(1958-2016) – parte 2

Il percorso creativo di Giorgio Vacchi con il Coro Stelutis di Bologna.Dall’armonizzazione all’elaborazione corale di canti popolari. Analisi delle principali fasi compositive del Maestro bolognese. Questa seconda parte riprende, in forma ampliata, alcuni aspetti da me trattati durante la bella giornata di studio tenutasi a Bologna il 10 ottobre 2021, presso la sede del Coro Stelutis di Bologna, in occasione dell’uscita dei due volumi Giorgio Vacchi, Composizioni per coro, Pendragon editore, Bologna 2021, a cura di Silvia Vacchi. L’idea centrale dell’indagine è quella di focalizzare l’attenzione, tramite una sorta di “macchina del tempo”, sulle principali fasi creative di Giorgio Vacchi e sulla sua continua e sempre cangiante ricerca musicale e artistica. Per fare ciò, come già scritto in precedenza, ho dovuto operare una dolorosa selezione all’interno della corposa produzione del maestro bolognese, alla ricerca di quelle armonizzazioni o elaborazioni corali che meglio di altre potessero rappresentare sinteticamente le varie fasi creative di Vacchi. Naturalmente questa selezione ha comportato il dover tralasciare lavori altrettanto interessanti, rispetto a quelli trattati. La vocalità maschile, dal modello SAT alle prime armonizzazioni Nella prima fase creativa di Giorgio Vacchi, che comprende il decennio che va dal 1958 al 1968, trovo di particolare interesse due lavori: Dormi mia bella dormi (1965) e Addio, addio! (1968). Nel primo caso si tratta di una forma di ninna nanna popolare in modo maggiore e in tempo binario, di cui sono note numerose varianti soprattutto nell’Italia settentrionale. Nell’elaborazione corale Vacchi utilizza alcuni elementi caratteristici della musica popolare di area emiliana, plasmandoli, però, alle proprie esigenze espressive e alle qualità del suo coro. Il primo elemento è rappresentato dall’uso di parallelismi di terze, che caratterizzano l’elaborazione delle prime due strofe del brano, il secondo è l’utilizzo, nella terza strofa, di una voce solista, affidata al tenore primo, mentre le altre voci procedono con un andamento prevalentemente omoritmico. Forte è anche l’impiego all’interno del brano di pedali di tonica e dominante. L’alternanza del primo e del quinto grado della scala, oltre ad avere funzioni armoniche, rappresenta una modalità assai diffusa nella tecnica di accompagnamento della musica popolare emiliana, in particolare di quella da ballo. Vacchi attingendo ad alcune modalità di canto tipiche dell’area emiliana e padana in generale, ma non discostandosi troppo dal modello di armonizzazione corale dei primi elaboratori del coro SAT, primo fra tutti il già citato Pigarelli, dimostra, già in questa sua prima fase creativa, di porsi come una sorta di “spartiacque” tra il modello SAT e quello “filologico”. Quest’ultimo si svilupperà in seguito in Italia grazie alla nascita del DAMS, corso di laurea interno alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna che vedrà la luce solamente alcuni anni più tardi, nel 1971. Il secondo canto che vorrei porre alla vostra attenzione è lo struggente Addio, addio! Si tratta di un brano che può essere incluso nella categoria dei canti di lavoro, o meglio come scrive Vacchi: «Si tratta di un canto facente parte di una categoria, certamente arbitraria, ma utile, che raggruppa i canti di lavoro non ritmici cioè quelli non direttamente legati alla funzione di scandire movimenti collettivi: che si riferisca però proprio alla fatica delle raccoglitrici di olive (in particolare della Piana dell’Ortonese e della zona della Majella) non ve dubbio anche se dal canto emerge principalmente un atteggiamento psicologico nei riguardi dell’ambiente piuttosto che nei riguardi del lavoro stesso». L’elaborazione corale attinge alla linea melodica ascoltata da Vacchi nei Dischi del sole  (DS 101-3). Vi sono elementi caratterizzanti, già intrinsechi nel canto, quali ad esempio il modo minore che raffigura la tristezza e la desolazione e il metro musicale in 6/8 tipico delle forme pastorali, che vengono amplificati da Vacchi con una scrittura estremamente stagliata ed efficace. L’idea