(1873-1943)

La produzione corale di Sergej Rachmaninov è circoscritta agli anni giovanili e comunque risale, tranne in un caso, a prima dell’esilio che, a causa della Rivoluzione d’Ottobre, vide il musicista migrare prima in Europa e poi negli Stati Uniti. Consta di un numero non cospicuo di composizioni, per lo più per coro a cappella a cui vanno aggiunte tre composizioni per coro e orchestra: Primavera (Vesna), 1901, su testo di Nikolaj Nekrasov per baritono, coro e orchestra, op. 20; Le campane (Kolokola), 1913, sinfonia corale per soli, coro e orchestra, su testo di Constantine Balmont (da Poe), op 35; Tre canti russi per coro e orchestra su testi popolari russi, op. 41, composti nel 1926, durante l’esilio americano. Tra le composizioni a cappella, accanto a opere minori, senza numero d’opera, scritte intorno ai vent’anni, significative, tuttavia, di un interesse per la scrittura corale senza accompagnamento1, si registrano due assoluti capolavori, sebbene poco conosciuti soprattutto in Occidente: la Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, op. 31 del 1910 e il Vespro in memoria di S. Smolenskij (nota anche col nome di Veglia per tutta la notte) op. 37 del 1915, entrambi per coro misto a cappella. Tracciando un rapido profilo di questo breve itinerario si possono fare alcune scoperte interessanti, tra cui l’identificazione di quella che possiamo chiamare “anima russa” proprio nel canto e precisamente nel canto corale. Rachmaninov che nelle sue prime composizioni sinfoniche e per pianoforte si era orientato verso le forme classiche della tradizione mitteleuropea sulla scia dell’adorato Ciaikovskij, ponendosi a distanza dalle ricerche dei compositori aderenti al “Gruppo dei cinque”, interessati a ritrovare, in opposizione alla musica occidentale, le radici russe, nel riconsiderare in queste opere corali il canto popolare e liturgico pare non solo ritrovare  le proprie autoctone radici, ma anche maturare uno stile molto personale che lo assolve in pieno dai giudizi negativi che la critica fin da subito gli tributò come autore di sinfonie e di musica per pianoforte. Rachmaninov nell’esilio ottenne fama e successo popolari, soprattutto negli Stati Uniti, dove fu acclamato come pianista dotato di eccezionali qualità virtuosistiche e come direttore d’orchestra. I suoi quattro concerti per pianoforte e le sue tre sinfonie, scritte in parte prima del 1917, la sua copiosa produzione pianistica trovarono fuori dalla Russia quella considerazione che in patria gli fu negata anche in ragione del suo allontanamento da un Paese che dopo la rivoluzione bolscevica cominciò a esercitare un forte controllo su ogni manifestazione artistica, considerata in una prospettiva strettamente comunista. Se il consenso popolare e commerciale fu considerevole, non altrettanto quello della critica che fu molto severa tacciandolo di epigonismo tardoromantico, scarsa originalità ed eccessivo conservatorismo, in un epoca in cui la sperimentazione in campo linguistico vedeva punte avanzate anche tra i suoi conterranei e coetanei, vedi Prokofiev o Skrjabin. È indubbio, pertanto, che la carriera pianistica e i successi raggiunti abbiano influenzato la sua attività compositiva, ben avviata sulla riproposizione conservatrice dello stile tardoromantico, e abbia messo in ombra settori rilevanti della sua produzione, tra cui proprio le pagine corali, meno coinvolte in quegli aspetti osteggiati dalla critica.

In queste composizioni, principalmente nei due capolavori a cappella e nei Tre Canti russi, Rachmaninov è per così dire costretto a fare i conti con due tradizioni assolutamente autoctone quali il canto liturgico della chiesa russo-ortodossa e il canto popolare. L’accostarsi al canto monodico bizantino lo obbliga a mettere da parte quella magniloquente ridondanza propria della sua produzione sinfonica, così come l’estroversione virtuosistica della scrittura per pianoforte. Anche la scelta dei testi, con l’eccezione del mottetto in latino, privilegia la lingua russa con testi sia letterari, ma soprattutto popolari e in tre casi, appartenenti alla liturgia russa ortodossa. Ciò definisce un contesto espressivo orientato al sacro e al rito o alla sensibilità popolare che richiede scelte stilistiche in grado di creare situazioni di oggettività, di distanza e al tempo stesso di coinvolgente fascinazione come i riti solenni della mistica liturgia ortodossa. In entrambi i casi il compositore, confrontandosi con la tradizione del canto monodico bizantino, spoglio ed essenziale, con la semplicità melodica e armonica del canto popolare e comunque con scale e modi estranei alla tonalità, mette a punto uno stile personalissimo con il quale va a riallacciarsi, per altre strade, a quella tradizione russa che altri compositori avevano posto al centro dei propri interessi e che egli, sulla scia di Ciaikovskij, aveva eluso. Si può osservare, tuttavia, che al di là delle sbrigative schematizzazioni della storia, lo stesso Ciaikovskij, animato da irrisoti turbamenti religiosi, aveva pure musicato nel 1878 la Liturgia di San Giovanni Crisostomo proprio con l’intento di far rivivere gli antichi canti della tradizione ortodossa. È indubbio che l’esilio americano, nonostante ricchezza e fama, abbia creato una frattura nell’uomo e nell’artista, lasciandogli quel senso di nostalgia più volte testimoniato, ma soprattutto tacitando quell’”anima russa” così felicemente feconda nelle pagine corali e coltivata per l’ultima volta nei Tre canti russi.

