Parlare dell’opera di armonizzazioni ed elaborazioni corali di canti popolari di Giorgio Vacchi (1932-2008) è allo stesso tempo impresa assai ardua ed affascinante. Lo è in primis per la qualità e l’interesse che l’opera rappresenta. La stima che provo tutt’ora, a quasi quattordici anni dalla sua morte, per il musicista e la persona mi porta a procedere, in questo difficile percorso di analisi, con il passo lento del montanaro, che scruta con calma e tranquillità ogni particolare contenuto in ciascuna partitura, per farne emergere i connotati più caratterizzanti. A Giorgio, persona di grande generosità, dotata di forte carisma, empatia e innate qualità musicali, ero legato da un’amicizia sincera, che si è rafforzata sempre di più nel corso del tempo, quando da suo allievo sono divenuto suo collega e collaboratore. Ci univano diversi fattori, in particolare la nostra comune passione per il coro e per la musica popolare; all’interno della quale sono presenti valori insostituibili. Addentrandoci ora “in punta di piedi” nella pubblicazione dei due eleganti volumi: Giorgio Vacchi Composizioni per coro maschile e Giorgio Vacchi Composizioni per coro misto e femminili entrambi pubblicati da Pendragon Editore a cura di Silvia Vacchi, figlia di Giorgio e attuale direttrice del Coro Stelutis di Bologna, notiamo immediatamente che la pubblicazione si arricchisce, in entrambi i volumi, di un’assai interessante prefazione (pagine 7-10) a firma di Pier Paolo Scattolin, noto musicista e amico fraterno di Vacchi. Nella prefazione stessa Scattolin mette in luce l’importanza della ricerca etnomusicologica sul campo, svolta da Giorgio Vacchi con l’ausilio di diversi collaboratori, in particolare, nell’Appennino emiliano, area assai ricca di tradizione e materiali popolari, di cui Vacchi diviene prima protagonista e poi elemento trainante.

Segue poi una altrettanto appassionata introduzione all’opera curata dalla figlia Silvia (pagine 11-13), in cui si percorre, con chiarezza, la genesi dell’opera: sia dal punto di vista compositivo che della realizzazione della pubblicazione editoriale. Conclude questa parte introduttiva una breve ma sentita carrellata di ringraziamenti (pagina 14). La corposa raccolta riunisce le composizioni di Vacchi già contenute in due sue precedenti pubblicazioni: Venti armonizzazioni su temi popolari a cura di Giorgio Vacchi, Zanibon Editore, Padova 1978 e Canti emiliani (e non), Calderini Editore, Bologna 1997, pur arricchendosi anche di diverse composizioni inedite e di alcune trascrizioni ad opera della figlia Silvia. Per ovvie ragioni di tempo e per non scadere in una sorta di carrellata, in cui sarebbe stato possibile mettere in risalto solamente alcuni aspetti e caratteristiche delle notevoli duecentoquattro partiture contenute nella raccolta, ho focalizzato la mia attenzione soltanto su alcuni lavori appartenenti alle varie fasi compositive di Vacchi. Così analizzando alcune elaborazioni caratteristiche di ciascuna fase e mettendole in paradigma con altre appartenenti alla stessa o ad altre fasi compositive, ho cercato di addentrarmi nelle fitte maglie della scrittura, per far emergere le diversità d’approccio dell’autore all’elaborazione corale, assai marcate nelle ultime quattro fasi compositive rispetto alle precedenti. Nel lavoro di studio e analisi dell’opera di Giorgio Vacchi, oltre a focalizzare l’attenzione sulle varie fasi in cui l’elaboratore ha composto i suoi lavori corali, si sono tenuti in particolare considerazione gli aspetti connessi all‘evoluzione della scrittura musicale e dello stile dell’autore. Così dalle prime composizioni che possono essere classificate come semplici armonizzazioni, il musicista bolognese si è spinto su altri “lidi”, realizzando diverse partiture, assai complesse, nelle quali è costante l’utilizzo di moderne tecniche di elaborazione corale, in particolare l’uso assai frequente del contrappunto e degli ostinati. Negli ultimi lavori di Vacchi si notano alcuni aspetti ricorrenti, quali, ad esempio, l’aumento del numero delle linee vocali utilizzate e la maggiore estensione della tessitura di ciascuna di esse, unite ad una polifonia “a tutto campo” nella quale è sempre maggiore l’impiego di dissonanze. L’utilizzo, da parte dell’autore, di questi e di ulteriori parametri musicali ha contribuito, anno dopo anno, a far emergere notevoli cambiamenti sia nella sua poetica che nel suo linguaggio musicale. Per poter mettere in luce gli aspetti più caratteristici dell’approccio compositivo di Vacchi ho dovuto, mio malgrado, operare una dolorosa selezione, che mi ha portato a tralasciare brani altrettanto importanti ed interessanti contenuti nella raccolta. Nella prima parte di questa analisi, ho cercato di illustrare, in maniera assai sintetica e sistematica, quei brani appartenenti a ciascuna fase del lavoro di elaborazione corale di Vacchi che possano sintetizzare il percorso artistico dell’autore. Per far ciò ho selezionato alcuni brani particolarmente interessanti sia dal punto di vista compositivo che dei contenuti. Nella seconda parte del lavoro, invece, si sono trattate, in maniera più approfondita, una o più elaborazioni di particolare interesse compositivo, appartenenti a ciascuna delle varie fasi compositive dell’autore, in cui la scrittura musicale rappresenti una “rottura” o una continuità rispetto alla prima fase compositiva di Vacchi. Nelle sue prime elaborazioni, infatti, sono presenti diverse modalità di elaborazione corale riconducibili ad alcuni dei primi “armonizzatori” del coro SAT di Trento. Ciò è assai palese nella sua prima composizione Stelutis Alpinis, scritta da Vacchi nel 1958, in cui il musicista attinge ad alcuni tratti della scrittura di Luigi Pigarelli (1875-1964), ma anche di Antonio Pedrotti (1901-1975), pur con un approccio personale e dei chiari caratteri distintivi. Per poter mettere in luce alcune delle caratteristiche peculiari delle elaborazioni “vacchiane” si sono operate una serie di brevi analisi musicali con le quali si è cercato di sintetizzare le tecniche di elaborazione musicale utilizzate dall’autore.