dell’elaboratore di affidare il tema ad una voce solista rappresenta una sorta di amplificazione del “clima” generale del brano, intriso di tristezza e solitudine. Così come la scrittura di accompagnamento di carattere strumentale, amplificata dall’utilizzo nel coro del suono a bocca chiusa, rappresenta un’enfatizzazione del carattere patetico già presente nella melodia. La forte presenza di madrigalismi quali l’imitazione del suono del vento, oppure del suono delle zampogne, ecc., uniti all’utilizzo di un pedale di tonica (bordone) come elemento di sostegno ed introduttivo ad una particolare sonorità, ci conducono in un mondo sonoro estremamente affascinante e suggestivo, nel quale sembra realmente di “vedere” la scena narrata. Mi posso spingere a dire che vi sia una sorta di “Neorealismo pasoliniano” nel procedere compositivo adottato da Vacchi in questa elaborazione corale. Rafforzano quest’idea l’utilizzo di un ostinato a quinte parallele e la presenza di alcune figure di carattere onomatopeico, come, ad esempio, il glissando, rimando chiaro alla forma popolare del lamento. Dal punto di vista più prettamente tecnico si può dire che l’idea semitonale presente nell’incipit del doppio ostinato di quinte parallele, sia mutuato dalle nove seconde minori presenti nel tema: sette discendenti e due ascendenti. Il primo forte madrigalismo compare sulla parola “addio”, (Tutti) misura 14, con la presenza di un accordo maggiore (significante) in antitesi rispetto al significato. Rifrescando alcuni aspetti connessi al segno linguistico il significante rappresenta un’immagine acustica o visiva, mentre il significato rappresenta il contenuto concettuale del significante. Il secondo forte madrigalismo è caratterizzato dall’alleggerimento armonico sull’ottava (si, tonica) presente nella seconda conclusione della prima strofa. Abbiamo in questa zona un’idea di grande vuoto (misura 22), che rappresenta un’ulteriore amplificazione del “clima” di desolazione già presente nel canto stesso. La terza e ultima figura madrigalistica è rappresentata dall’ultimo glissando corale di ottava giusta ascendente, con tutte le voci a bocca chiusa, che potrei definire una sorta di grande “colpo di teatro” (misure 23-24). Essa rappresenta lo sviluppo e l’amplificazione, sia dal punto di vista della scrittura che poetico e retorico, dell’idea dei glissando iniziale. La spazialità del suono e lo sviluppo della scrittura corale Di questa seconda fase compositiva di Vacchi vorrei concentrare la mia attenzione su un brano assai interessante: Barôn Litrôn (1971). Si tratta di una tipica forma di ballata popolare del XVIII secolo, il cui testo in lingua piemontese, tratta le gesta del barone Karl Sigmund Friedrich Wilhelm von Leutrum (1692-1755). Essa, in particolare, narra l’episodio della visita di Carlo Emanuele III presso il letto di morte del barone a Cuneo. La centralità della narrazione diviene il rifiuto di Leutrum, in cui il barone non accetta di convertirsi alla fede cattolica; per rimanere fedele al Protestantesimo. Già nella forma monodica del brano è assai palese come il modo maggiore, che generalmente, dal punto di vista musicale e retorico, rappresenta un’idea di forza e di gioia, sia in forte antitesi con il contenuto testuale. Abbiamo, anche in questo canto, la presenza nell’incipit melodico iniziale dell’intervallo di quarta giusta ascendente caratteristico di molte ballate popolari. Così come il metro musicale ternario in 3/4 è tipico delle danze e in particolare di quelle composizioni su testi poetici che hanno avuto forte diffusione in Italia e in Francia del tardo Medioevo definite, appunto, ballate. Esse sono diffuse in Italia principalmente nell’Italia settentrionale e probabilmente le lezioni più arcaiche si trovano proprio in Piemonte. Vacchi nella realizzazione della sua interessante elaborazione corale amplifica l’aspetto dualistico presente nella maggior parte di queste forme musicali, che il noto etnomusicologo Roberto Leydi (1928-2003) nel suo interessantissimo libro I canti popolari italiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973, classifica come canzoni narrative. Come scrive