Nella foto: I Manhattan Transfer in concerto

La didattica corale di un coro jazz

Si fa presto a dire jazz…

Per chi si accinga a progettare un coro jazz, manco a dirlo, il primo problema sta proprio nella definizione stessa di “jazz”. Tale etichetta infatti è utilizzata correntemente, ma senza che alcuno si preoccupi di definirne i contorni: ai fini del nostro discorso in particolare ci si chiede quali sonorità possano essere universalmente considerate come “jazz” e, ancora più nello specifico del coro, a quale tipo di vocalità si intende fare riferimento. Per farsi una prima idea si potrebbe scorrere il cartellone di uno dei tanti festival al jazz dedicati, o il catalogo di una delle etichette discografiche specializzate, ma in ambedue i casi ci si troverebbe di fronte a un ventaglio di possibilità decisamente ampio e tutt’altro che omogeneo. Nell’immaginario di massa la parola jazz è di volta in volta associata alla musica afroamericana – quella vecchia però, da Louis Armstrong a Nat King Cole, perché oggi ci sono il rap e l’R&B – o ai classici del musical di Broadway o del cinema hollywoodiano e a figure come Frank Sinatra o Bing Crosby. Tra le persone un po’ meglio informate passa invece per quel tipo di musica di difficile ascolto, non priva di fascino – ma ragazzi, che “borsa”! Ecco infine la categoria degli appassionati che però, oltre ad essere tutt’altro che maggioritaria, si presenta pure molto divisa al suo interno: vi allignano infatti diverse fronde di puristi, patiti del jazz di questo o quel periodo, di questo o quello stile dei tanti che nel corso di una pur breve storia (poco più di un secolo) hanno caratterizzato il modo di suonare e pensare il jazz. Avremo così gli amanti del jazz tradizionale (grossomodo quello suonato da Woody Allen con il suo gruppo, tanto per intenderci), i patiti dello swing classico (la musica delle orchestre di Duke Ellington e Count Basie, per esempio, ultimamente molto in voga anche come musica da ballo), i fanatici del bebop e delle sue derivazioni (cool jazz e hard bop) e tutti costoro a volte poco aperti a considerare gli altri stili degni di attenzione. Infine ci sono gli entusiasti non solo della tradizione, ma anche di ogni novità che si presenti, che considerano a pieno titolo “jazz” anche stili variamente contaminati come la fusion, il jazz-rock, l’acid jazz, il latin ecc.

Giovanni Bataloni

Costruire un coro jazz

Già da questo rapido sguardo sui mondi espressivi che stanno a vario titolo sotto l’etichetta di “jazz” si capisce come il panorama sia molto complesso, sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista stilistico e come, di conseguenza, l’approccio a una idea di coralità jazzistica sia di difficile inquadramento. Di fronte a tale complessità, la strada che personalmente ho deciso di intraprendere iniziando l’avventura della costituzione di un coro jazz è stata quella di tracciare dei contorni generali, cercare una sintesi degli elementi che possano tenere insieme i diversi stili, mantenendo però anche una certa plasticità di approccio vocale. Così, quando nel 2018, dopo diverse esperienze come pianista e arrangiatore jazz e nella musica moderna e gospel come direttore di coro, decisi di fondare a Milano il gruppo Random Notes Jazz Choir (inizialmente coro femminile, poi divenuto coro misto), incominciai rivolgendomi ad alcuni tra gli autori più “classici”, George Gershwin e Duke Ellington su tutti, aprendo poi successivamente a qualche incursione in territori più “moderni” e non propriamente jazzistici (come i Beatles e Michael Jackson); tutto questo senza tralasciare il mondo del cosiddetto latin jazz – brasiliano, in particolare – e lavorando su arrangiamenti da me stesso approntati in base alle esigenze del gruppo. Nel lavoro di arrangiamento vocale poi mi sforzai da subito di facilitare l’accesso allo stile cercando di ottenere il risultato armonico voluto, salvando però una certa fluidità e cantabilità delle singole parti, insomma di preservare le singolarità armoniche e timbriche tipiche della musica afroamericana, filtrate però attraverso le tecniche del contrappunto europeo.

