La storia, la vita, il fascino di quest’arte.

di Matteo Unich e Marialuce Monari

foto in copertina: Edgar Degas, Les choristes (1877, Musée d’Orsay); il dipinto probabilmente ritrae un allestimento parigino del Don Giovanni di Mozart

Il coro, inteso come gruppo di persone che cantano insieme, ha una sua storia riccamente documentata fin dall’antichità. Da quando si fa musica, l’essere umano si è servito dello strumento più semplice, intuitivo e “vicino”, ossia la propria voce, per esprimere le emozioni e i sentimenti. Fin dall’antica Grecia (e prima ancora, nell’Egitto dei Faraoni) il coro è stato espressione di umanità ora festosa ora dolente, ora eroica, ora vile. Il trionfo del coro, reso protagonista assoluto dell’espressione musicale, si ha a partire dal canto gregoriano, dove l’omogeneità delle voci simboleggia l’unità della Chiesa e prosegue con la polifonia, massima espressione corale dei secoli passati, dove il moltiplicarsi contrappuntistico delle parti rende indispensabile, nelle cappelle delle Cattedrali e nelle corti principesche, l’uso di cantori professionalmente formati e retribuiti, spesso anch’essi compositori di livello.Giunti al culmine si può solo decadere e nel XVI secolo il prepotente ritorno della monodia, che permetteva un ingente risparmio economico oltre al vantaggio di comprendere le parole che venivano cantate, porta l’espressione corale nell’ambito del dilettantismo, sia pure evoluto. È in questa linea che si arriverà alle soglie del XIX secolo, precisamente nel 1809, alla fondazione a Berlino della prima società corale “amatoriale”, cui seguirà, su questo esempio e grazie al movimento nato in Francia con Gounod e De Rillé pochi anni prima, la prima corale orfeonica italiana nel 1876.

