Igor Stravinskij a cinquant’anni dalla morte

In piena laguna, tra Venezia e Murano, si trova un’isola: l’incanto del raggiungerla dalla laguna è pari all’emozione del visitare il sito che, insieme con una chiesa, occupa gran parte dell’isola stessa, vale a dire il cimitero che (come la chiesa) dall’isola prende il nome: San Michele.
La suggestione del luogo è profonda e indimenticabile: passeggiare, nel silenzio, tra campi e recinti, soprattutto in primavera inoltrata, è un’esperienza rigenerante, soprattutto per chi voglia trovare ristoro dalla pazza folla che si accalca per calli e campielli della città lagunare. I profumi della vegetazione si uniscono all’impagabile piacere di vagare tra i monumenti e le cappelle di illustri famiglie del patriziato veneziano, e di scoprire tombe di personaggi illustri come Ezra Pound, Emilio Vedova, Luigi Nono, Iosif Brodskij. Nel recinto greco-ortodosso del cimitero di San Michele, a ridosso d’un muro di cinta, si trovano, una accanto all’altra, le tombe di Sergej Pavlovic Djagilev e di Igor’ Fëdorovic Stravinskij. La disadorna, essenziale lastra di marmo della tomba del compositore fu disegnata da Giacomo Manzù, che per lo Oedipus Rex stravinskijano all’Opera di Roma aveva allestito scene e costumi, nel 1964. Stravinskij amava profondamente Venezia, che gli ricordava per certi aspetti San Pietroburgo: un amore nato nell’estate del 1912, quando, in un salone d’angolo al piano terreno del Grand Hotel (Palazzo Ferro Fini, sul Canal Grande) il compositore suonò a Sergej Djagilev per la prima volta alcune pagine del Sacre du printemps. Da qualche anno Stravinskij collaborava ai Ballets Russes, compagnia di danza fondata a Parigi proprio da Djagilev: una straordinaria impresa artistica che per decenni vide lavorare fianco a fianco figure come Stravinskij, Picasso, De Chirico, Ravel, Debussy, Matisse, Prokofiev, Poulenc, Milhaud, Respighi, Satie… (per la compagnia di Djagilev, fra il 1910 e il 1928, Stravinskij compose capolavori come L’uccello di fuoco, Petruška, Il rito della primavera, Le chant du rossignol, Pulcinella, Renard, Les noces, Apollon musagète).
Morto a New York il 6 aprile 1971, Stravinskij volle essere sepolto a Venezia, il che avvenne nove giorni dopo: se il funerale statunitense, a detta dei presenti, non fu molto partecipato, quello lagunare fu un evento intenso e commovente. Una folla composta da artisti, studenti, cittadini, gremiva il sagrato della grande Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, il pantheon veneziano: le imbarcazioni del corteo funebre percorsero i canali di Venezia, fino alla laguna, per raggiungere poi San Michele.
Durante il funerale vennero eseguiti i Requiem Canticles, l’ultima importante composizione di Stravinskij, nonché l’ultima delle non poche composizioni in cui il compositore utilizzò il coro. Composti per contralto e baritono solisti, coro SATB e orchestra, i Canticles risalgono al 1965, ed esprimono l’approdo stilistico ultimo di Stravinskij, di ascetica severità. Stravinskij adotta i testi liturgici (in latino) ma non segue un vero e proprio schema liturgico. I Canticles sono concepiti secondo un disegno formale semplice e simmetrico: sei movimenti vocali, incastonati in tre pezzi strumentali (un Preludio per archi, un Interludio per fiati e timpani, un Postludio per flauto, corno, pianoforte, arpa, celesta, campane e vibrafono). Anche le sei parti vocali mutano organico di volta in volta: Exaudi orationem meam (coro e orchestra); Dies irae (coro e orchestra); Tuba mirum (basso e orchestra); Rex tremendae (coro e orchestra); Lacrimosa (contralto e orchestra) e Libera me (coro e orchestra. I Canticles sono, a tutti gli effetti, il Requiem di Stravinskij: un lavoro monumentale quanto all’organico, non certo quanto a dimensioni: l’adozione della tecnica dodecafonica seriale e l’adesione a principi di maggiore essenzialità espressiva, peculiare nello stile dell’ultimo Stravinskij, porta ad una composizione concisa e sintetica (non giunge al quarto d’ora di musica). Gli splendidi Canticles stravinskijani figurano tra le massime composizioni d’ogni tempo che si siano ispirate – per quanto liberamente dal punto di vista liturgico – al rito pro defunctis. Nel XX secolo ricordiamo almeno il War Requiem di Benjamin Britten (1962), il Requiem di György Ligeti (contemporaneo ai Canticles di Stravinskij: 1963-65), e il Requiem di Krysztof Penderecki (1984). Dopo il commovente Lacrimosa, l’ultima pagina vocale (prima del Postludio strumentale), il Libera me, è particolarmente interessante: al quartetto di solisti (soprano, alto, tenore e basso) che intona il testo armonizzandolo a quattro parti, si sovrappone il coro che sussurra (parlando) il testo, scorrevole e con ritmo libero.