Leydi a pagina 228 del libro: «Si raccolgono convenzionalmente sotto la definizione di canzone narrativa documenti fra loro assai diversi della tradizione orale, caratterizzati da un impianto polistrofico e da uno svolgimento narrativo». L’idea di dualismo è amplificata anche dalla scrittura musicale, in cui la prima figura di proposta (dux) e la seconda figura di risposta (comes) sono perfettamente complementari. Dal punto di vista armonico Vacchi alterna frequentemente il I grado (do+) e il VI grado (la-) sfruttando la possibilità data della sovrapposizione dei due gradi (accordi) e anche dall’interscambiabilità del I e del III grado della scala. L’utilizzo di una scrittura spaziale che prevede la presenza di un “coro acuto” e un “coro grave” riecheggia sia dal punto di vista armonico che strutturale la forma del doppio coro di epoca rinascimentale (Palestrina, Gabrieli, ecc.). Nella scrittura compositiva è presente l’idea di “suoni d’ombra”, che amplifica i forti contenuti musicali e testuali già presenti nella forma monodica del brano. Essa si fonde con un’idea spaziale alla Charles Ives (1874 -1954). In questo brano Vacchi utilizza una sorta di polimodalità al posto di una politonalità, che caratterizza, invece, il linguaggio di molte composizioni di Ives. L’utilizzo da parte di Vacchi un‘armonia che prevede dei collegamenti armonici non classici, ma più “antichi” quali, ad esempio, la successione dei gradi II-I oppure VI-III, contribuisce ad amplificare un’idea compositiva dai tratti arcaici. L’amplificazione dello stato d’animo è molto palese nel cambio di modo (da do+ a do-) (misure 61-83), con la presenza di una scrittura che prevede, alle voci inferiori, una ritmica basata sul seguente modulo: semiminima-croma puntata-semicroma-semiminima.

Ciò rappresenta lo sviluppo della seconda idea (soli misure 20-36). In entrambe le zone si notano delle derivazioni da forme musicali di carattere ostinato, quali ad esempio: i bassi di passacaglia o le romanesche. La scrittura finale è rappresentata da una sorta di “mosaico sonoro”, con l’inserimento di nuovi “tasselli figurali”, in cui il materiale preesistente si somma con la variazione di sé stesso. L’idea “sinfonica” finale prevede una scrittura che copre la massima estensione vocale di un coro maschile: do1-do4. In quest’ultima zona è presente lo sviluppo della figura sincopata che caratterizzava la seconda idea, con l’aggiunta di una figura onomatopeico-madrigalistica, raffigurata da una sorta di “rullo di tamburi” finali (coro II tenori) misura 124. La prima ricerca sul campo e il consolidamento della tecnica dell’elaborazione corale Tra i brani elaborati da Vacchi negli anni Settanta di particolare interesse è sicuramente La Pimpinèla (1976). Si tratta di un brano riconducibile alla forma dei canti numerativi, i quali, non di rado, venivano utilizzati anche come “canzoni a ballo”. Tali brani, infatti, assumevano anche la funzione di accompagnare le danze e come nel caso di questa variante, presentano un forte contenuto ritmico, in cui gli intercalari “ohilì ohilà” e le ripetizioni “d’amor, d’amor, d’amor” rafforzano ulteriormente l’aspetto ritmico già presente nel brano. Questa variante è stata ritrovata da Vacchi nel 1970 a Medicina, nella bassa bolognese, ma diverse varianti sono presenti anche in Romagna. Una di queste è contenuta in Francesco Balilla Pratella: Saggio di gridi, canzoni, cori, danze del popolo italiano, Bologna 1919, pp. 67-144, ad opera dello stesso Pratella (1880-1955). Il compositore e musicologo romagnolo nel 1919 scrive di questo canto in cui «vengono successivamente nominate ed esaltate tutte le parti del corpo visibili ed invisibili ai profani della bella Pimpinella d’amor=Peppinella, Giuseppina» che doveva essere «molto conosciuto in tutte le regioni del settentrione d’Italia». Vacchi nella sua presentazione al brano invece afferma: «Per quanto mi è noto, la sua diffusione è limitata alla nostra regione, giacché nessuna raccolta a stampa ne riporta altre versioni, anche simili. Inoltre per quel “Pimpinella=Peppinella, Giuseppina” credo proprio che il Pratella sia incorso in errore: nella zona