Una grande storia italiana

Nel frattempo, il coro non è… stato zitto, anzi. A partire dai primi, timidi esperimenti della Camerata fiorentina, con Peri e Caccini, proseguendo con l’Orfeo di Monteverdi, il melodramma si è prepotentemente impossessato della scena musicale europea, inglobando in esso la coralità come espressione di sentimenti di folla o di popolo. Monteverdi affida al coro i ruoli di ninfe e pastori, poi la personificazione degli spiriti infernali. L’utilizzo è ancora rinascimentale, a cinque voci, in omoritmia o in contrappunto, talvolta a cappella, talaltra accompagnato dal continuo. Il melodramma diventa quindi l’ambito naturale del coro, presentato nella sua veste più sontuosa. Nello sfarzo dell’opera barocca, il coro è elemento indispensabile, ma con il diffondersi dell’opera buffa e la costruzione di teatri d’opera a pagamento, dove l’impresario mira più al guadagno che alla resa artistica, con dislocamento in città sempre più piccole, il coro diviene un elemento di costo e spesso fortemente limitato, se non addirittura omesso (ne è esempio una delle più celebri opere buffe italiane del Settecento, Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa). Ecco che in questi piccoli centri il coro professionale viene sostituito da elementi volontari o pagati il minimo, in ogni caso dilettanti evoluti. Ben altro trattamento riceve contemporaneamente invece nell’ambito sacro, dove nell’oratorio resta elemento fondamentale: basterebbe pensare allo Jephte di Giacomo Carissimi, ai grandiosi brani delle Passioni di Johan Sebastian Bach o del Messiah di Georg Friedrich Händel, proseguendo lungo la linea temporale con i Requiem di Mozart (e le diciotto Messe scritte da quest’ultimo), lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle di Rossini. A partire dall’inizio del XIX secolo il coro ricomincia ad avere una sua dignità ben precisa, tanto che in molte opere del primo Ottocento troviamo, dopo l’ouverture, il brano introduttivo affidato ad esso, come prologo o per descrivere la situazione in essere. Finisce per diventare un topos: lo troviamo per esempio nel Guillaume Tell di Gioacchino Rossini, nella Sonnambula e nella Norma di Vincenzo Bellini, nell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, nelle prime opere di Giuseppe Verdi, compreso quel Nabucco dal quale avrà inizio la sua carriera internazionale, sino all’Otello, penultima opera del genio di Busseto, dove un coro iniziale – in assenza di preludio – ci conduce subito in medias res, in Carmen di Bizet e così via. A questo genere di topos, si alternerà però l’utilizzo drammaturgico del coro, laddove la situazione drammatica ne richiede la presenza. Nel Rigoletto, dopo il sintetico preludio, c’è un dialogo tra il Duca di Mantova e un cortigiano, nella Traviata il coro è in scena ma dopo poche battute cede il passo a Violetta, nel Trovatore abbiamo il coro che dialoga con il personaggio di Ferrando, per narrare la vicenda (analogamente a quanto Donizetti aveva fatto in Lucia di Lammermoor), in Cavalleria rusticana dove Turiddu dedica una stornellata a Lola, in Pagliacci dove è il personaggio del Prologo che ci narra quanto avverrà. Torniamo un attimo su Verdi anche per indicare alcune  caratteristiche del coro operistico che vi incontriamo. Dall’iniziale uso monteverdiano, gradualmente il coro si fa meno indipendente nelle parti, non più avvezzo alla polifonia contrappuntistica, diventando spesso omoritmico; si giunge poi ad un’elasticità totale, per cui si possono alternare nello stesso brano momenti all’unisono (più correttamente in ottava quando sono presenti voci sia maschili sia femminili) per passare improvvisamente a più voci. Prendiamo in esame il coro operistico per antonomasia, il Va’ pensiero: tutta la parte iniziale è all’unisono, giunti ad Arpa d’or si passa bruscamente a sei voci (soprani primi e secondi, contralti, tenori primi e secondi, bassi); alle parole oh t’ispiri si ritorna all’unisono fino all’ultimo al patire virtù nuovamente a sei voci. Non c’è da annoiarsi. Ricordiamo che poco dopo l’inizio dell’opera c’è un coro, Lo vedeste, che è articolato interamente su frammenti di scala cromatica discendente in stile imitativo.

I pertichini

Il coro non si limita a commentare con brani separati le vicende che si svolgono in scena, ma spesso è chiamato a intervenire (tramite i cosiddetti pertichini) nelle arie e nelle romanze dei personaggi principali. Tra i brani più celebri nei quali interviene il coro possiamo ricordare Casta diva dalla Norma di Bellini, Bel raggio lusinghier della Semiramide di Rossini, O Isis und Osiris dalla Zauberflöte di Mozart, Nessun dorma dalla Turandot di Puccini e i celeberrimi Libiamo nei lieti calici della Traviata e la cabaletta Di quella pira dal Trovatore di G. Verdi. Meno di frequente accade che siano i solisti a intervenire nel bel mezzo di un brano corale (A fosco cielo della Sonnambula di Bellini, Scorrendo uniti dal Rigoletto e Noi siamo zingarelle della Traviata di Verdi ecc…). Si dà anche il caso intermedio, del coro che dialoga direttamente con un solista su base di pari importanza: come citato sopra, nella Norma il brano di apertura dopo la sinfonia, Ite sul colle o druidi, vede il basso (Oroveso) interagire con le sezioni maschili, idem l’apertura del Trovatore, anch’esso già citato, L’atra magion vedete nel Simon Boccanegra sempre di Verdi, e altri ancora, per sfociare nei brani più coinvolgenti, i celeberrimi concertati, in cui il coro diventa uno dei protagonisti e con loro dialoga e s’intreccia.