Alcune osservazioni su uno dei due capolavori a cappella, la Liturgia di San Giovanni Crisostomo, già affrontata dall’amato Ciaikovskij, circostanza che non può essere solo casuale, può chiarire le caratteristiche di questo Rachmaninov poco noto. Il San Giovanni Crisostomo del titolo è Giovanni d’Antiochia, vescovo, teologo e grande predicatore, da cui l’epiteto chrysóstomos, “bocca d’oro”, in greco antico. Nato nel 345 fu il primo a dare un’organizzazione formale alla liturgia delle chiese ortodosse d’Oriente, all’interno della quale la liturgia di San Giovanni Crisostomo (tradotta dal greco in lingua paleoslava probabilmente dai santi Cirillo e Metodio), riveste un ruolo centrale, corrispondente nel rito romano cattolico alla Liturgia della Parola e alla Liturgia Eucaristica, ovvero alla Messa. Rachmaninov si accostò al canto monodico bizantino per il tramite di Aleksandr Kastalskij, allora il massimo esperto in Russia di musica liturgica antica e responsabile di una importante opera riformatrice che proclamava il ritorno alla purezza e alle fonti primigenie del canto ortodosso. La sua consulenza durante la composizione della Divina Liturgia fu fondamentale nella definizione della struttura testuale che, pur nel rispetto della tradizione, presenta aggiunte tagli e interpolazioni che si discostano in alcuni passi dal testo canonico. Composta nell’estate del 1910 nella residenza di Ivanovka, dopo una lunga ed estenuante tournée negli Stati Uniti, quasi a voler ritrovare, a contatto nuovamente con la sua terra e nella pace della campagna russa, una propria identità, riservò al compositore grande soddisfazione anche contro ogni sua aspettativa; una vera e propria epifania che gli si andava rivelando attraverso la conoscenza dell’antico canto corale. La scritta di sapore bachiano, Slava Bogu (Grazie a Dio), alla fine del manoscritto autografo, conferma il trasporto e la passione inaspettati da parte di un ortodosso poco convinto e non praticante quale Rachmaninov era. La composizione è suddivisa in venti brani che si discostano in parte dalla struttura liturgica canonica, articolata, invece, in una quindicina di sezioni ed è scritta per un coro a quattro voci miste, aumentate in tre casi a otto, in doppio coro. A differenza dei Vespri op. 37, basati su antiche melodie della chiesa ortodossa, il materiale melodico, pur ispirandosi al canto bizantino e in particolare alle intonazioni della chiesa russa ortodossa è reinventato da Rachmaninov. La prima esecuzione avvenne il 25 novembre 1910 con il Coro Sinodale di Mosca diretto da Nikolaj Danilin, ma in seguito le autorità ecclesiastiche ne proibirono l’utilizzo per la liturgia ritenendola troppo soggettiva e non consona alle esigenze del rito sacro.

Tale contraddizione, peraltro insita in ogni composizione pensata per la liturgia, ma riscritta nel segno della propria individuale creatività, si pensi alle Messe di Mozart o al Requiem di Verdi, tacciati di teatralità e ritenuti inadeguati alla funzione religiosa, nel caso di Rachmaninov va corretta nel senso che nella Divina Liturgia, così come nelle opere corali menzionate, avviene il contrario, ovvero lo studio e l’assimilazione dell’antico canto influisce sul suo stile depurandolo di quella ridondanza, oggetto degli strali della critica e agendo nel segno di un significativo rinnovamento linguistico. I punti salienti della composizione si riconoscono in pagine caratterizzate da una estrema semplicità nell’impiego dei mezzi musicali, come ad esempio nella sezione Lodato sia il Signore dai cieli in cui il canto dell’alleluia si esprime nei termini di una gioia sommessa, intima, un dire quasi sottovoce che gradualmente si espande e pervade il mondo circostante; un unico accordo che rimbalza tra le sezioni del coro come il rintocco di una campana; quelle campane tanto amate da Rachmaninov per il loro richiamo suggestivo, tanto da divenire un tratto distintivo della sua poetica, spesso ricorrente anche nelle pagine pianistiche e sinfoniche, vedi l’emblematica sinfonia corale, Kolokola (Le Campane). Le brevi sezioni soliste del celebrante, divise tra tenore e basso profondo, fanno da suggestivo trait d’union tra una sezione e l’altra, spezzando il tessuto corale con grande impatto suggestivo. Rachmaninov metabolizzando la staticità del rito, la sua forza suggestiva, la sua mistica solennità reinventa il proprio linguaggio e da conservatore si fa innovatore attraverso l’antico.