di ritrovamento del canto, a Medicina, numerosi agricoltori interpellati non hanno avuto dubbi nell’identificare la “Pimpinèla” con un’erba commestibile (Poterium Sanguisorba) usata nelle insalate. Anche l’Ungarelli, nel suo Vocabolario del dialetto bolognese riporta un proverbio che dice: “L’insalè la n é bôna e la n é bela s’an i äntra la pimpinèla”. Inoltre il giovane informatore che mi scrisse di suo pugno il testo, mise accanto al titolo la precisazione: erba profumata di risaia». Si tratta di un brano in modo maggiore, con metro in 6/8, il cui l’incipit tematico è caratterizzato dell’intervallo di quarta giusta ascendente, assai frequente nelle composizioni di questo genere. Nell’elaborazione corale Vacchi fa uso di diverse figure madrigalistiche. La prima di queste è rappresentata dal glissando di quarta giusta discendente, derivato dalla forma del lamento, che viene affidato alle voci superiori, tra il levare di misura 1 e il tactus di misura 2. La scrittura iniziale prevede un andamento prevalentemente a terze parallele, in perfetta aderenza con le modalità di accompagnamento utilizzate dai cantori popolari di area emiliana. A misura 6 Vacchi utilizza una scrittura assai interessante, che prevede parallelismi di quarta e sesta tra le voci superiori. Alle misure 6 e 7, sono presenti imitazioni interne di ottava giusta inferiore (tra tenori I e baritoni) e di decima inferiore (tra tenori I e bassi), mentre a misura 11 è interessante l’impiego di una nota di volta alterata (la#) presente alla voce dei baritoni. L’utilizzo di un’ulteriore alterazione cromatica ascendente (mi-mi#) è presente alla sezione dei bassi tra misura 12 e misura 13. In questo caso il cromatismo ascendente ha la doppia funzione: espressiva e di rafforzamento della tensione. A misura 13 Vacchi utilizza anche la tecnica dello scambio delle parti tra tenori II e bassi. A misura 18 troviamo un’idea armonica molto interessante, che prevede l’utilizzo simultaneo di accordi di tonica (I grado- la-do-mi) e di dominante (V grado mi-sol-si-re-fa). Tra le misure 16 e 32 Vacchi fa uso di una scrittura di carattere strumentale ad imitazione degli strumenti a plettro. È interessante notare come l’elaboratore nella parte finale impieghi una scrittura basata sulla tecnica di accumulazione del materiale sonoro. Abbiamo inoltre un secondo forte madrigalismo sulla parola “amor”. Infine, la forte conclusione data dalla presenza di una cadenza perfetta è contrastata dalla proiezione delle voci superiori nel registro acuto, che contribuisce a far diminuire il carattere conclusivo del brano. Gli anni ottanta, lo sviluppo della ricerca musicologica e della tecnica compositiva Tra le elaborazioni di Giorgio Vacchi che maritano particolare attenzione c’è sicuramente Ieri mi maritai (1982). Ritrovato a Monghidoro, in provincia di Bologna, da Arrigo Montanari nel 1980, ha come informatrice Maria Grillini. Si tratta di un interessante lavoro in cui l’elaboratore utilizza nuovamente la tecnica d’accumulazione delle voci, un espediente compositivo, che dal punto di vista musicale e acustico, ha la funzione di creare un forte aumento della tensione musicale. Nella zona iniziale (misure 1-20) Vacchi impiega alcune figure caratteristiche del proprio stile quali: un ostinato affidato alla voce dei baritoni ed un pedale di tonica (sol) alla sezione dei bassi. L’utilizzo di tali figure tende ad amplificare il carattere cullante di questa ninna nanna. La scrittura iniziale prevede andamenti prevalentemente paralleli, ad imitazione della modalità spontanea d’esecuzione del canto popolare dell’Appennino bolognese. L’idea del “cullare” è in netto contrasto con le argomentazioni testuali: di forte tensione sociale ed interiore. Tra le voci dei bassi e dei baritoni è presente l’alternanza di intervalli di quinta giusta (sol-re) e di sesta minore (sol-mi), mentre alla voce del tenore I, misure 4-7 e misure 9-12, è affidato un pedale di dominante (re). Anche alle misure 13-14 e 16-18 Vacchi utilizza una scrittura che prevede parallelismi di quinte giuste (tra bassi e baritoni), probabilmente per mantenere una continuità di linguaggio con la zona