Tra i personaggi considerati “minori”, Adriano Banchieri (monaco olivetano, Bologna 1568-1635) è forse il più citato nella letteratura sulla storia musicale tra Cinque e Seicento. E questo non tanto in merito alla sua produzione, quanto alla mole di informazioni con cui la sua opera musicale, letteraria e teorica, contribuisce ad illuminare aspetti della vita musicale del tempo dove pochi altri scrittori sogliono ficcare il naso e riferirne.[1]

Radicato in una città che non fu capitale, ma da secoli sede di un illustre ateneo e di una massiccia presenza di istituzioni ecclesiastiche, posta al crocevia di cose, uomini, linguaggi e idee, Banchieri osserva curioso il viavai del suo tempo, assorbendo come una spugna stimoli provenienti dagli ambiti più disparati, dal sacro come dal profano, dalle élite sociali e culturali come dalla piazza, dalle teorie come dalle pratiche, dalla musica come dalla letteratura, dal teatro della scena come da quello del mondo, restituendo questi stimoli in personali elaborazioni e “riscritture” (paradigmatiche quelle delle opere di Orazio Vecchi e Giulio Cesare Croce) forse non sempre geniali ma sicuramente sorprendenti, per certi versi straordinariamente moderne e comunque estremamente istruttive per lo storiografo.

«Scrivo a mio modo e leggo a quel d’altrui»

«Nulla si può dir che non sia detto / ma in vario stil diversamente detto»

sono versi in cui si compendia molta della poetica banchieriana.

 Compositore di musica sacra e profana, vocale e strumentale, organista, teorico e didatta della musica, letterato, poeta e drammaturgo, scrittore di cose cittadine, animatore di accademie, progettista di strumenti musicali, descrittore di eventi, concerti e opere pittoriche, “accademico vario” come si firma in una delle edizioni del Cacasenno: non c’è limite agli interessi del monaco bolognese, al suo estro produttivo, al suo desiderio di contaminare opere, stili e generi, lingue e consuetudini sociali, in questo partecipe di uno gusto secentesco per il nuovo, il vario, l’arguto, il bizzarro.

Un legame organico intreccia la sua produzione, la rende inedita, viva e pulsante, potremmo dire “multimediale”. Colpisce in particolare il modo in cui la produzione musicale, letteraria e teatrale si interseca, animando narrazioni e scenari con inserti musicali, farcendo la produzione musicale profana di elementi paratestuali che descrivono concreti ambiti e occasioni di fruizione su cui gran parte della produzione musicale coeva è per noi assolutamente muta, gettando lampi di luce sulla nostra conoscenza della vita musicale del tempo. Talora l’opera parla della propria fruizione o messinscena in una specie di metanarrazione o di una più o meno definita teatralità. Non a caso nell’annosa questione sulla “rappresentatività” della “commedia madrigalesca”, alla fine è Banchieri che riesce positivamente convincente.[2]

Ad accrescere la vivacità del quadro concorre infine la stretta relazione che negli scritti di argomento musicale unisce teoria e prassi, dove la prima è per Banchieri sostanzialmente debitrice della seconda, dove l’«abuso convertito in uso» è implicitamente considerato uno dei motori di un progresso musicale di cui Banchieri è attento osservatore e vivace recettore. L’esposizione teorica è quasi sistematicamente espressa in funzione didattica.

«Non volendo in questo Organo suonarino attendere a speculazioni, ma sì bene alla pratica reale e da tutti intesa facilissimamente.»

«Il novello principiante non diffidi, forse imaginandosi non essere musico perfetto senza le matematiche speculazioni.»