Un breve excursus nella scrittura per coro di Giorgio Vacchi

Scorrendo i due volumi, senza soluzione di continuità, emerge, subito, che si tratta di una produzione estremamente variegata, interessante e di grande ricchezza culturale. Essa abbraccia un lasso di tempo assai ampio che comprende i lavori per coro a cappella che vanno dal 1958, anno in cui Vacchi scrive la sua prima elaborazione: Stelutis alpinis, al 2006, anno in cui il musicista scrive il suo ultimo lavoro Preghiera del mattino. Tra i brani scritti da Vacchi tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta si contano oltre al già citato Stelutis Alpinis (1958), diverse partiture, per coro maschile, di notevole interesse. Tra queste la dolcissima elaborazione del canto friulano: Ce bielis maninis (1959), nella quale Vacchi utilizza una scrittura omoritmica e un’armonia estremamente essenziale. Seguono poi due elaborazioni di canti popolari del cosiddetto repertorio alpino: Ta-pum (1960) e Sul ponte di Perati (1963). In entrambe le partiture sono presenti alcune modalità di elaborazione che Vacchi svilupperà nelle composizioni successive come, ad esempio, l’utilizzo di pedali, in particolare di tonica o dominante e l’impiego di una calibrata polifonia. L’elaboratore pur utilizzando una scrittura tendenzialmente omoritmica e un’armonia che prevede una sola modulazione ai toni vicini, in questi lavori mostra già la chiara volontà di creare un diverso “suono corale”, rispetto, ad esempio, al modello del coro SAT. Ciò diviene ancora più palese nell’interessante elaborazione per coro maschile: Bevé, bevé compare del 1964, nella quale Vacchi alterna momenti di scrittura corale omoritmica ad altri di carattere più polifonico. Nel brano è forte l’utilizzo di pedali di quattro o cinque voci e di tecniche più moderne come, ad esempio, il coro a bocca chiusa. Altro elemento centrale è l’impiego di voci soliste, che caratterizza la modalità esecutiva di molta musica popolare di area emiliana e che diverrà un elemento distintivo della poetica del Vacchi più “maturo”. In quest’ultima elaborazione, inoltre, si nota l’uso di un’armonia più evoluta, che prevede modulazioni più frequenti e cromatismi, sia discendenti che ascendenti, che contribuiscono a creare una maggiore tensione armonica. La fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta sono ancor più fecondi per la produzione di Vacchi. Essi, infatti, coincidono con la sua prima ricerca etnomusicologica sul campo, dalla quale emergeranno molti brani di notevole valore. Tra questi troviamo la bella e impegnativa elaborazione di Tre marinai (1968), canto popolare ritrovato da Francesco Guccini (1940), noto cantautore, e da Vacchi a Pavana in provincia di Pistoia nel 1968. A proposito di questo canto Vacchi scrive: «Si tratta di uno dei canti narrativi più noti della tradizione popolare centro-settentrionale. Abbastanza costante la tematica che vede i tre marinai (a volte uno solo) alla ricerca “dell’amato bene”, cui segue una sosta all’osteria e la proposta di matrimonio alla “bell’osta”. Sovente, a questo punto, c’è la richiesta dei rituali sett’anni di attesa; il canto termina comunque con il viaggio in mare senza ritorno per la ragazza, vuoi perché la barca affonda, vuoi perché la bell’osta, per specchiarsi, cade in mare. Numerose e notevoli le varianti della linea melodica che accompagna il testo. Da questo canto derivò quel Cosa rimiri bel partigiano che tanta diffusione ebbe nel periodo della Resistenza italiana». In questa elaborazione Vacchi sperimenta anche la tecnica di modulazione per accordo comune al tono della dominante (dalla tonalità di sol maggiore, tono d’impianto, a re maggiore, tono della dominante). L’alternanza nelle varie strofe delle due tonalità contribuisce a creare, assieme a una scrittura sempre cangiante, una notevole varietà d’ascolto. Tra le partiture di questo periodo è di grande impatto ed efficacia anche l’elaborazione per coro maschile di Io parto per l’America, canto popolare ritrovato a Toano nell’Appennino reggiano da Roberto Ferrari nel 1973 ed elaborato da Vacchi, per coro maschile, lo stesso anno. Di questo brano l’autore scrive: «Fra i numerosi canti legati al flusso migratorio che ebbe il suo apice alla fine del secolo scorso e che interessò in Emilia particolarmente la fascia appenninica a causa della sua poverissima economia, è questo uno dei più diffusi. Mentre però altri canti come Mamma mia dammi cento lire o Trenta giorni di nave a vapore sono noti in tutte le regioni del Centro-Nord, la diffusione di Io parto per l’America pare prevalere nell’Appennino tosco-emiliano». L’elaborazione corale è prevalentemente omoritmica, seppur con alcuni piccoli movimenti polifonici, affidati alla voce del basso. Anche in questo lavoro Vacchi utilizza una scrittura assai trasparente e un’armonia generalmente diatonica. Il musicista bolognese, infatti, impiega solamente due cromatismi. Il primo ascendete sul motivo parola “bastimento”, affidato alla sezione dei bassi (la-la#) e il secondo discendente, sul motivo parola “contento”, questa volta affidato ai contralti (mi-mib). Si tratta senza dubbio di due madrigalismi che contribuiscono, allo stesso tempo, a creare una tensione armonica e ad amplificare ulteriormente il carattere malinconico di cui il brano stesso è intriso.
