La locuzione “canto popolare” l’abbiamo appresa a scuola o in famiglia; a scuola, se edove abbiamo incontrato, per nostra fortuna, un docente interessante ed esperto dell’argomento, e anche, capace di farci apprezzare questo filone della musica e di farcela praticare da giovanissimi, o più avanti, da meno giovani. Sepoi abbiamo desiderato progredire nello studio della musica, abbiamo potuto associare al la musica storia, l’etnologia, le scienze sociali, umanistiche, la danza, il teatro (e la lista potrebbe essere lunga) e possiamo aver raggiunto un certo grado di competenza. In ogni caso ho parlato di “studio” e ciò per me è un aspetto essenziale per la formazione della persona. Tengo molto a sottolineare l’importanza e il ruolo della scuola di ogni livello, per l’educazione musicale e, in prospettiva più lunga, per suscitare vitali energie nei giovani perché possano godere delle bellezze della musica e farne mezzo, magari inconscio, di educazione civile, psicologica, di scienza ed arte, per la salvaguardia delle tradizioni. Questi argomenti sono esposti nel fascicoletto Validità Del Canto Corale, introduttivo alla stesura del libro “Cantar Leggendo” del Maestro Roberto Goitre. Andando ora più vicino al significato del titolo dell’articolo, dirò, in base alla mia esperienza, che il canto popolare regionale è materia di molti cori, alcuni dei quali ancora oggi riescono a prendere (leggi: ascoltare, registrare, usare vocalmente) melodie vive del passato, ricordate da anziani, con l’intervento di persone (generalmente un musicista, spesso il direttore del coro) in grado di mutare questo esito canoro in un brano da eseguire in coro. Altri cori utilizzano, come il Coro Sette Torri, da me diretto, canti del passato composti da famosi musicisti, quali Kodály, Sinigaglia, Bàrdos oppure canti composti da musicisti viventi di chiara fama, tra i quali cito Paolo Bon, Javier Busto, Elena Camoletto, Mauro Zuccate, Davide Cantino, Roberto Padoin, Corrado Margutti. Autori famosi ed affermati, perché le opere artistiche….. giovano alla salute di più delle opere mediocri, e ciò, a mio parere, non vale soltanto per i canti popolari. Per la ricerca delle fonti originali regionali affermo che in certe regioni il lavoro di raccolta e di utilizzazione dei canti popolari è più agevole e produttivo che in altre, perché negli anni, la tradizione si è conservata più viva ed apprezzata ed anche perché le istituzioni pubbliche (la scuola, le associazioni Pro Loco, le amministrazioni comunali, provinciali, regionali ecc.) la sostengono in modo più convinto e concreto. E’ ancora accettato da quasi tutti che cantare “bene” è una modalità conveniente, anche se non è il caso di dettagliare tanti particolari. Insisto pertanto che occorre “studiare” per cantare bene, come occorre studiare per svolgere mille altre attività della vita. Nei Concorsi corali, quasi sempre, si chiede di essere intonati, di avere un gradevole timbro vocale, di rispettare i canoni stilistici, di essere espressivi. Molti cori organizzano o frequentano corsi di vocalità, fotaffermati e propagandati ai diversi punti cardinali del globo terrestre; frequentano seminari di svariati argomenti, vuoi relativi a periodi storici della musica, dagli antichi agli ultra moderni, vuoi relativi a particolari musicisti. Molti cori ascoltano spesso altri cori, per imparare, per confrontare, per ampliare le capacità di giudizio, per prendere spunti interessanti da imitare, per rivedere amici e trascorrere momenti piacevoli insieme. Tutto questo lavorio di preparazione, di affinamento, che può durare anni, tende al migliore sviluppo della persona, alla individuale realizzazione. Armonizzazione ed elaborazione del canto corale popolare: metodi a confronto Si parte da una canzone e si ottiene alla fine un pezzo polifonico. Può essere molto divertente questo lavoro, avendo un buon orecchio musicale, sfruttando appieno le