Così nell’Organo suonarino e nella Cartella musicale Banchieri chiarisce lo stretto legame della sua opera teorica con la pratica musicale, i propri intenti divulgativi, l’autonomia della pratica rispetto alla teorizzazione astratta e il carattere non essenziale di quest’ultima nella formazione del musicista. E dove la prassi esige un’indicazione che il teorico snobba ma che l’insegnate non può omettere di comunicare, almeno oralmente, all’allievo, Banchieri si premura di accoglierla sulla propria pagina. Ci spiega ad esempio il «modo di pigliar la voce in compagnia», come simulare un «contrappunto alla mente» o come eseguire «la gorga» – con qualche scrupolo in quest’ultimo caso «essendo più tosto cosa naturale che altrimenti», vale a dire prassi diffusa nel canto popolare “spontaneo”, cui Banchieri non manca di prestare orecchio.

Come omaggio a questo straordinario personaggio, vorrei esemplificare alcune di queste caratteristiche peculiari della sua produzione illustrando una delle opere profane meno note ed eseguite, Vivezze di Flora e Primavera, cantate, recitate e concertate con cinque voci nello spinetto o chitarrone, del 1622.[3]

Questa raccolta di 21 madrigali, si colloca nella tarda stagione creativa di Banchieri e non rientra nella produzione profana più nota, quella delle celeberrime “commedie armoniche” a tre voci (Pazzia senile, Metamorfosi musicale, Prudenza giovanile) e dei primi libri di ‘madrigali drammatici’ a cinque voci a cappella (Zabaione musicale, Barca di Venezia per Padova, Festino del giovedì grasso). In effetti quasi quindici anni separano il Festino (1608) dalla pubblicazione delle Vivezze. In mezzo scorre molta musica sacra, trattati, commedie e un sesto libro di canzonette andato perduto (vedi oltre). Musicalmente appare evidente un aggiornamento stilistico, come i termini «recitato» e «concertato» del titolo, nonché la presenza del basso continuo lasciano bene intendere. In realtà non pochi sono i legami con la produzione precedente dal momento che almeno un terzo delle composizioni consiste in una rielaborazione di brani presi dalla Barca (3), dal Festino (1), dal Metamorfosi (1) e persino dai libri di canzonette a tre voci (2).[4] Se, come abbiamo detto, la rielaborazione di materiale preesistente gioca un ruolo strategico nel complesso della produzione banchieriana, la riscrittura di opere proprie caratterizza in misura particolare la produzione di questi ultimi anni.[5]

Altra novità: con qualche possibile ma solo ipotetica eccezione, i testi poetici non sono di Banchieri, bensì ascrivibili al Guarini, al Marino e ad altri poeti in buona parte già noti ai madrigalisti. Da questa scelta sembra discendere un’altra differenza di rilievo rispetto alla produzione precedente, vale a dire la mancanza di una cornice narrativa o ‘drammatica’ che unifichi la raccolta. La materia poetica è comunque tematicamente piuttosto omogenea, lontana dal registro comico, popolare o borghese, e invece di carattere pastorale o georgico, richiamando in questo il primo libro di canzonette, Ora prima di recreazione (1597) e, per quanto ci è dato di concludere dal superstite indice della raccolta, Tirsi, Fili e Clori che in verde prato di variati fiori cantano il sesto et ultimo libro delle canzonette a tre voci (1614). Queste tre raccolte condividono in effetti un concreto legame funzionale con i tempi e la ritualità stagionali (memore del tradizionale “cantar maggio”): tutte videro la luce in primavera, come attestano le rispettive dedicatorie datate 1 giugno, 28 maggio, 22 aprile.

A unificare e caratterizzare unitariamente le Vivezze concorre però un diverso e concreto riferimento funzionale e istituzionale. Si tratta della destinazione accademica, che in questo senso accomuna l’opera piuttosto al Virtuoso ritrovo accademico del 1626. Il ruolo di Banchieri come fondatore e sodale delle prime accademie musicali bolognesi è ben noto.[6] Ma mentre palese è il rapporto del Virtuoso ritrovo academico con l’Accademia dei Filomusi, meno evidenziato è il nesso che lega organicamente Vivezze alla prima accademia, quella dei Floridi, di cui i Filomusi sono ritenuti, un po’ impropriamente, la continuazione.