Altro lavoro d’interesse è il divertente e brillante: Al ciribiribi, ritrovato da Amos Lelli, amico fraterno di Vacchi, a Bologna nel 1975 ed elaborato dallo stesso Vacchi nel 1976. Si tratta di un canto in dialetto bolognese in cui i doppi sensi non sono affatto sfumati. Con una scrittura musicale assai varia, che alterna momenti di carattere strumentale a momenti polifonici, il musicista emiliano amplifica al massimo il carattere goliardico e caricaturale già presente nel brano. Emblematico, a tal proposito, è il fugato presente alle misure 17-23, in cui Vacchi crea una breve e grottesca zona polifonica. Tramite l’utilizzo di imitazioni in stretto, l’elaboratore dimostra, con grande maestria e ironia, come con la scrittura musicale possa amplificare il carattere del brano. Tra le partiture di questo periodo merita una particolare attenzione anche Eran quattro piemontesi sempre ritrovata a Toano nell’Appennino reggiano da Roberto Ferrari nel 1973 ed elaborata da Vacchi lo stesso anno. È interessante notare come sfogliando il Fondo Roberto Leydi e in particolare il catalogo delle trasmissioni realizzate da Roberto Leydi (1928-2003) per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana RSI, emerga un suo pensiero a riguardo di una variante di questo brano: «Nelle raccolte del passato la conosciamo solo per il Piemonte, legata a quel filone della canzone settecentesca francese, la più famosa è quella che celebra Mandrin, famoso brigante francese». A proposito della variante reggiana, nella presentazione del brano, Vacchi fornisce alcune ulteriori notizie: «Anche se, visto che si parla di piemontesi e di Cremona, è facile intuire l’area di maggior uso del canto, notevole è però la diffusione nell’Emilia, specie nella zona appenninica tra le province di Bologna e Reggio Emilia. Abbastanza uniformi le lezioni note sia come testo che come linea melodica». Nell’elaborazione per coro maschile Vacchi pone grande attenzione all’utilizzo di una scrittura che attinga ispirazione dalle modalità di canto popolare dell’area appenninica emiliana. Ne sono due esempi tangibili l’impiego nella scrittura corale di parallelismi di terza e l’alternanza tra soli e coro, che rappresentano i due cardini della modalità esecutiva del canto spontaneo emiliano e più in generale di quello di area padana. È importante notare come con una scrittura ed un’armonia estremamente essenziali Vacchi riesca a creare un piccolo capolavoro corale, enfatizzando al meglio il carattere del brano. Sempre appartenenti a questo periodo di ricerca troviamo la particolare elaborazione di Canto dei battipali (1976) ritrovata dallo stesso elaboratore a Bologna nel 1970, di cui gli informatori sono il già citato Francesco Guccini e Mauro Mattioli (1943). Nell’elaborazione di questo interessante canto di lavoro di area veneta, Vacchi, tramite una scrittura essenziale, crea una sorta di barcarola in tempo binario semplice (4/4). Tale forma di composizione vocale o strumentale, usata dai barcaioli e dai gondolieri, è nella grande maggioranza dei casi in tempo binario composto: generalmente in 6/8 o in 12/8. Nella scrittura corale Vacchi utilizza, enfatizzandoli, alcuni elementi di carattere percussivo, tipici di questo genere di brani, come, ad esempio, il battito della mano sulla coscia. Altro elemento caratterizzante della scrittura è l’utilizzo del glissando, che nei canti di lavoro assume il carattere funzionale di aiutare il sincronismo dei lavoratori. Ulteriore elemento d’interesse è rappresentato dall’utilizzo di parallelismi di quinta, presenti alle voci superiori (tenori primi), alle quali però non è affidato un testo, bensì dei vocalizzi. Forte è anche l’uso da parte di Vacchi di ostinati semitonali, affidati alle sezioni dei baritoni e dei tenori secondi, mentre ai bassi viene assegnato un ostinato ancora più semplice ed efficace, che prevede per tutto il brano l’alternanza tra la tonica (sib) e la dominante (fa).