Stravinskij morì a quasi novant’anni, essendo nato nel 1882 ad Oranienbaum: oggi è Lomonosov, non distante da San Pietroburgo (sulla baia della Neva, nel golfo di Finlandia). Alla longevità anagrafica corrispose una lunga stagione creativa: è ben vero che Stravinskij approdò piuttosto tardi allo studio serio della composizione musicale (vi si accostò nel 1903, quando iniziò i suoi studi con Nikolaj Rimskij-Korsakov), ma è anche vero che a ottant’anni compose il suo ultimo lavoro drammatico (la sacra rappresentazione The Flood), a quasi ottantacinque i Requiem Canticles, e terminò poco prima di morire una illuminante trascrizione di quattro preludi e fughe dal Clavier ben temperato di Bach, per tre clarinetti, due fagotti e archi.
Questa lunga carriera artistica produsse una straordinaria varietà di approcci stilistici e di esperienze artistiche, comprese tra la scintillante e virtuosistica scrittura orchestrale (alla Korsakov) delle esuberanti prime composizioni del 1907-08 (Scherzo fantastique e, soprattutto, Feux d’artifice) agli ultimi lavori con coro: i citati Requiem canticles, la cantata A Sermon, a Narrative and a Prayer (1961) per contralto e tenore solisti, coro e orchestra, l’Introito Requiem aeternam in memoria di Thomas Stearns Eliot (1965).
Le memorabili tappe di questo lungo cammino sono capolavori di gusto e stile estremamente differenziati: dal fiabesco dell’Uccello di fuoco, al fauve del Sacre du printemps, dal monocromo classicheggiante dell’Apollon musagète, al calco d’opera settecentesca (con tanto di recitativi con clavicembalo) di The Rake’s Progress, dalle raffinatissime Tre poesie della lirica giapponese alla Circus Polka scritta per un balletto di elefanti del Circo Barnum. Anche le risorse tecnico-compositive esplorate da Stravinskij presentano un panorama di sconcertante mutevolezza: dalla ruvida politonalità del Sacre, alla forma-sonata tonalmente orientata della Sinfonia in do, fino all’adozione della tecnica dodecafonica seriale degli ultimi lavori (compresi i Canticles).
La lunga vita musicale di Stravinskij prende le mosse dal tardo romanticismo e termina all’epoca delle avanguardie radicali, e il compositore sembra indossare lungo la sua lunga vita musicali indumenti stilistici tanto mutevoli da rendere difficile renderne conto in modo sistematico.

Altro tratto peculiare della biografia (anche artistica) di Stravinskij fu il cosmopolitismo: nato e vissuto in Russia negli ultimi anni dell’Impero zarista, ebbe i primi contatti con Parigi già nel 1909, e abbandonò definitivamente la terra natale con la Rivoluzione d’Ottobre 1917 (sarebbe tornato, ma solo per una tournée, solo all’epoca di Chrušcëv); prese poi tanto la cittadinanza francese tanto quella statunitense, e visse intensi periodi in Italia (non solo a Venezia).
Molti dei riferimenti stilistici stravinskijani sono remoti (la musica medievale e rinascimentale, Bach, il Settecento); l’Ottocento romantico tedesco non fu certamente tra le sue fonti di ispirazione. Fu invece potentemente influenzato da due grandi russi dell’Ottocento: Glinka e – soprattutto – Čaikovskij, che Stravinskij amò profondamente per tutta la vita. Può parere strano, ma in realtà Stravinskij si sentiva più vicino a Čaikovskij che non agli altri musicisti russi di fine ottocento, quelli più radicali dell’ambiente di San Pietroburgo (Musorgskij in testa), nonostante avesse studiato con Rimskij-Korsakov. Il compositore eversivo di balletti di sconvolgente potenza espressiva amava il balletto delle regole e dei canoni, quello ottocentesco: non solo Čaikovskij, ma anche Adam e Delibes.