Nel frontespizio delle Vivezze di Flora e Primavera Banchieri si qualifica «Capo de concerti nella Florida Accademia di S. Michele in Bosco» e firma la lettera dedicatoria indirizzandola al cardinale Scipione Borghese, protettore dell’Accademia stessa. Con tutta evidenza il titolo dell’opera e il carattere di buona parte dei testi messi in musica suggellano il legame tra Vivezze di Flora e la “Florida Accademia”. La ricorrente metafora floreale e primaverile

O bellissima Flora,

produttrice feconda

di nove erbette e fiori

racchiude un sicuro riferimento alla formazione dei giovani discenti, in linea con le finalità espresse nel Discorso su «Academie scuole et ridotti … di grandissima utilità e reputazione agli studiosi gioveni di buone lettere e musica» e nei Capitoli esigibili nell’Academia dei Fioriti, inseriti in apertura alla Cartella musicale (1614).[7]

Di notevole interesse è la presenza nella parte del basso continuo (nei brani classificati come «concertati») di didascalie che descrivono la distribuzione delle parti vocali (Tenore solo, Terzetto acuto, Ripieno, etc.), particolari condotte armoniche e contrappuntistiche (Scherzi a 2, 3, 4, Tutti in fuga, Fughe roverse, Durezze a 5, etc.), lo stile dell’intonazione del testo poetico (Recitativo), il carattere dell’accompagnamento (Arpeggiato) e così via. Queste didascalie sono sì una guida per una realizzazione del basso continuo pienamente consapevole del tessuto vocale cui l’accompagnamento si applica, ma hanno anche una funzione esemplificativa ed esplicativa della varietà delle soluzioni compositive e interpretative del testo poetico utilizzate da Banchieri. Esse ricordano con evidenza le «buone osservazioni» poste a commento delle sestine che illustrano la Moderna pratica musicale nella stessa Cartella musicale che riporta i testi istitutivi dell’Accademia. La presenza inusuale di queste didascalie può spiegarsi dunque in considerazione della natura didattica della Accademia dei Floridi e del legame tra Vivezze di Flora e le attività dell’Accademia stessa.

Vero è che nei citati Capitoli esigibili nell’Accademia dei Fioriti, in comprensibile ossequio all’ambiente monastico, l’esemplificazione delle musiche eseguibili in accademia fa riferimento ad un repertorio sacro (mottetti) o comunque devozionale (madrigali spirituali «gravi») prodotto da campioni del repertorio polifonico classico come Lasso e Palestrina. Come si conciliano queste prescrizioni con una silloge di composizioni madrigalistiche su testo profano (in qualche caso amoroso, sebbene stemperato nella retorica del genere pastorale), che strizzano l’occhio alla «moderna pratica musicale»? Banchieri aveva lasciato aperto un varco, ammettendo nei Capitoli la possibilità di cantare madrigali di Monteverdi (qualificato come «soavissimo compositore moderno» ma anche «dignissimo maestro di cappella in S. Marco di Venezia») seppur nel travestimento sacro e latino di Aquilino Coppini, curatore di una silloge pubblicata nel 1607 che attinge al quinto libro monteverdiano e include, tra l’altro, una composizione dello stesso Banchieri.

Monteverdi, che con evidenza costituisce in questi anni un modello per Banchieri, al momento dell’istituzione dell’Accademia viene dunque fatto “passare dalla finestra”. Pubblicata qualche anno dopo, Vivezze di Flora si ispira in effetti stilisticamente non al quinto, bensì al sesto libro dei madrigali del maestro cremonese. Pur nella scrittura complessiva a cinque voci, la voce solista è protagonista di diversi episodi, la “concertazione” tra solista, duetti, terzetti (sostenuti da un basso continuo spesso indipendente) e “ripieno” ha valore programmatico, sono frequenti ricercati abbellimenti vocali, accuratamente notati, e la “recitazione” sillabica rispettosa del ritmo verbale mostra una precisa attenzione verso la “seconda pratica” monteverdiana.