L’armonia che si viene così a crea durante tutto il brano alterna solamente l’accordo di tonica a quello di dominante, mentre le note alterate assumono una funzione prettamente ornamentale. Anche in questo lavoro Vacchi utilizza le voci soliste, che si sovrappongono al coro, al quale è affidata, generalmente, una scrittura di carattere strumentale.
A “grandi falcate” ci dirigiamo verso gli anni Ottanta dove incontriamo un brano particolarmente interessante, ritrovato da Giorgio Vacchi alla fine degli anni Sessanta a Bologna. Si tratta dell’elaborazione del canto popolare È partita una nave (1978). Dell’origine del brano Vacchi scrive: «Difficile dire della diffusione di questo canto: il fatto che una versione sia inserita nei “Dischi del sole” (interpretata da Giovanna Marini) e che altre due siano state da me raccolte recentemente dalla viva voce di due informatori neppure quarantenni (Anna Billi e Luciano Ottomanelli, ambedue bolognesi) farebbe supporre che il canto fosse molto noto. Invece un solo riferimento conosco dalle raccolte a stampa, e sempre nella nostra regione, per cui potrebbe trattarsi di un canto relativamente recente, anche perché le melodie delle lezioni note sono molto simili tra loro. Quanto mai simili anche i testi, che pare non abbiano avuto troppo tempo per subire modificazioni di rilievo». L’elaborazione di questa Barcarola prevede un accompagnamento di carattere strumentale e una scrittura estremamente efficace. L’armonia utilizzata da Vacchi è prevalentemente diatonica, a eccezione di due momenti nei quali sono presenti procedimenti cromatici ascendenti. Il primo sul motivo parola “dire” (do-do#), affidato alle voci inferiori (misure 13-14) e il secondo sul motivo parola “gente” 15-16 (re-re#), affidato alla sezione dei bassi. Dello stesso anno e appartenente alla poderosa ricerca sul campo effettuata a Gàggio Montano, in provincia di Bologna, da Paolo Bernardini e coordinata da Giorgio Vacchi è l’elaborazione Nella Somalia bella (1978). A proposito di questo brano Vacchi scrive: «Ancora da Gàggio Montano viene questa bella melodia che riveste un tema noto in numerose regioni italiane. Credo abbia ragione il Conati quando dice che il canto, «quasi certamente opera di cantastorie, non dovrebbe risalire oltre la prima metà dell’Ottocento; ma il nucleo narrativo da cui esso proviene è molto antico ed è verosimilmente quello stesso cui appartengono le varie versioni de “La sposa morta”. La lezione gaggese si differenzia per una certa sinteticità nel racconto (che altrove si dilunga per oltre dieci strofe), per il luogo verso cui “si va alla guerra” (la Somalia appunto, mentre spesso si parla di Romagna o di Germania) e per il finale un po’ meno “giallo” rispetto alle lezioni in cui si rivela che la “madre” ha avvelenato la ragazza. Notevoli inoltre le diversità fra le linee melodiche che nella presente lezione, così come in quella elaborata per il coro Val Dolo di Toano da Mario Fontanesi col titolo di “Cimitero di Santa Liberata”, risultano particolarmente ariose e nel contempo struggenti». Si tratta senza dubbio dell’elaborazione di Giorgio Vacchi più nota e diffusa tra i cori; avendo continue esecuzioni da parte di gruppi di tutt’Italia. La scrittura di chiaro stampo narrativo è estremamente essenziale e di forte impatto emotivo. Nell’introduzione iniziale alle voci inferiori (bassi e baritoni) misure 1-3, rispondono, con lo stesso disegno all’ottava superiore (tenori primi e tenori secondi) misure 4-6, quindi la voce del baritono, misure 7-8 compie un procedimento cromatico (do-do#) che guida l’ascoltatore verso un improvviso cambio di modo, da sol minore a sol maggiore (misura 9) in cui compare il tema affidato a un tenore solista. Nella parte introduttiva alle voci del basso e del tenore secondo sono affidati due pedali di tonica all’ottava (sol), mentre ai baritoni e ai tenori primi sono assegnate linee che prevedono l’alternanza di diatonismi e cromatismi. Di grandissimo effetto è il finale del brano (misure 21-24) in cui le voci superiori, in una tessitura molto acuta, si dividono in tre, con una scrittura che prevede la sovrapposizione di quarte, terze e seste parallele. Si tratta dell’ultimo straziante “grido corale”, in cui il coro stesso raffigura, dal punto di vista simbolico, tutto il dolore del soldato per la perdita dell’amata. Di solo un anno più tardi e sempre appartenente alla ricerca di Gaggio è l’elaborazione È partito per l’Albania (1979), altro brano legato al tema doloroso dell’immigrazione, in cui la centralità è rappresentata, come ogni canto di questa tipologia, dalla “partenza”. In questo interessante lavoro Vacchi utilizza una scrittura tendenzialmente omoritmica, a eccezione delle misure 5-9 in cui l’elaboratore affida alle voci inferiori (tenori II, baritoni e bassi) un doppio pedale di tonica e dominante (sib-fa-sib) mentre ai tenori primi è affidata una scrittura a seste o terze parallele.