precedente. A misura 21 è presente un forte cambio di scrittura: con l’affidamento del tema alla voce del basso e una velocizzazione dei valori ritmici. In questa zona l’elaboratore utilizza una scrittura maggiormente omoritmica, con la presenza di parallelismi di quarte, quinte e quarte e seste. Sembra chiara la derivazione di questo modus operandi da alcune tecniche contrappuntistiche antiche, quali, ad esempio, il discanto o falsobordone. Sul terzo ottavo di misura 26 Vacchi impiega un accordo molto particolare: la quintiade di dominante con la nona maggiore al basso. A proposito di questo accordo Arnold Schönberg (1874-1951) nel suo celebre Trattato di Armonia scrive: «Non capisco perché i trattatisti si ostinino a negare la possibilità di utilizzare l’accordo di dominante con la nona al basso che è di grande effetto in entrambi i modi». Nel finale del brano abbiamo un’idea molto forte, quasi “organistica”; o meglio l’utilizzo di un triplo pedale di tonica e dominante (sol-re-sol), misure 32-35 affidato a bassi, baritoni e tenori II, che tende ad aumentare l’aspetto conclusivo del brano. Verso la “nuova via del suono” Tra i brani di argomento religioso elaborati da Vacchi negli anni Novanta di particolare interesse è Magnificat (1991). Si tratta di un canto assai antico in lingua latina ritrovato a Castiglione dei Pepoli, in provincia di Bologna, da Mario Cassarini. Nell’elaborazione per coro maschile Vacchi utilizza una scrittura prevalentemente omoritmica, come nella forma del Corale luterano. In tutto il brano è forte la presenza di dissonanze e note estranee all’armonia, quali note di passaggio, appoggiature e anticipazioni, in “un atteggiamento compositivo” tendenzialmente polifonico. Tra la fine di misura 3 e l’inizio di misura 4 Vacchi utilizza una cadenza plagale (IV-I) dal “colore antico” che proietta l’ascoltatore in una sonorità ancestrale. Alle misure 7-10, l’elaboratore impiega una modulazione transitoria al VI grado, tramite una sostituzione di grado, che porta ad un momentaneo spostamento dalla tonalità d’impianto (fa+) al suo relativo minore (re-). Nella zona centrale, misura 17, Vacchi utilizza una scrittura molto particolare. Il tema gregoriano viene affidato a cantori solisti (idea di chierici o sacerdoti), mentre al coro è affidata una scrittura musicale di carattere strumentale, ad imitazione della sonorità dell’organo a canne (idea del popolo orante). Nella zona finale, misure 18-24, sono presenti alcune interessanti idee. Una è rappresentata dalla scrittura omoritmica e omofonica in cui due/quattro linee si allargano in direzione contraria, coprendo un’ampia tessitura vocale (fa1-do3). L’altra è rappresentata dall’impiego, in relazione all’idea precedente, di una scrittura musicale che prevede l’utilizzo di due figure retoriche contrastanti. La prima figura retorica l’anabasi (ascesa) è presente alle voci superiori, mentre la seconda figura retorica la catabasi (discesa) è affidata alla voce dei bassi. L’impiego da parte dell’elaboratore di una scrittura musicale di carattere descrittivo è fortemente connesso ad alcuni aspetti retorici, già presenti nella forma monodica del brano. In particolare, nella scrittura paiono emergere due idee in forte antitesi tra di loro. La prima è rappresentata dalla direzione ascendente delle voci superiori (tenori e baritoni) in cui emerge l’idea dell’aspirazione dei fedeli al raggiungimento di Dio (anabasi). La seconda idea, invece, è raffigurata dalla direzione discendete della sezione dei bassi, in cui viene simboleggiata la volontà di Dio di proceda verso i fedeli (catabasi). La conclusione del brano avviene in assenza della cadenza perfetta e in terza posizione melodica (quinta, do ai tenori primi) ed è perciò abbastanza sospesa. Gli anni novanta e l’indispensabile passaggio alla vocalità a voci miste – Giorgio Vacchi “verso il sinfonismo corale” Tra le ballate popolari elaborate da Vacchi agli inizi degli anni Novanta di grande interesse è sicuramente: La rondine (1992). Si tratta di una canzone popolare, probabilmente un canto lirico-narrativo, assai diffuso in Piemonte; ma diverse varianti di questo brano sono presenti anche nel piacentino. Proprio da Vernasca, in provincia di Piacenza, arriva questa variante, ritrovata nel 1974 e presente in Nicola Iannone, Ballate della raccolta Nigra note nella provincia di Piacenza, Arnaldo Forni Editore, Bologna 1989, pagina 123. In Italia il tema della “La Rondine importuna” si è diffuso principalmente nelle regioni settentrionali e centrali, anche se qualche variante è rintracciabile anche in Calabria e in Sicilia.