Nella lettera dedicatoria, Banchieri ammette il proprio «ardimento» nell’invocare la «protezione» del cardinale Borghese (mecenate e collezionista) e trova opportuno giustificare le proprie composizioni «giudicandole vaghezze et ornamento di parole oneste, morali e di civile trattenimento». Questo tono difensivo (al di là di un formulario retorico collaudato) alimenta il sospetto che qualche discrepanza potesse sussistere tra un’opera siffatta e le attività di un’accademia sorta in ambito monastico e, almeno inizialmente, impostata su parametri forse più consoni a quell’ambiente. Potremmo insomma trovarci di fronte, in nuce, ad uno dei motivi di conflitto che indussero quegli «autorevoli accidenti» che portarono in seguito alla sospensione forzata delle attività dell’Accademia nella sede monastica?

Comunque sia, sappiamo che la raccolta include musiche effettivamente utilizzate per almeno due sedute accademiche. Si trattò di occasioni speciali, festive, il cui carattere di eccezionalità potrebbe aver giustificato il carattere forse poco ortodosso delle composizioni. Di fatto, accanto alla seduta ordinaria, infrasettimanale, l’accademia si riuniva talora in occasioni strardinarie, legate in particolare alla visita di personaggi di prestigio. Ecco ad esempio lo stesso Monteverdi (fatto entrare questa volta dalla porta) che il 17 gennaio del 1620 «onorò con la sua presenza in pubblico ritrovo la Florida Academia di S. Michele in Bosco, accompagnato dal signor don Girolamo Giacobbi e virtuosissima comitiva di signori musici bolognesi, dove si recitò orazione et armonizò concerti in lode» del prestigioso ospite (Lettere armoniche). Ed ecco parimenti testimoniata, Giacobbi in testa, la presenza all’interno dell’Accademia dei Floridi dei musicisti bolognesi che animeranno poi l’Accademia dei Filomusi.

L’occasione legata alle Vivezze riguardò invece due importanti prelati dell’ordine olivetano in visita al monastero, rispettivamente nella primavera del 1621 e nell’autunno del 1622. In tali occasioni venne allestita, e replicata, una vera e propria rappresentazione con “recitanti e concertanti” basata su una composizione poetica intitolata, guarda caso, La Flora, dovuta alle penna di Roberto Poggiolini, letterato e musicista allievo di Banchieri (ecco di nuovo il tema didattico). Sebbene l’unione di «buone lettere e musica» rientrasse nel programma costitutivo dell’Accademia, anche l’allestimento di un’azione teatrale e profana potrebbe apparire in conflitto coi precetti dell’Accademia e con l’ambiente monastico in cui essa operava. Ma così presumibilmente non fu, se la Flora potè essere replicata.

 In occasione delle due rappresentazioni Banchieri curò la pubblicazione di un opuscolo da offrire in omaggio ai festeggiati, sottoscrivendone la dedicatoria.

Flora, idillio del cavaliero Roberto Poggiolini, da rappresentare con armonici concerti nella Florida Accademia di S. Michele in Bosco, in applauso d’allegrezza nel felice ritorno del molto rev. padre d. Domenico Lucchi ivi abbate meritissimo, et à s. p. molto rever. dedicato, Bologna, Bartolomeo Cochi, 1621 (dedica datata 2 maggio 1621).

Flora, idillio recitato con armonici concerti nella Florida Accademia di S. Michele in Bosco nell’arrivo del p. d. Vittorio del Testa senese, abbate e procuratore olivetano, Bologna, eredi del Cochi, 1622 (dedica datata 5 ottobre 1622)

L’edizione del 1621 riporta il solo testo dell’idillio. Due sintetiche didascalie individuano altrettante porzioni del testo destinate all’esecuzione musicale. Con alcune varianti, esse corrispondono nelle Vivezze alla seconda parte della composizione bipartita Flora e al madrigale Fiorito Aprile, posto a chiusa della rappresentazione.

