Baccio Maria Bacci (Firenze, 1888-1974), ritratto di Piero Jahier, 1920

Nei Canti di soldati di Piero Jahier le origini della coralità maschile

La storia è ricca di momenti, persone, luoghi che si fissano come punti sulla linea del tempo e a questi si fa riferimento per iniziare una spiegazione, proporre un ragionamento, fare un paragone. Anche la musica obbedisce a questa dinamica. Approfondendo però quei punti, ci si accorge che essi sono il più delle volte il risultato di idee che partono da un altro luogo, da un’altra persona o ben più lontane nel tempo. È successo così anche nel mondo dei ‘cori alpini’ (o altrimenti definiti ‘degli Alpini’, o ‘di montagna’, o ‘popolari’, o ‘di ispirazione popolare’). Senza nulla togliere ai cori SOSAT/SAT, la cui vera nascita è pressoché avvolta nel mistero e che fra poco saranno i primi a festeggiare il secolo di vita di quel tipo di coralità (1926-2026), si può dire che le origini, il germe meglio documentato sulla coralità popolare maschile è anteriore di una decina di anni. Piero Jahier (scrittore e poeta, nato a Genova nel 1884 e morto a Firenze nel 1966) inizia nel 1917 a raccogliere i canti dalle voci dei soldati al fronte e a pubblicarli sulla rivista letteraria La Riviera Ligure. In seguito questi verranno raccolti in Canti di soldati, uscito in diverse edizioni tra il 1918 e il 1919. Nella prima, oltre ai testi dei canti, si trovano anche una dedica, dei ringraziamenti, una spiegazione e delle regole del canto a orecchio. In queste parti, con un linguaggio che si muove tra il serio e il burlesco, tra il vero e il romanzato, si possono leggere molte delle dinamiche che si trovano ancora oggi nei cori alpini. Certo, non solo in quelli, ma leggendo quelle parole il primo collegamento che balza alla mente, trattandosi di soldati, è quello con gli odierni cori alpini. La sede: «la scuola di canto era in strada», «in cortile», «in osteria», «in piedi», «su un prato», «dentro», «una spianata verde in faccia alle Dolomiti», «nelle montagne». La burocrazia: «radunare i canterini in base alle informazioni dei compagni e dei graduati», «dividere le voci in: alte e basse e farne un ruolino».

 

Piero Jahier

Le armonizzazioni: è interessante notare i diversi vocaboli utilizzati per descriviere il canto a più voci: «fanfara di voci», «diverse voci», «controcanto», «grugnito di basso», «coro a tre voci», «acuti», «bassi», «terza», «contralto», «secondo», «accompagnamenti», «varie parti» e «armonia».
Il repertorio: «la popolarità è una scelta già fatta: vuol dire che corrispondono al nostro sentimento di guerra», «canti di popoli che hanno un valore universale», «[di canti] ce ne sono molti veneti…», «canti popolari a musica più semplice e piana», «canti più complicati e variati come sono gli inni nazionali», «scegliere i cori adatti come tempo (es. Inno degli sciatori per gli alpini; Piume baciatemi per i bersaglieri)», «canti così semplici e vivi».
Il direttore: «dovevo cantare, ricantare, stracantare la stessa parte sempre io», «correggere gli errori più comuni. Gli errori più comuni sono…», «stabilire i comandi, a cenni, per ottenere il piano, il forte, il presto, l’adagio», «insegnare a intonar giusto a orecchio», «abituare a non cominciare mai a caso», «correggere e migliorare il controcanto», «insegnare le parole a memoria spiegandole», «basta controllare e temperare». Infine non mancano nemmeno consigli per i direttori più… impazienti: «ci vogliono parecchie prove», «non scoraggiarsi alle difficoltà» e… «perseverare»!

Piero Jahier

Nei diversi box a fianco pubblichiamo i testi integrali che si trovano sulla prima edizione di Canti di soldati di Piero Jahier (1918):

Canti di soldati di Piero Jahier

[DEDICA]

Questa raccolta non è dedicata
a Soldati che si fabbricano una chitarra colle latte da petrolio
o un violino colle casse da aranci né ai mitraglieri
che cantano colle mitraglie a spalla ma al fante più scalcinato
e ammutolito
nella trincea più battuta
e gli porta il buon consiglio
che un fante compagno aveva graffiato nella parete di una dolina.
CANTA CHE TI PASSA

 

SPIEGAZIONE

Questo libretto si propone di aiutare ogni reparto volenteroso a fabbricarsi un buon coro di soldati senza bisogno di nulla. Né di musica, né di strumenti, né di locali. È un arrangiamento di guerra. Come un telo da tenda e quattro sassi ci si arrangia una casa, così ci si può arrangiare una buona fanfara di voci, con tre cose che si trovano dappertutto: l’orecchio giusto di un capocoro l’anima canterina del soldato italiano questo libretto di parole.