Roberto Leydi, ad esempio, rintraccia il tema nel Codice magliabechiano strozziano in una poesia del XVI secolo, mentre Costantino Nigra (1828-1907) nella sua antologia Canti popolari del Piemonte (1888) riconduce il canto ad un’origine letteraria urbana e ad una provenienza dall’Italia centrale; in relazione delle desinenze parossitone dei versi. Per procede ad un’analisi sistematica di questa elaborazione corale ho diviso il brano in tre parti. Nella prima zona formale A1 (misure 1-4) ai bassi è affidato un pedale di tonica (fa), mentre nella seconda zona A2 (misure 5-13) una scrittura tendenzialmente omoritmica. La prima idea madrigalistica compare sul motivo parola “stanza”, dove è presente l’utilizzo della dissonanza di seconda minore, che armonicamente diviene una settima maggiore. La seconda idea madrigalistica è presente sul motivo parola “signora”, con l’utilizzo di un bicordo di quinta giusta vuota, a sancire la prima conclusione. Alle misure 1-3 (tra soprani e contralti) sono presenti bicordi di terze parallele, ed anche parallelismi di quarta giusta (misura 3 tra soprani e contralti). Da misura 5 a misura 13 Vacchi utilizza una scrittura tendenzialmente omoritmico-omofonica. Segue quindi la seconda zona formale che chiamerò B. In questa zona (misure 14-23) assistiamo al primo sviluppo e variazione del materiale esposto nella zona A (misure 1-13), con l’impiego nelle tre voci superiori di una scrittura di accompagnamento basata su parallelismi di 4 e 6 (secondi rivolti). Il tema è affidato alla sezione dei baritoni, mentre i bassi procedono con il seguente schema: tonica I grado (fa), dominante V grado (do), IV grado sottodominante (sib), tonica I grado (fa), dominante V (do), tonica I grado (fa). Particolare è l’utilizzo da parte di Vacchi del collegamento armonico V-IV, bandito nell’armonia classica e invece assai frequente nei bassi delle Villotte alla Padoana o nella forma della Gagliarda. Nella terza ed ultima zona formale C abbiamo il secondo sviluppo e variazione della zona A (misure 24-33), in cui alle voci femminili, l’elaboratore affida, prevalentemente, procedimenti paralleli di terze. Alle misure 24-33 Vacchi riutilizza la tecnica compositiva dello scambio delle parti (s/c/t con t I/t II/br), già impiegata in alcuni brani già precedentemente analizzati. Infine, tra misura 28 e 29 il compositore impiega una cadenza plagale (IV-I), dal “sapore arcaico”, che precede la cadenza perfetta (V-I) che conclude il brano. La vocalità feminile e la sperimentazione di un nuovo suono corale Tra le elaborazioni per coro femminile scritte da Giorgio Vacchi negli anni Novanta, di grande interesse è sicuramente: Il gargiolaio (1995). Si tratta di un canto popolare, in modo maggiore e in tempo binario, il cui informatore è lo stesso Vacchi, (Bologna 1994). Scorrendo il testo della prima strofa si può già intuire la durezza del contesto: “La mî mâma la dîs acsé che bèla fiôla ch’a i ò mé an la vói brîsa dèr a un malnàtt d un garzulèr”. “La mia mamma dice così: che bella figlia che ho io non la voglio dare a un malnetto garzolaio”. Nel brano sono presenti quattro idee principali. Nell’idea n.1 (misure 1-8), è presente una scrittura che prevede l’utilizzo di cantori solisti, in perfetta aderenza alla tipologia di canto popolare emiliano. L’impiego da parte di Vacchi di una scrittura che prevede l’utilizzo di due voci soliste, inoltre, pare simboleggiare il doppio dualismo tra la mamma e la figlia e quello tra la mamma e il gargiolaio. Tale idea si fonde con una sonorità moderna, in cui l’elaboratore impiega diverse dissonanze, quali ad esempio il bicordo di seconda maggiore (la-sol) presente sul secondo quarto di misura 3. Questi