Giuseppe Verdi stava lavorando alla versione italiana in quattro atti del Don Carlo quando, il 18 marzo del 1882, nasceva a Venezia Gian Francesco Malipiero. Non molti anni dopo, l’affermazione di Cavalleria Rusticana pose alla ribalta nazionale e internazionale una nuova generazione di compositori, a conferma della vitalità e della continuità di una tradizione operistica che, nell’ultimo secolo, si era imposta di fatto quale esclusivo genere cui un compositore italiano in cerca di consensi potesse rivolgersi. D’altra parte la popolarità e il prestigio dell’Opera facevano sì che in Italia pochi fossero in grado di immaginare una cultura musicale differente, e men che meno prevedere le trasformazioni che, nei successivi cinquant’anni, avrebbero profondamente mutato il panorama musicale della penisola. Sporadici tentativi di rinnovamento quali la fondazione della Società del Quartetto di Milano nel 1864, l’esecuzione di opere di Wagner o le composizioni strumentali di Marco Enrico Bossi e Giovanni Sgambati sembravano, piuttosto che i primi indizi di cambiamento, eccezioni a conferma della regola, viste peraltro con più di una punta di sospetto. Fatto sta che, lentamente ma inesorabilmente, emersero compositori mossi da una sempre maggiore esigenza di ampliare gli orizzonti culturali, nel tentativo per un verso di rinnovare il teatro musicale purificandolo dalle presunte corruzioni di gusto del melodramma dell’Ottocento, dall’altro di sviluppare una musica strumentale italiana che, complice il coevo incremento degli studi musicologici in Italia, trovasse nella progressiva riscoperta dell’antico patrimonio musicale indirizzi verso nuove vie. Rendere conto dell’entità di tale mutamento sarebbe tuttavia impossibile senza menzionare la personalità e l’opera di Gian Francesco Malipiero che, per ricchezza d’invenzione, ampiezza di cultura musicale, autorevolezza intellettuale e originalità di risultati artistici, fu indubbiamente uno dei protagonisti del rinnovamento musicale italiano dell’inizio del Novecento.
Nato, come già accennato, nel 1882 a Venezia, fu indirizzato fin da bambino allo studio del violino dal padre musicista che, in seguito al divorzio, portò il figlio con sé negli impegni artistici in Italia e all’estero. Il piccolo Gian Francesco ebbe quindi modo assai presto di entrare in contatto con la musica d’oltralpe, di segno assai differente rispetto alla cultura operistica prevalente in Italia; ha peraltro probabilmente origine da qui l’affinità di Malipiero con i paesi di lingua tedesca, dove la sua musica avrebbe trovato consensi e ammirazione persino più che nel paese natale.
Tornato stabilmente a Venezia, approfondì in costanti e appassionati studi presso la biblioteca Marciana la conoscenza dell’immenso patrimonio musicale italiano, e in special modo veneziano, lì conservato. Anni dopo avrebbe reso noti i tesori lì scoperti attraverso edizioni a stampa, i cui risultati più significativi furono le edizioni di musiche di Vivaldi e soprattutto, come si vedrà, la prima edizione a stampa di tutte le opere di Monteverdi. Tali studi condussero Malipiero a sviluppare, nonostante l’interesse spiccatissimo per l’espressione vocale, una forte propensione verso la musica strumentale, in parte senz’altro incoraggiata dagli studi in conservatorio con Marco Enrico Bossi che, come si è accennato, era all’epoca uno dei più convinti propugnatori dell’esigenza che l’Italia sviluppasse un proprio repertorio strumentale. Nel corso di pochi anni si delinearono quindi le coordinate fondamentali della poetica di Malipiero: apertura alle esperienze europee, riscoperta e assimilazione della più antica tradizione musicale italiana e veneziana in special modo, vocazione alla musica strumentale non meno che vocale. A completamento del percorso di maturazione si aggiunse il soggiorno a Parigi, dove entrò in contatto con molte delle personalità più significative della musica europea del tempo, tra cui Debussy, Casella e Stravinskij.
Lo stesso Malipiero era ben consapevole dell’eccentricità della sua posizione rispetto agli indirizzi della musica italiana coeva, come ebbe in seguito a scrivere:

«All’inizio di questo XX secolo, giovanissimo, ho reagito per istinto contro le condizioni della musicalità italiana soffocata dalla tirannide melodrammatica. Mi sono formato la convinzione che il canto gregoriano fosse la vera origine della nostra musica. Attraverso il canto gregoriano, a passo a passo ho raggiunto la grande scuola dei polifonisti italiani per arrivare inevitabilmente a Claudio Monteverdi che va considerato il primo musicista dell’era moderna1».