Pur nell’apparente semplicità di questa elaborazione emerge una scrittura assai ricercata e un’armonia che utilizza alcune alterazioni cromatiche ascendenti, sul motivo parola “l’è partito per l’Albania chissà quando ritornerà”: misura 12 (fa-fa#) voce di baritono, (sib-si beq.) voce di tenore secondo stessa misura e (mib-mi beq.) misura 13 voce del basso. Si tratta, come negli altri casi finora trattati, di cromatismi di carattere madrigalistico, che Vacchi utilizza per creare una maggiore tensione armonica e una forte sorpresa per l’ascoltatore. Concludendo l’excursus di elaborazioni scritte da Vacchi negli anni Settanta non poteva mancare la struggente elaborazione di Fa la nana (1979) brano ritrovato a Monghidoro, in provincia di Bologna, da Arrigo Montanari nel 1979. Si tratta di una particolare ninna nanna, cantata da Maria Grillini, figura cardine del mondo contadino monghidorese, in cui gli stati d’animo si sommano e si scontrano in un vortice di forti emozioni. Vacchi a proposito di questo brano scrive: «Il canto popolare è legato a una funzione, scomparsa la quale il canto agonizza e muore: così è avvenuto, e avviene, a tanti canti di lavoro, rituali, a ballo, ecc. Non ancora scomparsa è, invece, la funzione del ninnare, legata al “mestiere” di madre, o di nonna, per cui sono ancora numerose le donne che ricordano ninne nanne. Ma solo di recente, dopo decenni di ricerche e discussioni, si è cominciato a far luce sull’essenza di questo “canto di lavoro” come forse è il caso di definirlo».
A tal proposito scrive Roberto Leydi nel suo I canti popolari italiani, Arnoldo Mondadori, Milano 1973 pagine 38-39 «Per quanto riguarda le ninne nanne va osservato che questi canti non assolvevano soltanto il compito di quietare e addormentare i bambini, ma anche quello di avviare il processo di inculturazione del nuovo nato (e inculturazione non soltanto musicale). Attraverso la ninna nanna, poi, era offerta alla donna un’occasione di sfogo non altrimenti possibile all’interno della società contadina tradizionale (soprattutto meridionale)». In questa scia possiamo collocare anche questa ninna nanna di Monghidoro, in cui il testo, strofa dopo strofa, si fa sempre più drammatico, fino ad esplodere nell’esortazione finale: “Figlia mia non ti maritare se ti mariti non hai più ben”. Citando ancora Vacchi: «Pochi, infine, i riscontri (e quasi tutti limitati alla prima quartina) con altre lezioni, e anche queste relative alla nostra regione. Fanno eccezione i versi seguenti: «Nana, nuncheta, – la mama è andata a messa, Papà l’è anda a Türin – a cumprar dei büratin» tratti da brani originari del Canavese e citati da Costantino Nigra». Nell’elaborazione di questa splendida ninna nanna in modo minore e in tempo binario, Vacchi mette “in gioco” diversi parametri di elaborazione già utilizzati nelle composizioni precedenti. Tra i quali, ad esempio, l’impiego di un lungo pedale di tonica (la), affidato alla voce del basso, che sostiene il tema, che per le prime due strofe è affidato ad un tenore solista. La scrittura musicale si fa sempre più pregnante man mano che il testo diviene più drammatico. Al coro fino a misura 44 è affidata una scrittura di carattere strumentale, in cui vengono enfatizzati gli onomatopeici “Don, don, din, don”, tramite una dinamica musicale, gradatamente cangiante e che tende ad aumentare sempre di più fino al fortissimo corale (misure 57-61). In questa zona Vacchi affida al coro una scrittura più compatta, tendenzialmente omoritmica, la cui solidità pian piano si sfalda, tramite una graduale diminuzione del numero delle voci e della dinamica. Si tratta di una tecnica di elaborazione che sfrutta il doppio concetto di accumulazione e diradamento delle voci. Diviene un esempio lampante di questa modalità il finale del brano, in cui le voci si sfrondano gradatamente, come “i petali di una margherita al vento”. La scrittura corale gradatamente scarnificata sfocia su una drammatica e tripla ottava vuota (la), che copre, appunto, tre ottave di registro, creando nell’ascoltatore un notevole “senso di abbandono”.