Nabucco di Verdi al Teatro Bonci di Cesena, Corale Lirica San Rocco

Dall’Italia all’Europa

Allarghiamo geograficamente i nostri orizzonti e andiamo ad osservare le composizioni dei nostri vicini. Considerando intanto che la diffusione del melodramma è paragonabile a un incendio in un mucchio di foglie secche (già nel 1637, trent’anni dopo la prima dell’Orfeo, apre a Venezia il teatro San Cassiano, primo locale a pagamento, si componevano opere già in tutta Europa), non c’è da stupirsi se nei primi tempi i modelli fossero quelli originali italiani. Dopo poco però le istanze nazionalistiche si fanno sentire, dando origine a svariati generi operistici, che si discostano dal melodramma italiano soprattutto per due caratteristiche principali: l’uso della lingua locale e i recitativi parlati a scapito di quelli cantati; vale per l’opéra comique in Francia (con la celebre querelle des bouffonistes et des antibouffonistes), per il masque in Inghilterra, per la zarzuela in Spagna e per il Singspiel in area tedesca. Raramente in questi generi troviamo cori importanti, anche se Henry Purcell ne fa buon uso in The fairy tale, mentre un bel po’ di tempo dopo troveremo importanti cori nei Singspiele di Wolfgang Amadeus Mozart (Die Zauberflöte) e di Carl Maria von Weber (Der Freischütz). Nell’opéra comique invece è d’uopo ricordare la Carmen, capolavoro di Georges Bizet, dove il coro è importantissimo ed assume i connotati di un vero e proprio personaggio. Da ricordare inoltre in Francia lo sviluppo grandioso del grand opéra in cinque atti, con grandiosi cambi di scena, balletti e – ovviamente – grande profusione di cori; come esempio porteremo Les Huguenots di Giacomo Meyerbeer e La juive di Fromental Halévy. Al fascino del grand opéra ricordiamo che non resistettero neppure Rossini (Guillaume Tell), Donizetti (La Favorite e Dom Sébastien) e Giuseppe Verdi (Jérusalem, Les vêpres siciliennes e Don Carlos). In area tedesca, oltrepassati i citati Mozart e Weber, arriviamo a Richard Wagner, il grande antagonista (soprattutto in Italia) di Giuseppe Verdi. Contrariamente al suo coevo Verdi, incline a valorizzare i sentimenti popolari e di massa, Wagner è più cantore di eroismi individuali e mitologici e questo dualismo ha sicuramente generato confronti e amori passionali per l’uno o l’altro compositore. Alcuni brani corali delle opere wagneriane sono comunque impressi nella memoria di tutti e su tutti citeremo il coro Lieti e fedel (come riporta il testo della prima esecuzione nazionale a Bologna) che apre il terzo atto del Lohengrin, una vera e propria marcia che accompagna il corteo nuziale e che a tal fine è ormai utilizzato nei matrimoni civili e religiosi. Ricordiamo poi l’altrettanto conosciuto coro dei pellegrini del Tannhäuser, ripreso anche come tema portante della celebre ouverture. Importante è anche l’uso del coro nei Meistersinger von Nürnberg e nel Parsifal, ultima opera del genio di Lipsia.