conoscenze del contrappunto. La melodia è associata ad un testo ed il testo ha una grande importanza, perché fonte di idee, spesso di tante idee. La melodia mentre è resa polifonia acquista delle libertà, si riveste di colori musicali, può persino accogliere qualche incertezza di intonazione o ritmica della fonte originale. In certi casi può essere utile usare tempi irregolari, procurando qualche difficoltà agli esecutori ma esprimendo un tocco aggiuntivo di creatività. Certamente l’occhio rimane consapevolmente attento alle possibilità del coro esecutore per cui la nascente polifonia può essere irta di difficoltà solo se il coro esecutore è di alto livello; quasi mai conviene approntare pezzi troppo difficili, con possibile perdita di efficacia. Nell’economia del coro può ancora essere fruttuoso, a scopo didattico, fare sperimentazioni di invenzioni ritmiche e armoniche speciali, inconsuete. A volte può essere interessante inserire voci recitanti singole o dialoganti, per creare momenti riassuntivi, e/o teatralizzanti, e ciò può avvenire tenendo presente che l’informatore originale quasi mai è un coro. In tal modo si rende più attraente il cantare, soprattutto per i cantori giovani. A questo punto riporto delle interessanti annotazioni di un compositore, che conosco da una diecina d’anni, Davide Cantino, col quale il coro Sette Torri ha collaborato. Armonizzare, eleborare e… madrigalizzare? Il diploma di Musica Corale e di Direzione di Coro richiede sette anni durante i quali il discente analizza pazientemente i sacri testi della polifonia, quelli di Palestrina, Marenzio, Monteverdi, per citare i più noti, al fine di acquisire una tecnica contrappuntistica che gli permetta di imitare il loro stile; lo scopo non è però tanto quello di imitare lo stile dei classici, quanto piuttosto quello di imparare a scrivere per coro. E qualcuno dei diplomati impara effettivamente a scrivere, più o meno bene, per coro, ma siccome in tale apprendimento si usa – e giustamente – come modello i classici sopraccitati, alla fine del corso di studio, questi diplomati escono dal Conservatorio con l’idea che lo stile della musica corale sia lo stile polifonico e che lo stile polifonico sia innanzitutto quello della musica sacra, la polifonia per eccellenza, senza considerare che la polifonia non fu solo, nel magico periodo della vocalità rinascimentale, quella del Mottetto, ma anche, e non di meno quella del Madrigale eminentemente, cioè della musica profana… La conseguenza deteriore di questa forma mentis inculcata nei diplomati in “Musica Corale” è quella di considerare musica corale solamente la Polifonia, laddove per polifonia si intende quella sacra (e profana) del Rinascimento e quella di tutti i compositori (anche contemporanei) che hanno saputo (o sanno), in qualche modo, riprodurre lo stile della vocalità polifonica. Che posto può trovare, in questo panorama, il cosiddetto genere popolare? A dire il vero non lo può trovare! Può crearsi la convinzione che popolare equivalga a leggero e polifonico equivalga a classico, e siccome la musica classica è degna di passare alla storia, chi passa al popolare esce dalla storia. Sembra una conclusone affatto logica. Ma conviene esplicitare la parola “popolare”. Prima di tutto è l’espressione genuina del popolo, e su ciò dovremmo essere tutti d’accordo. Popolare è stato (e sempre meno è) un cantare spontaneo ed incolto di testi tradizionali, cioè essenzialmente “tramandati”. Possiamo pensare ragionevolmente che queste esecuzioni spontanee non possono che avere una esistenza temporalmente limitata, anche se ancora, in zone territorialmente limitate, sussistono. E poi, una forma di esecuzione deve lasciare forzatamente passivi studenti che hanno dedicato anni di studio alla musica? E non sarà certo qualche armonizzazione ben fatta a far entrare il popolare nella storia della musica. Se si afferma la visione secondo