Col suo indomito istinto di rielaboratore e fautore di paratesti, Banchieri arricchì la seconda edizione di un’articolazione, anche grafica, del testo, aggiungendo descrizioni sceniche, scenografiche e testi poetici di cornice.[8] Si specifica la presenza di un «coro di voci musicali», un «coro di stromenti musicali» e di tre attori, due dei quali anche cantori solisti. A un preludio strumentale «inapparente» (eseguito fuori scena) fa seguito un «coro di voci in musica» che corrisponde all’Anunzio di Primavera che apre le Vivezze (su testo di Ercole Cavaletto), stabilendo così un’analogia formale tra le due opere. A seguire, Primavera, Aprile e Maggio entrano in scena in una sorta di prologo teatrale recitato e cantato, parte a solo, parte in un nuovo «coro» polifonico.

Solo a quel punto ha inizio il testo di Poggiolini, all’interno del quale sono ora distinte tre «ariette» con schema fisso: «Aprile canta solo», «Maggio canta solo», «Aprile e Maggio cantano insieme». La seconda e la terza arietta corrispondono alle due parti di Flora nelle Vivezze. La prima è probabilmente da attribuirsi a Girolamo Giacobbi che, come recita la didascalia introduttiva, affiancò Banchieri nel porre in musica la poesia dell’idillio. Al termine riecco il «coro di voci musicali» corrispondente al Fiorito Aprile delle Vivezze. La cornice è quindi ripresa e chiusa da un «Applauso musicale» in lode del festeggiato privo di elementi utili per un’attribuzione. Tuttavia, secondo le Lettere armoniche, una delle due rappresentazioni (e forse entrambe) si avvalse anche di musiche di Domenico Brunetti, che potrebbe in effetti aver posto mano alle composizioni vocali e strumentali di cornice, sulla cui paternità il “libretto” tace.

L’edizione delle Vivezze si colloca dunque tra le due rappresentazioni, e certamente influì sulla rielaborazione della seconda edizione della Flora. Sarebbe tuttavia vano cercare una corrispondenza letterale tra le due opere. Secondo la più squisita poetica banchieriana, nulla si ripropone mai allo stesso modo, piegandosi alle diverse esigenze del contesto di creazione o fruizione, ovvero al semplice capriccio dell’autore. Nell’edizione musicale, ad esempio, la prima sezione di Flora presenta sì le parti soliste e il duetto corrispondenti al testo della «seconda arietta» e alle indicazioni nel “libretto”, ma in alternanza a un refrain a cinque voci e con l’aggiunta di un basso vocale sotto al duetto. Questo al fine di confezionare una composizione collocabile in una raccolta formalmente destinata ad un organico di cinque cantori quale le Vivezze ancora si propongono di essere.

La rappresentazione della Flora fu «determinata», cioè promossa, e con tutta probabilità anche realizzata «da questi nostri giovani», come riferisce Banchieri nella dedicatoria alla prima edizione. Difficile stabilire se gli allievi eseguirono in autonomia tutte le parti musicali, sotto la guida di Banchieri quale “capo dei concerti”, o se ricevettero l’aiuto di musici professionisti, già chiamati in causa in veste di compositori e che abbiamo visto frequentatori dell’Accademia, almeno nelle occasioni celebrative. Una collaborazione di questo tipo potrebbe spiegare il senso di quella continuità tra l’accademia dei Floridi e l’accademia dei Filomusi a cui allude Banchieri nelle Lettere armoniche.

