ma che tra
loro non lasciano intravvedere alcuna frattura di un progetto delineato come continuum che appunto conduce lo spettatore tra scenari via via più complessi di questi gironi infernali. Asciutto, quasi un affresco, affidato a geometrie sonore che tessono maglie sempre più strette di un seduttivo reticolo sonoro, In memoria del giovane Igor Bianchini, si affida a un quartetto di sassofoni preregistrati, lasciando a due lettori, un uomo e una donna, Diego Fusari e Francesca Campogalliani, il compito di “chiamare” quei 99 deportati mantovani che non fecero ritorno, schegge o graffiti scolpiti su un terreno lastricato di suono. Discreto, quasi preoccupato di non lasciar percepire quei nomi scanditi, il brano è condotto con bella trama contrappuntistica fino all’inaspettata entrata finale del flauto, che trascolora il reticolo in un diafano cielo. “Io chiusa qui da filo spinato e lassù la bianca nuvola che verso casa va. Io qui chiusa da reticolati e poi sarò una bianca nuvola che a casa tornerà”. Inevitabile l’accostamento ai bianchi pensieri di questa bambina dei campi ricordata nel bel libro di Joza Karas
sulla musica concentrazionaria, in questo passaggio finale del brano di Bianchini che conduce al coro a cappella con cui Luca Buzzavi ha trascritto Kaddish, la prima delle celebri Mélodies ebraiques scritte da Maurice Ravel nel 1914. Un secondo movimento dello spettacolo che è anche una preghiera.
Il Coro è sempre icona importante della musica dei lager, constatazione anche di quella povertà o assenza di risorse, di strumenti e spartiti, che impone di utilizzare al massimo lo strumento naturale della voce umana nel reagire a quella terribile dei campi descritta anche da Levi. Utilizzare il coro significa perciò educare e far rivivere, per quanto possibile, il senso di comunità. In questa direzione corale si spinsero anche diversi compositori affermati come quelli di Terezin, il ghetto di Brundibar e di Hans Kraza, che fu, non senza un ben preciso motivo strategico per i nazisti, una vera eccezione per la produzione musicale nei luoghi di concentramento e sterminio. Gli arrangiamenti di canti popolari di etnie diverse mischiate e accumulate nella sventura, fu una base di partenza ed è questo anche l’apporto fornito dalla bella trascrizione per coro di questa antica preghiera di magnificazione di Dio, composta da Ravel e riproposta spesso, oltre che dal canto accompagnato, anche da struggenti versioni per violino. Momento corale questo che precede la complessa opera di Neikrug. Pur con strumenti linguistici aggiornati al tempo della composizione (1980), Through Roses mantiene lo spirito e le suggestioni dell’epoca di riferimento in una struttura musicale dettata dalla disarmante narrazione qui affidata a un ottimo Marco Galifi. Le inflessioni del parlato multilingue sconfinano fino al cantato attraverso la vasta gamma di modi di esecuzione già introdotti da Schönberg fin dal Pierrot Lunaire, e si mescolano a quella ridda infernale di situazioni musicali spesso sovrapposte in allucinante policromia. E suggestivo è questo scollamento del tempo, ora ossessivo e interminabile, ora stretto e lacerante, ma soprattutto visibile nella sovrapposizione di più eventi musicali contestuali, con lunghe fasce sonore tenute che accolgono frammenti di voci, bagliori di rumori, di marce e reminiscenze d’autori dei repertori storici. Ed è soprattutto visibile nella sovrapposizione sullo stesso palco del gesto scenico dell’orchestrina diretta dalla figura femminile interpretata dalla stessa Olivieri – uscita dai ricordi e dalle allucinazioni del violinista protagonista – in contrasto ritmico e visivo con quello subito dietro dell’orchestra ‘reale’ formata dagli otto esecutori diretti da Romano Adami. Il violino è il simbolo per eccellenza di questa storia, con i suoi fantasmi che affondano nel romanticismo paganiniano traghettati nell’espressionismo di Berg, e in questo inferno il nobile strumento trova anche la sua doppia immagine: quella del musicista “vero” (Giacomo Invernizzi) che si sovrappone alla figura del violinista “bambino” (Lorenzo Biancoli). Una ricerca della forma musicale tra Male e Bellezza, termini che hanno convissuto nella riflessione di Viktor Ullmann, grande compositore anche lui vittima dello sterminio. Ma tanti sono i richiami simbolici all’olocausto qui presenti: la valigia, i vestiti, il pigiama a strisce, i capelli, l’orchestra femminile, i bambini, il kapò donna, le marce, il cammino verso il nulla, … L’assemblaggio avviene in uno spazio scenico essenziale che permette di evidenziare tutti i protagonisti nello svolgere la parte di pupazzi che guardano nel vuoto perché ormai vuote sono le persone, annientate da incontrollati gesti di pazzia, pura reazione di muscoli e altre piccole parti del corpo, materia umana inanimata. Questa inespressività ricercata e così ben interpretata dagli attori è in realtà altamente espressiva in ogni parte del racconto svolto sulla scena o tra il pubblico. Semplicità di mezzi, dunque, ma grande efficacia nel risultato artistico complessivo. È quello che tutte le figure hanno generosamente mostrato insieme ai componenti dell’Orchestra da Camera della Memoria, per una attenta regia che ha saputo riportare lo spirito autentico di questo beffardo destino del violinista. È lui, il testimone della memoria, che infine sembra la vera vittima proprio per essere sopravvissuto grazie e solo alla sua bravura nel saper suonare. Pagherà questa beffa con le allucinazioni perpetue di quel che vide e anche di ciò che ha perso, soprattutto i sogni della bella amata vestita di rosso, infine spogliata, che esce di scena verso il crematorio e verso un’altra nuvola bianca.Ma attraversando un giardino di rose.
Scrivi un commento