L’iper-critico rapporto di Stravinskij con l’Ottocento romantico tedesco si materializza nei toni aspri delle sue posizioni anti-wagneriane (celebre il provocatorio giudizio secondo cui vi sarebbe «più sostanza e autentica invenzione nell’aria della Donna è mobile che non nella retorica e nelle vociferazioni della Tetralogia»). Ma l’anti-wagnerismo è solo una delle sfaccettature della complessa posizione anti-romantica di Stravinskij: curioso del presente (Jazz, Blues, Ragtime), audace sostenitore della modernità e del modernismo, Stravinskij si richiamò frequentemente al passato musicale, con uno sguardo che retrocede al medioevo (la Messa del 1948) al Cinquecento (Monumentum per Gesualdo da venosa, 1960), al Seicento (Apollo musagète), al Settecento (Bach, Pergolesi)… e qui si ferma, perché in questa retrospettiva, con l’unica vistosa eccezione di Čaikovskij, è come se l’Ottocento non esistesse: il secolo in cui il primato della musica pura è conteso dalla musica a programma, dal programma letterario o pittorico, dal teatro dei simboli, fu oggetto di un atteggiamento programmaticamente ostile da parte di Stravinskij. Si legge infatti nelle Cronache della mia vita: «Io considero la musica, per la sua stessa essenza, impotente a “esprimere” alcunché: un sentimento, un’attitudine, uno stato psicologico, un fenomeno naturale, o altro ancora. L’“espressione” non è mai stata la caratteristica immanente della musica».

Stravinskij concepì la modernità musicale in rapporto dialettico con la tradizione: l’ambiente in cui nacque, la sua educazione, ma anche la sua propensione caratteriale, portavano Stravinskij ad essere diffidente verso ogni posizione programmaticamente rivoluzionaria, tanto nella politica quanto nell’arte. Egli considerava la musica europea come un lascito coerente e organico, di cui si considerava beneficiario ed erede. Quel filo non andava troncato in modo violento. Illuminante, in proposito, la lettura della Poetica della musica, un volume che raccoglie i contenuti di un ciclo di lectures che Stravinskij fu invitato a tenere ad Harvard nell’anno accademico 1939-1940. La novità è inevitabile premessa e corollario di ogni ricerca musicale, e se Stravinskij era insofferente alle abitudini ed al congelamento, per così dire, della creatività, era tuttavia altrettanto avverso alla novità-per-la-novità ed ai manifesti d’avanguardia programmaticamente rivoluzionari.

L’esegesi stravinskijana, per dar conto del frastagliato percorso stilistico del compositore, è spesso orientata a dar conto di tutte le sue svolte stilistiche. Ma se dovessimo etichettare come “svolte” tutte le nuove ambientazioni stilistiche stravinskijane non solo segneremmo un percorso assai tortuoso, quasi vertiginoso, ma faremmo torto al compositore: Stravinskij sovente è definito eclettico (come se si trattasse di una peculiarità del suo stile, un atteggiamento estetico), ma forse è da ritenere, piuttosto, che il caleidoscopio inafferrabile delle sue variabili stilistiche sia solo il riflesso di una musicalità torrenziale e irrefrenabile, che ha bisogno, proprio per la indicibile vastità e varietà della sua reattività musicale, di trovare continuamente, e anche contemporaneamente, nuovi modi di esprimersi.
L’esperienza parigina segnò Stravinskij come solo un ambiente stilisticamente cosmopolita può fare. La vita musicale parigina dei primi decenni del Novecento era ricca di stimoli diversissimi, contraddistinta da una inesauribile curiosità, e dal desiderio di andare oltre quanto fosse già noto e sperimentato: tutti i musicisti che vi agivano erano pronti ad accogliere le influenze più disparate, dal medioevo al music-hall, dal jazz agli esotismi più disparati (estremo oriente, Spagna, Russia). Predisposto a ciò, Stravinskij visse in un’epoca in cui la crisi del linguaggio musicale conduceva a diversi nuovi approdi, e in ambienti in cui di questa transizione si coglieva l’aspetto più fecondo e creativo. Di tutto ciò egli fu il massimo interprete.

L’amore di Stravinskij per la scrittura corale si può ben dire che abbia accompagnato tutte queste vicende stilistiche, dall’epoca del Sacre (1913) fino ai Requiem canticles. A parte tre composizioni a cappella (un Pater noster [1926], un Credo [1932] e un’Ave Maria [1949], tutti a quattro parti) e il già citato Requiem aeternam del 1965 (per coro maschile, arpa, pianoforte, 2 timpani, 2 tam-tam, viola e contrabbasso), tutti i lavori corali stravinskijani uniscono alle voci l’orchestra.