Tra le elaborazioni scritte da Vacchi tra il 1980 e il 1988, tutte di grande valore e assai interessanti, diviene un’impresa assai ardua focalizzare l’attenzione su alcune di esse. Tra queste merita, sicuramente, una particolare attenzione. Venendo giù dai monti, canto ritrovato a Gàggio Montano (BO) da Paolo Bernardini nel 1979 ed elaborato per coro a voci virili da Vacchi nel 1980. Trattasi di un brano riconducibile alla forma della canzone narrativa, in cui i testi, generalmente di epoca più tarda rispetto alle melodie, presentano non di rado allusioni e doppi sensi. Versioni differenti di questo canto, in ritmo ternario o binario composto, spesso in 6/8, sono note in tutto il Nord Italia. Varianti, con melodie assai diverse, sono diffuse in Veneto, soprattutto nel Vicentino. Vacchi nell’elaborazione di questo brano, pur con la semplicità di mezzi utilizzati, dimostra di avere acquisito una notevole maestria sia contrappuntistica che armonica. Nella scrittura è presente un interessante gioco imitativo tra la voce del basso e quella del tenore secondo (misure 4-8), nel quale il motivo parola “la presi per morosa, la mi voleva ben.” acquisisce un ruolo centrale all’interno del brano. Tramite il “rivestimento” armonico-contrappuntistico Vacchi “amplifica” sia i contenuti testuali che il forte lirismo già presenti nella melodia, proiettando l’ascoltatore in una sonorità assai delicata e vagamente “pastorale”. Dello stesso anno è anche l’assai raffinata elaborazione del brano La colombina (1980), canto ricercato da Paolo Bernardini e Mario Franceschini sempre a Gàggio nel 1979. In questa elaborazione Vacchi utilizza una scrittura molto pregnante, che prevede alle prime otto misure d’introduzione, l’utilizzo di cromatismi discendenti e di un’armonia assai moderna e particolare; con le voci del baritono e del tenore primo che procedono frequentemente con parallelismi di quinta. Il tema della prima strofa viene affidato a un basso solista, mentre la fissità delle voci inferiori contrastano con la voce superiore (tenore primo) che propone dei procedimenti cromatici ascendenti (misure 9-12) e poi discendenti misura (13-16). Segue poi il motivo parola “e la vola per aria e la ritorna in terra cara la mia stella a fare l’amor” in cui Vacchi affida al coro una scrittura tendenzialmente omoritmica. Dopo la seconda strofa l’elaboratore riprende integralmente le 16 misure iniziali, aggiungendo solamente una battuta finale caratterizzata da un lento glissando ascendente delle voci superiori, che simboleggia il desiderio di raggiungere l’amata.


Sempre degli stessi anni ma appartenente alla ricerca svolta a Travo, Alta Val Trebbia, in provincia di Piacenza da Don Gianrico Fornasari è anche L’usignolo (1987). Si tratta di un brano molto interessante e dalla struttura assai particolare. Dalle prime 24 misure in cui la scrittura attinge ad alcuni tratti caratteristici della forma della Ballata, quale ad esempio il tempo in 6/8, si sfocia su una scrittura assai libera, priva di un metro, che procede metricamente, come nel caso di alcuni stornelli e serenate, esclusivamente sul tempo della parola. Il forte lirismo melodico è estremamente enfatizzato da Vacchi, tramite una scrittura che si divide in due blocchi assestanti dai caratteri antitetici. Il primo è rappresentato dalle prime 24 misure, nelle quali l’elaboratore affida al coro una scrittura omoritmica. Segue quindi il secondo blocco (misure 25-32) in cui Vacchi affida il tema a un tenore solo, mentre al coro sono affidati pedali di tonica (la) o di dominante (mi) che oltre a sostenere la voce principale, assumono le sembianze di una sorta di “organo positivo”. Anche in questa elaborazione compare la figura del glissando, questa volta tramite intervalli di quarta discendente, sul motivo parola “canto”. Il brano si conclude con una scrittura riconducibile a quella delle prime 24 misure. Un notevole allargando del tempo e un graduale crescendo dinamico, che da un piano sfocia in un fortissimo, conducono alla conclusione della composizione. Nel 1990 Giorgio Vacchi decise di introdurre nel coro due sezioni femminili (soprani e contralti), che si andarono ad aggiungere alle quattro sezioni maschili (tenori I, tenori II, baritoni e bassi) ampliando, così, sia la gamma vocale che le potenzialità espressive del coro. Per questa ragione l’opera di Vacchi dal 1990 al 2006 è maggiormente incentrata sulla realizzazione di elaborazioni per coro misto a sei voci, oppure sulla trascrizione per questo organico dei brani precedentemente composti per coro maschile. Per questo motivo cercherò di focalizzare la mia attenzione su una serie di brani che possano al meglio sintetizzare l’ultimo percorso creativo di Giorgio Vacchi. Tra questa serie di brani sono di particolare interesse alcune elaborazioni con le quali Vacchi comincerà il suo nuovo percorso con il Coro Stelutis di Bologna. Tra i brani di particolare interesse che Vacchi ha trascritto da coro maschile a coro misto vi è certamente Donna lombarda (1991) della quale il musicista bolognese realizzerà la versione a sei voci miste solamente due anni più tardi, nel 1993. Si tratta di una delle più celebri e antiche ballate popolari. Diffusa in tutta l’Italia settentrionale ma conosciuta anche in quella centro-meridionale, narra la storia di una donna che viene invitata dall’innamorato a uccidere il marito con il veleno ricavato da un serpente. Nella maggior parte delle varianti vi è però l’intervento di un bambino (di “pochi anni” o “pochi mesi”, a seconda della versione), che mette in guardia il suo “caro padre” dell’orditura; così il padre obbliga la donna a bere anche lei l’intruglio. La variante elaborata da Vacchi è nel tempo di 3/8, ed è stata ritrovata a Marsaglia di Cortebrugnatella, in provincia di Piacenza. Anche in questo lavoro l’elaboratore alterna l’utilizzo dei solisti al coro, mostrando di essere perfettamente aderente alle modalità di canto popolare spontaneo di area emiliana.