Di fatto le due accademie furono differenti sotto molteplici aspetti. Sospese, con rammarico di Banchieri, le attività dei Floridi intorno al 1623-1624 per gli «autorevoli accidenti» già menzionati, una nuova accademia fu organizzata in casa del Giacobbi, allora maestro di cappella di San Petronio. L’esperienza dei Floridi dovette costituire uno spunto, un precedente cittadino importante che Giacobbi valutò non dovesse andare perduto. Il ruolo e le capacità di Banchieri come creatore, promotore ed organizzatore di eventi venne riconosciuto e messo a frutto, tanto che egli venne eletto Principe della nuova congregazione. Tuttavia, trasferita in ambiente urbano, come consesso di musici affermati e in parte professionisti, l’accademia perse, in tutto o in gran parte, il carattere didattico e formativo che aveva caratterizzato la prima Accademia nel monastero di San Michele in Bosco. Ne Il principiante fanciullo, ulteriore opera didattica, apparsa nel 1625, Banchieri è qualificato «nell’Accademia de Virtuosi Musici Bolognesi il Disonante». La mancata esplicitazione del nome dell’accademia si spiega col fatto che i Floridi erano ormai sciolti, mentre l’Accademia Filomusa (in cui Banchieri assunse effettivamente il nome accademico di Dissonante) non è nominata esplicitamente essendo venuto meno il rapporto funzionale tra il contenuto di un’opera didattica e le attività della nuova accademia.

E anche la musica cambiò. Nel Virtuoso ritrovo accademico, aderendo al processo monteverdiano di disgregazione del madrigale polifonico, Banchieri abbandona infine il modello a cinque voci in favore di organici vocali e strumentali che suonano come un chiaro tributo al settimo libro di madrigali di Monteverdi. Manco a dirlo quest’ultimo avrà rapporti anche con l’Accademia dei Filomusi, ma in questo caso si tratterà di una vera e propria aggregazione, honoris causa e inter pares.

 

[1]               Si veda ad esempio la presenza preponderante di Banchieri nel volume di Inga Mai Groote, Musik in italienischen Akedemien. Studie zur institutionellen Musikpflege 1543-1666, Laaber, 2007, a cui ci riferiremo più avanti.

[2]          Cfr. Marta Fahrat, On the staging of madrigal comedies, «Early music history», 10 (1991).

[3]               Di quest’opera è nota un’unica edizione (Venezia, Bartolomeo Magni, 1622) in un unico esemplare conservato alla British Library. Un’edizione moderna, non priva di errori e omissioni, venne curata da Elio Piattelli (Roma, 1971). Mi è nota un’unica, parziale incisione discografica, appesantita da un tipo di emissione vocale poco adatta a questo repertorio (Società cameristica di Lugano diretta da Edwin Loehrer, registrata nel lontano 1960).

[4]               Sulla traccia delle corrispondenze testuali individuo questi debiti: Clori per far morire, Cuor mio perché ti parti, Voi non rubate? Ah, cruda dalla Barca; Dolcissimo usignolo dal Festino; Soavissimo ardore dallo Zabaione; il centone madrigalistico Mentre il bel maggio adorno dal primo libro delle canzonette; Piangete, occhi miei lassi dalla Prudenza giovenile. Impossibile valutare l’eventuale debito con l’ultimo libro di canzonette, disperso.

[5]               I Trattenimenti da villa (1630) sono in massima parte una riscrittura aggiornata dello Zabaione, non dissimile dalle riedizioni con aggiunta del basso continuo della Barca (1623) e della Prudenza (ora Saviezza) giovanile (1628).

[6]               Si vedano i classici contributi di Giuseppe Vecchi, Una seduta dei Filomusi a Bologna e il Virtuoso ritrovo academico di A. Banchieri (1626), «Chigiana», 1968; Le accademie musicali del primo Seicento e Monteverdi a Bologna, Bologna 1969 e il citato volume di Inga Mai Groote.

[7]               Destinati ad un pubblico di giovani discenti sono altri testi a vario titolo riferibili all’Accademia dei Floridi, come il Cantorino utile a novizzi […] raccolto […] nella Florida Accademia di S. Michele in Bosco, pure del 1622, e la Banchierina, overo cartella picciola del canto figurato, destinata a fanciulli e principianti, con dedica siglata «dall’Accademia Florida di S. Michele in Bosco, il primo marzo 1623».

[8]               Per gli aspetti teatrali cfr. M. Fahrat, On the staging …, citato.