Lo stile maturato da Malipiero mostrò presto spiccati caratteri di originalità. Dall’organizzazione sintattica della musica vocale rinascimentale, in special modo madrigalistica, emerse da un lato il rifiuto dell’elaborazione motivico-tematica di ascendenza austro-tedesca e, dall’altro, la predilezione per la giustapposizione di situazioni musicali sottilmente relate ma non strettamente collegate. Da ciò emerge sempre una scrittura fluida, variamente articolata, apparentemente rapsodica ma in realtà solidamente consequenziale. Come scrisse Vittore Branca, che di Malipiero fu amico e collaboratore presso la Fondazione Cini di Venezia, «il movimento della sua musica e della sua scrittura ha questo stesso fascino, insieme dell’imprevedibile, anzi del rabdomantico, e del logico e conseguente: dell’avventura a sorpresa e del già tutto stabilito2».

Esemplare in tal senso il quartetto d’archi Rispetti e strambotti (1920), che sin dal titolo denuncia lo sguardo alla poesia per musica del ‘400 e al tempo stesso alla polifonia di situazioni di cui l’opera è costituita. L’altro aspetto essenziale è il tendenziale diatonismo della sua musica che, seppur non priva di cromatismi, tende a prediligere inflessioni melodiche di natura modale mutuate dal canto gregoriano e dalla polifonia vocale del ‘500, combinate tuttavia a una scrittura armonica fondata su accordi di quarta, di nona, e collegamenti non ortodossi. Altro tratto distintivo della sua poetica è la natura spesso vocale della sua scrittura strumentale, in modo affine alla musica di fine XVII e inizio XVIII secolo, in cui si assisteva alla perfetta integrazione di gestualità tra voci e strumenti. Tale stile trovò prolifica espressione in un’attività creativa intensa e molteplice, da cui non fu escluso alcun genere tanto strumentale quanto vocale. Se si aggiunge al panorama fin qui delineato la cultura letteraria vastissima di cui Malipiero era in possesso, non stupisce allora che alcuni degli esiti artistici più celebrati siano stati quelli nel campo teatrale, in cui il suo mondo creativo poteva trovare un punto di congiunzione tra molteplici attitudini: sapienza nella scrittura strumentale e vocale, dottrina polifonica, conoscenza del teatro rinascimentale e barocco, e non ultima la passione letteraria che gli permise di confezionare da sé i libretti ricavandoli da testi della tradizione o scrivendoli di suo pugno – sia pure con saltuarie eccezioni, tra cui si segnala La favola del figlio cambiato (1934), su libretto di Pirandello. I soggetti teatrali scelti sono del tutto estranei alle consuetudini ottocentesche e virano bruscamente dal taglio melodrammatico fin dall’organizzazione drammaturgica, che nei lavori più importanti realizza nella forma teatrale i principi di sintassi musicale prima delineati per mezzo della libera successione di scene tra loro tenuamente collegate. Ciò risulta evidente sin dal titolo in Sette canzoni (1919), breve opera formata da sette scene irrelate, ciascuna delle quali con al centro una canzone su testi poetici antichi; lavoro confluito a sua volta ne L’Orfeide (1922), opera in tre parti in cui ciascuna appare esteriormente indipendente dalle altre. Ma si pensi anche a Torneo notturno (1931), in cui sette notturni – ossia scene di ambientazione notturna – collegate da intermezzi orchestrali sono connesse dalla ricorsività delle figure simboliche dello Spensierato e del Disperato senza alcun reale divenire drammatico, o del più tardo I capricci di Callot (1942).

 

Malipiero, Manuel De Falla e Alfredo Casella a Venezia

Gian Francesco Malipiero

Le composizioni per coro

Nonostante Malipiero abbia mostrato più compiutamente le sue doti nelle composizioni teatrali e in quelle strumentali, le opere destinate al coro rivestono un interesse tutt’altro che marginale, tanto numericamente quanto qualitativamente. La produzione per coro a cappella è ristretta a soli tre titoli: Tu es Petrus, di datazione incerta, Una canzone a Chioggia del 1923, tratto dalle Baruffe chiozzotte e, tratto da Catullo, Passer mortuus est del 1952, tra i tre il più significativo. La scrittura vocale di questo lavoro si dispiega in un discorso fluido e mutevole che si avvale del contrappunto con valore espressivo piuttosto che meramente architettonico, nella migliore tradizione madrigalistica riletta secondo la sensibilità di un compositore del Novecento. Tra più numerosi i lavori per coro e orchestra, la compagine corale è protagonista assoluta in Universa universis (1942), Ave Phoebe… dum quaeror (1964) e soprattutto ne Li sette peccati mortali (1946), il cui testo è tratto dai Sonetti sopra li sette peccati capitali di Fazio degli Uberti e ne La terra (1946), lavori in cui particolare suggestione esercitano soprattutto le pagine in cui il coro è impiegato in modo spoglio e dimesso. In tutti gli altri casi al coro sono associati uno o più solisti. Tra questi lavori spicca la Missa pro mortuis, composta nel 1938 e dedicata alla memoria di Gabriele D’Annunzio; si tratta di un’opera in cui l’intenso studio del canto gregoriano da parte di Malipiero è più manifesto del solito, al punto da impiegare motivi tratti dalla missa pro defunctis. Il coro riveste poi un ruolo di grande importanza nelle quattro composizioni appellate dall’autore mistero, in cui Malipiero si ricollega alle sacre rappresentazioni medievali nel tentativo di ritrovare nell’arte del suo tempo un’autentica ispirazione religiosa. Già nel San Francesco d’Assisi del 1921 – i cui testi sono tratti dai Fioretti di San Francesco – il coro punteggiava l’azione rappresentando ora la folla ora i compagni di Francesco; ma è soprattutto nei due misteri tratti dalla Rappresentatione della cena e passione (1519) del savonaroliano Pierozzo Castellano Castellani, La Cena (1927) e La passione (1935), che il coro assume un ruolo di altissimo rilievo, essendo chiamato a dare voce alle parole di Cristo, poiché solo il coro è considerato da Malipiero il mezzo adatto a dare voce a chi trascende la persona umana.