La prima rilevante composizione corale di Stravinskij risale al 1911-1912, l’epoca in cui il compositore lavorava al Sacre: si tratta di una breve cantata per voci maschili e orchestra, Zvezdoliki (Viso stellato, ma più nota col titolo francese di Le roi des étoiles). È un lavoro impervio, sperimentale, visionario e denso di simboli, a partire dal testo. Il coro maschile si muove sempre a quattro, ma nei momenti in cui la scrittura orchestrale si fa più corposa canta all’unisono, sempre in una tessitura scura. L’armonia è ricca di aspre dissonanze, e l’esecuzione presenta non pochi problemi: si tratta di sole quarantotto battute, di grande complessità esecutiva, dalla intonazione del coro all’organico orchestrale, il che ha sempre scoraggiato l’impresa esecutiva (la prima esecuzione risale al 1939). Stravinskij dedicò il lavoro a Claude Debussy, il quale, letta la partitura, espresse la sua perplessità, pur mitigata dall’ironia: «È probabilmente l’“armonia delle sfere eterne” di Platone… Non prevedo esecuzioni di questa Cantata per pianeti, tranne che su Sirio o Aldebaran. Per quanto riguarda la nostra moderna terra, una esecuzione si perderebbe negli abissi».
Le risorse del coro maschile furono esplorate da Stravinski, dopo Zvezdoliki, in altre occasioni: nella cantata Babel per voce maschile narrante, coro maschile, e orchestra (1944), su testo biblico, e nel già citato Introito Requiem aeternam (1965). E un coro maschile esegue le numerose splendide pagine corali dell’opera-oratorio Oedipus Rex. L’ensemble corale, che Stravinskij avrebbe voluto incappucciato e seduto in un’unica fila, ha qui il rilevante ruolo che ci si può attendere da una partitura che da un lato guarda al teatro di Sofocle e dall’altro all’oratorio occidentale: di volta in volta dramatis persona e commento all’azione.
Legate al sacro le altre principali apparizioni del coro nella musica di Stravinskij. La sua spiritualità e il suo senso del trascendente e del divino trovano voce nella Messa composta tra il 1944 e il 1948, scritta per coro SATB e doppio quintetto di fiati. Opera non scritta su commissione, la Messa presenta un frequente uso di omofonia, armonie modali, chiara scansione delle parole dell’Ordinarium. Sovente viene annessa alla cosiddetta tendenza neo-classica stravinskijana: ma la sua inconfondibile sonorità è la lente attraverso cui intravvediamo il riferimento a modelli decisamente più arcaici.
Il coro, poi, è protagonista assoluto degli altri grandi lavori sacri di Stravinskij, dalla Sinfonia di salmi (1930) ai lavori ultimi: oltre ai già citati Requiem canticles, il Canticum Sacrum ad honorem Sancti Marci Nomine (1955); i Threni: id est Lamentationes Jeremiae Prophetae (1958), su testi dell’Antico Testamento; A Sermon, a Narrative and a Prayer (1961), su testi tratti dalle lettere di Paolo e dagli Atti degli Apostoli.

Questa panoramica stravinskijana ha preso avvio dall’isola di San Michele, nella laguna veneziana. I titoli appena citati ci riportano, in chiusura di questa breve panoramica, nel cuore di Venezia, dove Canticum sacrum e Threni conobbero le loro prime esecuzioni, rispettivamente: i Threni nel 1958 nella Sala della Scuola Grande di San Rocco, e il Canticum due anni prima in San Marco (per quest’ultima occasione fu il Cardinale Roncalli – Patriarca di Venezia futuro papa Giovanni XXIII – ad autorizzare l’apertura della Basilica alla musica di Stravinskij, nell’ambito del XIX Festival di musica contemporanea).
San Marco, che tra Cinquecento e Seicento risuonava delle grandi musiche dei Gabrieli e di Monteverdi (amatissimi dal compositore), fu per la musica di Stravinskij, come per quella degli antichi maestri, uno straordinario teatro di suoni. Ma la spiritualità del luogo fu certamente in sé un valore per Stravinskij, che ebbe vivissimo il senso della fede. Così si legge, nei Dialogues: «Si spera di onorare Dio con la propria piccola arte, se se ne possiede una».