Alla scrittura tendenzialmente omoritmica (misure 1-22), segue una zona nella quale le voci superiori (soprani e contralti) procedono tendenzialmente con parallelismi di terza, mentre alle voci maschili è affidata una scrittura di carattere strumentale, nella quale il coro virile si trasforma in una sorta di strumento d’accompagnamento. Nella prima parte della quinta e ultima strofa; “prima la tagli e poi la schiacci poi gliela metti là dentro nel vin.” (misure 46-58) il tema è affidato alla sezione dei bassi. Il compositore per enfatizzare la drammaticità del testo sceglie un tempo più largo, indicando in partitura: Meno mosso. Si giunge quindi al finale caratterizzato da un notevole rallentando dell’agogica e da un graduale crescendo dinamico, che sfocia nel fortissimo finale.

 


Facendo un balzo di circa cinque anni troviamo l’elaborazione di Santa Lucia (1995). Questo canto dalle tinte drammatiche e in tono minore è stato ritrovato da chi vi scrive nel 1990 a Gaggiò Montano (BO) e cantato da Poggi Irma, classe 1923, originaria di Castel d’Aiano, in provincia di Bologna.
Si tratta sicuramente di un unicum nella ricerca del canto popolare italiano. Già la tonalità minore è assai rara nei canti popolari di area emiliana, essa si riscontra più frequentemente nei canti religiosi d’autore ignoto e in quelli popolari del Meridione d’Italia. Lo stesso etnomusicologo Roberto Leydi, che ci stava lavorando fino a poco prima della morte, mi confidò di non aver mai udito varianti di questo brano durante il suo lungo lavoro di ricerca. Probabilmente, la melodia, di origine pre-gregoriane, cioè prima dell’anno 1000 dopo Cristo, ha subito vari travestimenti, fino ad arrivare a noi intrisa di drammatica religiosità. La figura di Santa Lucia, comunemente nota come la protettrice della vista, qui assume un ruolo sacrificale. Questa drammaticità è lampante nella quinta strofa del brano: “Lucia si levò gli occhi in un bacino la dîs: tolî tolî (dice prendete, prendete) questo presente la dîs: tolî tolî questo presente portêl (dice prendete, prendete questo presente portatelo) al re di Pasqua incontinente”. Appaiono inoltre personaggi ai confini tra fantasia e memoria, come ad esempio il sopra citato “Re di Pasqua”, figura probabilmente di fantasia, ma anche “i giudei di Francia”, sorta di rozzi e spietati giustizieri. L’aspetto simbolico assume un ruolo centrale, come ad esempio nella risposta del Re nella strofa successiva: “No no no no non voglio i suoi occhi ma voglio lei ma voglio lei in persona e s’lan vôl gnîr bisåggna (e se non vuol venire bisogna) trascinarla con sette pèr ed bò bisåggna (sette paia di buoi bisogna) menarla”. Il sette, numero centrale per esempio nell’Apocalisse, viene unito all’umanizzazione dei buoi, come ad esempio nella penultima strofa: “I bò i parîven (I buoi sembravano) l’aver conosciuta da terra non la vollero levare gli arriva poi i giudei di Francia gli dàn la santa mena d’un coltello”. Interessante anche la commistione tra dialetto emiliano e italiano antico, che probabilmente pone questo canto sulla scia dei canti devozionali, di argomento religioso, che vedono l’esaltazione della verginità e della vita religiosa povera ed umile. Probabilmente il travestimento testuale più marcato è avvenuto in epoca Francescana; si noti ad esempio la prima strofa: “Santa Lucia domandò a sô mèder (a sua madre) dov’è il mio ben ch’al mà lasà mê pèder (che mi ha lasciato mio padre)? Tutt al vói spènder (lo voglio spendere) tutto al vói donare ai poverini per l’amor di Dio”, dove la grande generosità d’animo di Lucia è perfettamente in linea con l’ideale religioso di San Francesco o San Filippo Neri. Anche nella risposta di Lucia al Re di Pasqua alla richiesta della sua mano emergono questi ideali: “Piuttosto io vorrei vorrei bruciare ma al mondo non mi voglio maritare”. La ricerca della castità e della vita totalmente donata a Dio arriva fino al sacrificio finale, come nell’ultima strofa: “Santa Lucia sentì la ferita incominciò a gridar: Dio m’aîta Dio m’aîta in ciel cogli altri santi in Paradiso con le dolci canti.”