Gli eredi di Giuseppe Verdi e il Verismo

Torniamo in patria per dare un’occhiata ai musicisti coevi o immediatamente successivi a Verdi. Ricordiamo anzitutto Amilcare Ponchielli e la sua Gioconda, opera molto bella, con brani corali splendidi, compresa una meravigliosa quanto misconosciuta Marinaresca con la parte dei soprani raddoppiata dal coro a voci bianche. A proposito di quest’ultimo, non compare spesso nell’ambito del melodramma: le opere più famose tra queste Carmen, la citata Gioconda, Otello di Verdi, La bohème, Tosca e Turandot di Puccini, Mefistofele di Boito. Allievo di Ponchielli, è il più noto degli operisti post-verdiani: parliamo di Giacomo Puccini, che fa uso intenso dei cori, anche se in modo meno clamoroso del Bussetano. Molto belli ma difficilmente separabili dalla rappresentazione integrale sono quelli di Manon Lescaut e del secondo e terzo atto della Bohème. Rarefatto ma importante l’uso del coro nella Tosca, con una menzione particolare per la cantata fuori scena (a sei voci con soprano solista) nel secondo atto. Celeberrimo il coro a bocca chiusa della Madama Butterfly (forse quello più facilmente separabile dal tessuto connettivo dell’opera), mentre drammaticamente splendidi sono i cori della Fanciulla del West e di Turandot. Altro allievo di Ponchielli è Pietro Mascagni, celebre per l’atto unico Cavalleria rusticana, che fa largo uso del coro. Vale la pena ricordare il Regina coeli che sfocia nell’Inneggiamo con soprano solista, che inizia a cinque voci a cappella alternandosi con il coro interno, proseguendo poi gradualmente tra momenti all’unisono e imitazioni canoniche fino alle sette voci del finale. Vogliamo ricordare anche l’Inno al sole, che risalta nella coralità dell’opera Iris e la Marinaresca all’inizio del Silvano. Arrigo Boito, ultimo librettista di Verdi, è stato anche compositore di alto livello, ma preso com’era da mille attività è riuscito a comporre un’opera… e mezzo, lasciando incompiuto il Nerone. Nel capolavoro Mefistofele i coristi sono chiamati al più abile dei trasformismi, passando disinvoltamente da angeli a demoni, da popolani a fedeli in preghiera… come detto sopra, occorre elasticità. Citeremo senza ordine Ruggero Leoncavallo e i Pagliacci, con il godibilissimo coro delle campane, Alfredo Catalani, con la Wally e Lorelei, Umberto Giordano con Andrea Chénier e Fedora, Ildebrando Pizzetti con Assassinio nella cattedrale, tutte opere nelle quali il coro ha brani di livello. Bisogna però ammettere che la cosiddetta generazione dell’Ottanta (Casella, Malipiero, Respighi, lo stesso Pizzetti ecc…) ha raramente dato lustro al coro nelle sue produzioni melodrammatiche, forse proprio con l’eccezione del citato Pizzetti.

I cori lirici in Emilia-Romagna

E al giorno d’oggi com’è la situazione dal punto di vista esecutivo? In Emilia-Romagna abbiamo due cori professionistici (ovviamente legati ai teatri Comunale di Bologna e Regio di Parma) e alcuni cori prettamente lirici o che praticano, almeno parzialmente, musica lirica. Come detto, il repertorio del melodramma richiede formazione vocale accurata, anche una certa conoscenza della tecnica del canto. Peraltro, anche il più abile dei cori amatoriali farà fatica a portare in pubblico determinati brani senza un’adeguata preparazione e un numero di elementi piuttosto elevato, condizioni, queste, sempre più difficili da trovare. Un’ulteriore difficoltà la troviamo quando il coro si presenta in teatro per partecipare ad una rappresentazione d’opera in forma scenica. In questo caso, prima di tutto dobbiamo affrontare il problema del ricordare a memoria tutte le parti, e sottolineo tutte: talvolta il coro canta solo una parola, o una breve frase, e bisogna ricordarsi le parole, la nota, il ritmo… uno sforzo mnemonico non indifferente. In aggiunta, in una rappresentazione scenica va tenuto presente anche l’aspetto del movimento scenico: il coro deve sapere quando entrare, quando uscire, dove mettersi, magari indossando costumi ingombranti, e sempre con la necessità di guardare il direttore; magari il regista li fa salire su una scala mentre cantano. Occorrono ore, giorni di prove sceniche, costumi su misura, posizioni studiate. Un’impresa davvero notevole, ma che riempie talmente di soddisfazione, che vale la pena affrontarla. Il fascino del palcoscenico è sempre in agguato e avviluppa chi lo calca con la sua intrigante bellezza. Il melodramma è l’opera d’arte più completa, più totale, l’esperienza artistica più coinvolgente che si possa trovare. È canto, è scena, è recitazione, è musica sublime. Diamoci da fare.