L’opera omnia di Monteverdi

L’ammirazione profonda di Malipiero per Monteverdi rinvia agli anni della giovinezza, come dimostra il fatto che già nel 1902 risulta aver chiesto alla Biblioteca Marciana la consultazione dell’Incoronazione di Poppea: è lo stesso Malipiero a narrarlo, all’inizio del breve scritto Così parlò Monteverdi, precisando le fortuite coincidenze che lo indussero ad accostarsi alla musica monteverdiana:

«Da un piccolo libraio veneziano acquistai una sbiadita, ma leggibile copia fotografica dell’Orfeo, la quale attirò tutta la mia curiosità; la studiai, quasi mio malgrado. Io fui sempre favorito dal caso, difatti come per incanto quando ormai conoscevo profondamente l’Orfeo, si presentò l’occasione di assistere (prima del 1918), a una sua esecuzione che mi sbalordì3».

A sbalordirlo furono però anche le modifiche disinvolte e irrispettose con cui fu approntata la partitura per lo spettacolo; non stupisce dunque che nel compositore maturasse l’intenzione di mettere a disposizione del mondo musicale un’edizione completa delle opere di Monteverdi che fosse rigorosa sotto il profilo musicologico ma che al tempo stesso ne favorisse l’esecuzione e ne permettesse la diffusione nel modo più conforme possibile alle intenzioni dell’autore. L’impresa, durata oltre vent’anni, si concretizzò in ventisette volumi, editi integralmente a partire dal 1927 dalla Universal Edition:

Grazie ad essa fu finalmente possibile avere a disposizione in edizione moderna l’intera opera monteverdiana, favorendo così enormemente il sorgere della fortuna moderna del compositore dopo secoli di oblio. Come si è detto, l’auspicio di Malipiero era quello di contribuire al ritorno di Monteverdi nelle sale da concerto: lungi dunque dal licenziare una pubblicazione musicologica più adatta alle biblioteche che alla pratica musicale, l’edizione contiene integrazioni dinamiche e suggerimenti di agogica; scelte fatte tuttavia con tatto, nel limite dell’indispensabile e con aderenza allo spirito della musica. La realizzazione del basso continuo, che nelle esecuzioni coeve tanto scandalizzava Malipiero per il gusto modernizzante e non appropriato allo stile, è compiuta in modo essenziale ma sempre con gusto, senza armonizzazioni anacronistiche e indebite rispetto al contesto4. Queste qualità rendono tutt’oggi la consultazione del lavoro di Malipiero uno strumento di grande utilità per penetrare nel mondo monteverdiano. Certo, va rilevato che la lettura malipieriana di Monteverdi non è indenne dalla temperie dell’epoca e dal gusto antiottocentesco dell’autore, che infatti più volte nei suoi scritti si appella al cremonese per giustificare le proprie posizioni estetiche; ciò avvenne tuttavia proprio in virtù della capacità di Malipiero di vivere la modernità con gli occhi dell’antico e l’antichità con quelli del moderno. E certo di lui, più che di chiunque altro nel suo tempo, si può dire che fosse un moderno dal cuore antico.

1. G. F. Malipiero, Claudio Monteverdi. Commiato in Il filo d’Arianna. Saggi e fantasie, Einaudi, Torino 1966, p. 96.
2. V. Branca, Malipiero, musicista da grandi battute, «Il Sole 24 ore», 4 marzo 2001, ora in M. Brighenti (a cura di), Incontri con Gian Francesco Malipiero, LIM, Lucca 2023, p. 149.
3. G. F. Malipiero, Così parlò Monteverdi, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1967, ora in «Musica/Realtà», XXXV/97, marzo 2012. È possibile leggere il testo al seguente link
4. In verità la disinvoltura negli interventi sopra le partiture monteverdiane non cessò ma anzi, per certi aspetti, fu favorita dalla maggiore diffusione garantita dall’edizione di Malipiero, che non mancò a più riprese di lamentarsene. Si veda ad esempio il seguente estratto di un’intervista:

Il madrigale Ecco mormorar l’onde di Claudio Monteverdi
nell’edizione curata da Francesco Malipiero

Ecco mormorar l’onde