. Come per il cristiano che ambisce alla santità, così anche per Lucia, il sacrificio, prima della vista, e infine della sua stessa vita, assumono il carattere catartico liberatorio di avvicinamento a Dio. Nell’elaborazione di questa splendida melodia per coro a sei voci miste, Giorgio Vacchi mette “in campo” moltissime delle tecniche utilizzate nelle composizioni precedenti. In primis il rapporto, che definirei intimistico, tra la figura dell’oratore, affidata a voci soliste, soprano nella prima strofa e tenore nella seconda strofa e la voce d’accompagnamento che per le prime 32 misure è affidata alla sezione dei bassi, mentre le altre sezioni del coro tacciono. Vacchi pare volere ricreare, tramite la scrittura, lo stesso dualismo, in gran parte psicologico, presente tra i due protagonisti: “Santa Lucia” e “il Re di Pasqua”: che potrebbe simboleggiare Gesù Cristo. Alla terza strofa, levare di misura 34, il tema principale è affidato alla sezione dei bassi: “Desir Santa Lucia volete esser voi la sposa mia” mentre alle sezioni unite di soprani e contralti è affidata la risposta “Piuttosto vorrei bruciare ma al mondo non mi voglio maritare.”
Seguono quindi le strofe 4-7 in cui Vacchi porta la scrittura una sonorità sempre più “sinfonica”, mentre l’andamento generale delle voci è prevalentemente omoritmico. Di grande finezza è la scrittura che caratterizza tutta l’ottava strofa “Santa Lucia sentì la ferita incominciò a gridar: Dio m’aîta Dio m’aîta in ciel cogli altri santi in Paradiso con le dolci canti”, in cui Vacchi affida alle voci maschili un semplice pedale di tonica all’ottava (si) mentre le due voci soliste femminili (soprano e contralto) procedono tramite un’assai efficace scrittura polifonica. Trattasi di una sorta di duetto che si concluderà solamente a misura 136, in cui ritornerà, per le voci femminili, il Tutti e a cui risponderanno, a misura 138, i tenori. Il brano si conclude con una sorta di madrigalismo, che avviene sul motivo parola “in Paradiso” mediante l’innalzamento della terza, e il relativo passaggio dalla tonalità di si minore a quella di si maggiore.
Dell’ultima fase compositiva di Giorgio Vacchi, nella seconda parte del mio lavoro, tratterò il suo ultimo lavoro Preghiera del mattino (2016), ma credo vi sia un altro lavoro assai interessante. Si tratta dell’elaborazione del canto popolare natalizio Tre Re d’oriente, brano ritrovato a Gàggio Montano (BO), da Paolo Bernardini nel 1990 e cantato da Catterina Bruni, informatrice assai feconda. Si tratta di un canto popolare, probabilmente molto antico, appartenente al genere della pasquelle e dei canti legati alle feste del solstizio d’inverno. A tal proposito scrive Leydi: «Nel mondo popolare è conservato il senso unitario del gruppo di feste che vanno fino all’Epifania. Capodanno è il doppio laico del Natale; l’Epifania è il vecchio Natale, i dodici giorni dopo Natale, pensiamo allo Shakespeare de La dodicesima notte. Nell’area lombarda è molto diffusa la tradizione dei “Tre Re”: pratica della stella, portare in giro in processione una stella di carta con dentro un lumino accompagnando questa processione con dei canti». Nella sua elaborazione corale Vacchi utilizza una scrittura tendenzialmente omoritmica, in perfetta aderenza con il carattere processionale del canto popolare, pur con l’impiego di numerosi pedali, principalmente di tonica e dominante, assai utilizzati, ad esempio, nelle tecniche di accompagnamento strumentale, in particolare nella forma della Pastorale. Numerosi sono i tratti comuni tra le forme pastorali e le pasquelle. Tra questi, in particolare, il tempo binario composto in 6/8 e la sua possibile alternanza con il tempo ternario composto in 9/8. L’armonia utilizzata da Vacchi è prevalentemente diatonica, se si escludono i due procedimenti cromatici presenti nella voce del contralto a misura 21 (sol-sol#), che viene ripreso a misura 34 alla stessa voce.

(segue nel prossimo numero)