If it ain’t got that swing… La sfida del ritmo

Al di là del caso specifico, nel lavoro di costruzione del repertorio del coro jazz si presentano alcune difficoltà intrinseche alle caratteristiche peculiari di quel genere rispetto al contesto e alla tradizione musicale e corale del nostro paese; quello che forse è lo snodo principale nel cammino di avvicinamento alla musica afroamericana in generale sta nel comprendere la sua natura ritmica e metrica. Dal punto di vista della gestione del tempo lo swing, il caratteristico andamento ritmico che caratterizza la gran parte della musica jazz, ha due caratteristiche principali: innanzitutto una metrica binaria, o meglio quaternaria, con gli accenti principali sul secondo e sul quarto tempo della misura – caratteristica quest’ultima che si è estesa un po’ a tutta la musica moderna americana e non solo, ma che ancora può costituire un problema per coristi non abituati a quello stile. La seconda importante peculiarità sta nel fatto che il fluire del tempo è attraversato da una sorta di corrente continua sotterranea di terzine di crome; alcune delle quali espresse dagli interventi della batteria e degli strumenti di accompagnamento. Lo schema della sezione ritmica base è infatti fondato sul flusso continuo di semiminime del contrabbasso, vero perno della sezione, intorno al quale il batterista gioca suonando sul piatto “ride” e sul tamburo quelle crome di terzina che, suddividendo il tactus, conferiscono il caratteristico swing al brano.

Il training corale

Il training per ottenere la corretta “pronunzia” (così si dice nel linguaggio tecnico) jazzistica parte senz’altro dall’ascolto delle incisioni storiche dei grandi jazzisti di oltreoceano: ascolto assiduo e anche attivo, accompagnato cioè dalla risposta fisica del movimento, del battito di mani, piedi e ‘snap’ sul levare che l’aspirante jazzista deve praticare quotidianamente. In coro poi ci si allenerà collettivamente a sentire e far sentire l’andamento swing anche solo sul parlato e con esercizi di coordinazione corporea, chiedendo al gruppo di tenere il tactus sui tempi deboli della misura e contemporaneamente di sottolineare gli accenti secondari con la voce o con altre tecniche di body percussion. L’ascolto del repertorio è condizione essenziale per appropriarsi di tutti quegli aspetti non scritti (e nel caso del jazz sono molti) di questo linguaggio.
Quanto alla tecnica vocale, oltre al normale lavoro sul suono e sull’intonazione, sarà interessante lavorare sulle dinamiche tipiche dello stile, imitando inoltre articolazioni e fraseggio degli strumenti a fiato e delle sezioni delle big band. Una difficoltà vocale specifica riguarda il fatto che il canto jazz nasce e si sviluppa principalmente come canto solistico e nell’epoca dei microfoni. Le e i cantanti jazz, per la maggior parte, hanno studiato e messo a punto una tecnica vocale intonativa ed espressiva tipica del canto solistico, e trovandosi nel coro dovranno necessariamente piegare in parte il loro approccio alle esigenze del suono d’insieme. D’altro canto il corista “tradizionale” dovrà lavorare per trovare la plasticità di suono e di espressione utile a rendere le caratteristiche del nuovo stile: la contaminazione e il cooperative learning saranno aspetti stimolanti del lavoro d’insieme. Quanto al microfono, l’errore è considerarlo un mero amplificatore della voce, quando in realtà si tratta di un vero e proprio strumento che da un lato amplia le possibilità foniche ed espressive della voce, dall’altro richiede l’apprendimento di una tecnica specifica per essere utilizzato in modo corretto ed efficace. A prescindere dalla necessità di usare regolarmente il microfono nei concerti, è buona cosa che il corista dedito al jazz si abitui a familiarizzare con tale strumento.
Infine una cura particolare andrà dedicata, per i cantanti meno abituati allo stile, a curare che le accentuazioni e gli scatti ritmici tipici del linguaggio jazzistico non siano accompagnati da colpi di glottide o goffe spinte che finirebbero per appesantire il ritmo anziché farlo fluire: quegli accenti devono risultare piuttosto da una efficace articolazione delle parole e dei fonemi (nel caso di scat) su cui si intona il suono al fine di ottenere un andamento ritmico scattante e sincopato, ma anche fluido e scorrevole, conferendo all’interpretazione quella coolness che è un po’ la “sprezzatura” del canto jazz.

 

I Manhattan Transfer in sala d’incisione

A Cappella II Compilation eseguita da Jazzchor Freiburg

Summertime di Gershwin nell’arrangiamento di Giovanni Bataloni, eseguito dal Random Notes Jazz Choir

Fra antica e jazz… La sprezzatura rinascimentale

«Bella musica […] parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera. […] Dà ornamento e grazia assai la voce umana a tutti questi instrumenti […]. Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lassando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima […] fuggir quanto più si po, e come un asperrimo e pericoloso scoglio l’affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi».
Bella musica è cantar bene la polifonia, con sicurezza ed eleganza. […] La voce aggiunge raffinatezza e grazia agli strumenti con cui canta […]. Mi sono chiesto molte volte da dove derivi questa qualità, al di là di coloro che dimostrano di avere un talento naturale: trovo che una regola generale sia quella di evitare il più possibile l’affettazione, esattamente come si evita uno scoglio affilato e pericoloso; e, per dirla con una parola nuova, l’usare sempre una certa sprezzatura, che ‘nasconda’ la tecnica e faccia sembrare canto e dizione cose facilissime, senza fatica e senza pensarci.
Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, Venezia, 1528