parametri vengono amplificati dalla richiesta da parte del compositore di una vocalità aderente a quella del canto spontaneo di area emiliana, che ha alcuni tratti comuni con quella utilizzata delle cantrici popolari bulgare. Nell’idea n.2 (misure 9-16), l’elaboratore aggiunge una terza voce (soprani I) che si basa principalmente sul rapporto dominante/tonica (la-re), mentre nell’idea n.3 (misure 17-32) è presente un notevole sviluppo della scrittura musicale; con l’impiego da parte di Vacchi di chiare figure madrigalistiche, di dissonanze o di procedimenti accordali di quarta e sesta. Formalmente, alle misure 31-32, si ha una forte cesura, data, allo stesso tempo, dalla presenza di una cadenza perfetta e dalla forte conclusione sull’unisono (idea di vuoto). Con questo procedimento il compositore vuole enfatizzare la conclusione stessa che avviene proprio sul motivo parola “garzulèr”. Segue quindi l’idea n.4 (misure 33-44), in cui il compositore crea, tramite un forte cambio di scrittura, una chiara velocizzazione ritmica. La cadenza autentica (V-I), presente alle misure 39-40, è preceduta da una cadenza plagale (IV-I), alle misure 37-38. Segue poi alle misure 41-42 un’ulteriore cadenza perfetta V-I. Nell’ultima conclusione, invece, Vacchi utilizza un procedimento armonico che non prevede la cadenza autentica V-I, con il suo caratteristico salto di quarta giusta ascendente o quinta giusta discendente, ma bensì un collegamento per grado congiunto, con i bassi che procedono secondo il concetto schönberghiano della “via più breve”. Ne risulta una conclusione debole, ancor più “indebolita” dall’improvviso slancio delle voci superiori verso l’alto e dalla presenza ai soprani I della seconda posizione melodica, terza dell’accordo (fa#). La nuova ricerca sul campo e il consolidamento della scrittura corale a sei voci miste Tra le elaborazioni più interessanti e sofferte di Giorgio Vacchi troviamo sicuramente La Canapa (2001). Si tratta di un canto di lavoro ritrovato da Paolo Bernardini nel 1979 a Gàggio Montano, anche se l’informatore Gaetano Finelli era nativo di Anzola dell’Emilia in provincia di Bologna. Il brano è in modo maggiore e in tempo binario (4/4) ed è caratterizzato da una forte aspetto ritmico, tipico dei canti popolari di lavoro. La composizione, dal punto di vista strutturale e dell’elaborazione, è organizzata in maniera che ciascuna strofa sia presentata in una diversa tonalità. Lo schema prevede due passaggi modulanti: strofa n.1 (misure 1-30) tonalità d’impianto (do maggiore), strofa n.2 (misure 31-58) tonalità di re maggiore, strofa n.3 (misure 61-92) tonalità di mi maggiore. Si tratta di una tecnica compositiva che prevede lo spostamento verso l’alto dello stesso materiale musicale, tramite una serie di modulazioni improvvise alla seconda maggiore ascendente. Questa composizione prevede la presenza simultanea di tre temi: il tema 1 è affidato ai bassi (misure 4-30); il tema 2 ai tenori I (misure 13-30) e il tema 3 ai soprani (misure 22-30). L’incipit di questo tema (sol-do, quarta giusta ascendente) rappresenta l’inversione della testa tematica del tema 1 (do-sol, quarta giusta discendente). L’idea del cambio di tonalità improvviso verso l’alto alla seconda maggiore, assai utilizzato anche nella musica leggera degli anni Settanta e Ottanta, amplifica il clima teso, già insito nel brano. Il secondo cambio di tonalità verso l’alto contribuisce ad un’ulteriore accumulazione della tensione. La coda finale (misure 87-92) ha come funzione principale quella di far dipanare la tensione accumulata in precedenza. In questa zona Vacchi utilizza un doppio pedale di tonica (mib, soprano I/tenore I) mentre alla sezione dei bassi sono presenti numerose dissonanze, quali, ad esempio, le settime di passaggio. La conclusione del brano non è caratterizzata da una vera cadenza autentica (perfetta), per cui la conclusione stessa risulta essere abbastanza debole. Le ultime elaborazioni e “l’intimismo corale” Tra le elaborazioni che Giorgio Vacchi scrive nell’ultima parte della sua vita è assai rilevante Preghiera del mattino (2016); che rappresenta anche l’ultimo lavoro del