«Ho fatto la prova; sono sicuro. E io non avevo l’aiuto di questo libretto – dovevo insegnar le parole a memoria; e non avevo neanche un trombettiere intonato che potesse accennare le diverse voci; non avevo le regole dell’esperienza che si trovano alla fine di questa spiegazione. Chi prova dopo me si troverà avvantaggiato. Fu all’istruzione delle reclute del ’97 che feci la prova io. Ci avevano levato la fanfara, ma, quasi a rimpiazzare il nostro bisogno di musica, ogni giorno crescevano i cori. Mi misi a osservarli questi cori – come facevano a insegnarseli e a imparare? Dov’era la scuola di canto?
Baccio Maria Bacci (Firenze, 1888-1974), ritratto di Piero Jahier, 1920
La scuola di canto era in strada, in cortile, in osteria; imparare imparavano come si è sempre imparato – a orecchio, per imitazione. Chi aveva la grazia della voce faceva centro – gli altri gli tenevan dietro; chi aveva la grazia dell’armonia inventava il controcanto e anche lui trovava seguaci; qualche anziano, per compiacenza, ci aggiungeva un grugnito di basso. Ecco fatto un coro a tre voci.
E che pazienza! E che passione! Le parole se le copiavano in ginocchio, sulle assicelle in camerata; di nascosto, per non scoprire la presenza vietata della boccetta d’inchiostro nel paglione. Se le passavano come una lettera della morosa! Cento volte ripetevano la stessa nenia – pur di cantare! Per stanca e appesantita che fosse la colonna in marcia bastava che in un punto qualunque della fila scoppiasse il richiamo della bella voce serena per vedere gli amanti del canto volar via di corsa a raggiungerla, collo zaino ballante sul groppone sudato! Allora dissi tra me: dal momento che siamo italiani e non possiamo fare a meno di cantare, perché non si potrebbe disciplinare e indirizzare questo amore così ardente con un po’ di scuola? Innalzarlo fino ai canti dei popoli liberi che danno la coscienza di questa guerra, fabbricare un coro che rimpiazzi davvero la fanfara per marciare in cadenza e intanto ci sfoghi dei nostri dolori di soldati? Ci sono tante istruzioni secondarie che consistono nel dormire in cerchio intorno a un graduato! Cantare – per l’anima – è come far zaino a terra – per la schiena!
Detto fatto: come avevo imparato da loro. Cominciai anch’io a ricopiar foglietti colle parole: ogni cinque uno; inventai un segnale: adunata canterini che me li portasse intorno in qualunque formazione e in testa alla colonna quando marciavamo; provai le voci una a una e le divisi; e poi avanti: a orecchio e per imitazione. La scuola di canto la impiantai dove e quando capitava: in piedi, su un prato, tra un lancio di bombe e un’arrampiacata; dentro, i giorni piovosi, che me li salvava dalla morra e dal sette e mezzo clandestino. Non avevo neanche un trombettiere in grado di aiutarmi accennando i motivi: dovevo cantare, ricantare, stracantare la stessa parte sempre io: a volte mi toccava sedermi sfinito su uno zaino e chiedere un pezzetto di formaggio per rifar forza a continuare. Ma non importa; ci ho un ricordo che compensa tutto: una spianata verde in faccia alle Dolomiti dove siamo adunati per giurare, tutta la leva; e la fanfara di voci dei miei tosatti che tiene il tempo e mantiene lo scatto per tutti, mentre sfiliamo in parata! La testa bianca del mio colonnello tentennava commossa lassù nel mezzo: sì, sì bravi figlioli! Ecco perché ho raccolto questi canti di soldati – così alla buona, a memoria, ma subito. Nel raccoglierli ho ubbidito a una legge sola: che fossero popolari tra noi soldati. La popolarità è una scelta già fatta: vuol dire che corrispondono al nostro sentimento di guerra. Ci ho aggiunto soltanto pochi canti di popoli che hanno un valore universale. Qualcuno troverà che ce ne sono molti veneti. Ma è naturale. Non solo perché il Veneto è terra di armonia. Ma perché la guerra è stata nel Veneto, non bisogna dimenticarlo mai. O nostra santa terra – la più ferita figliola della patria – anche noi soldati ti abbiamo invasa e turbata coi nostri tanti bisogni dalla cravatta da lavare al sorriso della tosa; son state di tutti noi combattenti le tue dolci case…
E così siano di tutti i fanti italiani queste tue canzoni e le riportino in memoria tua alle case più lontane».
Barba Piero [alias Piero Jahier]

Copertina di Canti di soldati, «pubblicati dalla sezione P della 1. Armata in Trento redenta, capodanno 1919 – edizione numerata di 5000 esemplari»

 

L’Astico. Giornale delle trincee n. 17 (6 giugno 1918), testata e appello per la raccolta dei Canti