musicista bolognese. Si tratta di un canto popolare di argomento religioso, in modo minore e in tempo ternario (3/4), ritrovato a Rocca Corneta di Lizzano in Belvedere, nell’Appennino bolognese, da Paolo Bernardini nel 1995 la cui informatrice Franchi Gioconda fu cantrice assai prolifica. L’incipit tematico è caratterizzato dalla presenza dell’intervallo di quarta giusta ascendente, che, come già abbiamo notato in altri brani, è assai frequente nelle forme musicali popolari dell’area appenninica bolognese. La scrittura è tendenzialmente omoritmica, con la presenza anche di emiolie (passaggi da una suddivisione binaria ad una ternaria). Il compositore attinge questa modalità di scrittura sia alla forma del Corale, che anche dalle parti omofoniche presenti in numerose composizioni polifoniche di autori rinascimentali. Nella zona introduttiva (misure 1-7) l’elaboratore utilizza un ostinato di quarta giusta ascendente, che deriva direttamente dalla testa del tema stesso (la-re). L’ostinato viene poi ripetuto tre volte. È molto probabile che il compositore abbia attinto l’idea della triplice ripetizione dal concetto simbolico della Santissima Trinità, caratterizzata proprio da tre figure: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Alle misure 8-10 il tema è affidato prima ai bassi per poi passare ai baritoni, sul secondo quarto di misura 12 fino a misura 16. Quindi il tema viene affidato ai soprani (misura 17 con levare, fino a misura 65). Il linguaggio di questo brano, che definirei intimista, prevede diversi procedimenti cromatici, di carattere “patetico”. La prima modulazione, tramite alterazione cromatica ascendente, è presente ai tenori alla misura 35 (do-do#). Segue poi una seconda modulazione, assai interessante, tramite alterazione cromatica discendente indiretta tra i tenori e i baritoni alle misure 38-39 (si-sib). Ne segue quindi una terza dello stesso tipo tra soprani e baritoni, misura 46 (la-lab). Abbiamo poi un’ulteriore modulazione, tramite alterazione cromatica ascendente, affidata ai tenori alla misura 47 (mib-mibeq.). L’ultima modulazione sempre tramite alterazione cromatica ascendente è presente ai tenori alla misura 50 (fa-fa#). È interessante notare come l’elaboratore non impieghi i procedimenti cromatici, sia ascendenti che discendenti, con una chiara idea di direzionalità, come ad esempio avviene in Bach, ma bensì con funzioni maggiormente ornamentali ed espressive. Alla misura 56 Vacchi utilizza, come già visto in altre partiture analizzate in precedenza, la tecnica dello scambio delle parti, tra soprani e baritoni, tecnica già ampliamente praticata dai polifonisti di epoca rinascimentale e anche dallo stesso Bach. Nell’ultima zona sono presenti due elementi caratteristici: un pedale di tonica (re) affidato ai soprani e la ripresa del tema che viene riesposto, però, diviso tra le voci estreme. La prima parte del tema è affidata alla sezione dei bassi (misure 66-69) e la seconda parte a quella dei soprani (misure 70-74). Ai bassi alle misure 69-74 è affidato, invece, un pedale di tonica, con la sillabazione del testo. Un esempio di chiaro madrigalismo è presente nella conclusione della composizione, sul motivo parola “Paradis”, con l’utilizzo, nella voce del tenore, della terza piccarda (fa#) di bachiana memoria. In estrema sintesi si può affermare che Giorgio Vacchi, nelle sue interessanti elaborazioni corali, tramite il sapiente utilizzo, nella scrittura musicale, di un’armonia e di un contrappunto perfettamente aderenti ai temi dati, sia riuscito nell’intento di amplificare lo stato d’animo e il carattere già presenti in ciascun canto nella forma monodica. Si tratta di un modus operandi che porta la scrittura aggiunta al tema o ai temi dati, a divenire una sorta di amplificazione di ciascuno dei parametri già presenti nel canto popolare dato, quali il carattere, il ritmo, la dinamica, l’agogica, ecc… Si può così affermare che Giorgio Vacchi, sia stato molto più di un elaboratore corale, ma bensì un geloso custode di un “mondo perduto”, un autentico “creatore di magie sonore”, oltre che un generoso ed instancabile amante e divulgatore dell’arte corale.