Pagine da Canti di soldati del 1919

REGOLE DEL CANTO A ORECCHIO

«Radunare i canterini in base alle informazioni dei compagni e dei graduati.
Provare le voci facendo cantare a ciascuno una canzone che sappia bene. Dividere le voci in: alte e basse e farne un ruolino.
Diffidare delle prime impressioni perché sono emozionati.
Far cantare, a tutti insieme, uno dei canti che sanno meglio per correggere gli errori più comuni.
Gli errori più comuni sono: cantano troppo a voce spiegata, e cioè gridano, mentre la bellezza del canto nasce dal contrasto tra forte e piano; cantano tutto collo stesso tempo, con tendenza ad accelerare verso la fine, mentre la bellezza del canto nasce dal contrasto tra presto e adagio.
Far intendere, coll’esempio, che piano e forte, presto e adagio dipendono dalle parole. Dare, cioè, un’idea del colorito del canto. Renderla evidente cantando a galoppo un’aria mesta e una allegra a mortorio.
Stabilire i comandi, a cenni, per ottenere il piano, il forte, il presto, l’adagio.
Far intonare canti che tutti sanno bene ora da uno, ora dall’altro e quando gli alti non arrivano agli acuti o i bassi non arrivano ai bassi, spiegare che dipende da aver cominciato troppo alto o troppo basso. Dare, cioè, un’idea del tono.
Insegnare a intonar giusto a orecchio: il metodo più semplice consiste nel ripassare in fretta a memoria o a mezza voce tutto il canto, prima di intonarlo, correggendo in alto o in basso la prima nota se la voce fatica ad arrivare ai bassi o agli acuti.
Abituare a non cominciare mai a caso, ma a scegliere la prima nota da cui dipende tutto il canto, a ripeterla a bassa voce tutti insieme, prima di attaccare.
Abituare quelli che fanno il controcanto (terza, contralto o secondo che lo si voglia chiamare) a cantare da soli la loro parte come se fosse un cantabile indipendente. Correggere e migliorare il controcanto da loro inventato.
Non passare a insegnar nulla di nuovo se non si è ottenuto un progresso reale di bellezza nell’esecuzione dei canti vecchi, che abbia persuaso tutti dell’utilità della scuola e invogliato ad avanzare.
Passando al nuovo: scegliere da principio un canto molto melodioso e facile e non abbandonarlo finché non si è ottenuta la perfezione.
Insegnare le parole a memoria spiegandole, una per una, perché solo chi sa cosa vuol dire canta bene. Se si tratta di un inno nazionale, spiegarne l’occasione e raccontarne la storia.
Far sentire tutta l’aria per interessare, ma poi insegnarla un verso per volta e agli alti soltanto, esigendo che quelli del controcanto e del basso stiano in disparte silenziosi.
Appena gli alti hanno imparato un verso, metterli a riposo e passare a insegnare lo stesso verso (nella parte loro) agli accompagnamenti, cioè controcanto e basso.
Qui comincia la difficoltà vera. Nei canti popolari a musica più semplice e piana, controcanto e basso se lo inventano da sé i canterini: basta controllare e temperare. Ma nei canti più complicati e variati come sono gli inni nazionali di questa raccolta, gli accompagnamenti sono stati scritti dagli autori e vanno eseguiti fedelmente altrimenti troppa bellezza del canto va perduta. A risolvere la difficoltà – se l’istruttore non ha orecchio finissimo e pratica musicale – serve un trombettiere musicante. Basta procurargli una semplice partitura per piano e penserà lui ad accennare le varie parti, risparmiando fiato all’istruttore.
Appena gli accompagnamenti sanno un versetto della loro parte, farli provare insieme agli altri per realizzare subito la gioia dell’armonia che li compenserà della pena durata. In generale al principio e alla fine di ogni lezione far eseguire quei canti che già si sanno bene, per consolazione.
Per il canto in marcia, a passo cadenzato, converrà scegliere i cori adatti come tempo (es. «Inno degli sciatori» per gli alpini; «Piume baciatemi» per i bersaglieri), e non cominciare prima di aver ottenuto che tutti vadano perfettamente al passo. Ci vogliono parecchie prove.
Soprattutto non scoraggiarsi alle difficoltà. Perseverare. Il popolo che ha saputo creare tanti bei canti, saprà anche imparare quelli che gli sono insegnati. I miei soldati erano seggiolai e minatori dell’Agordino, eppure in quattro lezioni cantavano la Marsigliese a tre voci disuguali: e in francese».

RINGRAZIAMENTI

«Anzitutto agli ignoti poeti di popolo che hanno creato – senza ambizione – questi canti così semplici e vivi. Poi ai soldati che cantandoli con me nelle montagne e sulle strade mi han suggerito l’idea di raccoglierli a conforto comune. Infine a quanti hanno aiutato e soprattutto al buon compagno profugo che ha scelto e curato quelli della sua terra armoniosa».

Piero Jahier, Canti di soldati (1918)