la quale “fa storia” solo ciò che è colto e se il “popolare” vuole rimanere “incolto” allora non può pretendere di avere le attenzioni del mondo colto. Qualche diplomato in “musica corale” ha pensato di dare al popolare il diritto di cittadinanza nel mondo della musica colta facendolo passare al vaglio della cosiddetta elaborazione, ma anche questo è un escamotage: il popolo del popolare lavorava, ma non elaborava, nel senso che i suoi canti potevano anche essere canti di lavoro, ma non lavoro sui canti. Poi, elaborare è più deviare, è più trasformare che tramandare perché, come è noto, l’elaborazione aggiunge al canto popolare elementi estranei introdotti dallo stesso compositore che elabora. Quindi, armonizzare è poco, elaborare è troppo. Bisogna trovare una soluzione che consenta al popolare di essere tramandato senza essere tradito. E siccome i soggetti che lo tramandano sono sempre meno numerosi –mi riferisco alla gente del popolo che ancora canta – è necessario affidare questa tradizione alle cure degli addetti ai lavori, cioè a quei diplomati in musica corale, che non sanno bene come trattarlo. Escludiamo pertanto l’armonizzazione, escludiamo l’elaborazione. La madrigalizzazione potrebbe essere la soluzione. Va spiegata , con i tempi necessari e con la calma necessaria, ma essa potrebbe far entrare il popolare nella storia della musica (ovviamente colta, cioè classica). L’entrata del popolare nella storia può avvenire se i diplomati in musica corale saranno disposti a mettere al servizio delle melodie della musica incolta tutte le tecniche polifoniche della musica colta. La melodia popolare non va toccata, non deve subire modificazioni, ma può essere trattata a mo’ di cantus firmus, così come il canto gregoriano veniva trattato ai bei tempi della nascita della polifonia… Il canto popolare dovrebbe essere come la pietra angolare di una nuova “storia” della polifonia. Il canto popolare si esaurirà abbastanza presto, anche se non lo vorremo e ci dispiacerà; un modo di salvarlo è sradicarlo dall’incolto per trapiantarlo nel colto: se ne potrà fare una coltura, assonante, non a caso, con cultura. In altri termini l’esecuzione incolta è canto popolare “in diretta”, mentre l’esecuzione colta è canto popolare “in differita”. Certo, la diretta è preferibile alla differita, ma, se i tempi non lo permettono, ben venga anche la differita; per l’equivalente sportivo mancherà il trasporto ed il coinvolgimento della diretta, ma rimarrà un documento utilizzabile con gradimento, con possibilità di rinnovate emozioni. E proseguendo con queste considerazioni di filosofia corale possiamo dire che il canto popolare è quel fascino della diretta, con il quale è nato ed è rimasto, finché il popolo lo ha cantato; ma da che il popolo non lo canta quasi più, sarà forse la differita di un coro popolare che “ finge “ la diretta, quello che lo salverà dall’estinzione? Mi riferisco a quei cori che pensano di ricreare la diretta con scialbe esecuzioni denominate “spontanee”: qui la diretta non esiste più perché il concetto stesso di coro non è proprio del gruppo spontaneo. Se vedi un filo d’erba vivere in diretta in un prato, non puoi pensare di vederlo vivere allo stesso modo se lo trapianti in una serra: la differita sarà inevitabile, anche se ben simulata. E se quel filo d’erba potesse parlare, forse direbbe: “riportami alla luce del sole e al suo calore naturale!” Noi non possiamo più dare al canto popolare il suo calore naturale, ma possiamo riportarlo alla luce sotto un nuovo aspetto: quello della coltura colta. La cultura è come la differita: toglie alla coltura la naturalezza della diretta. Ma, ancora, è meglio lasciar morire in “diretta” o far sopravvivere in “differita”? Il coro Sette Torri ha inciso nel 2005 un CD, uscito all’interno di un libretto intitolato Casina sòla per i tipi di Giancarlo Zedde, nel quale cinque compositori hanno cercato di far vivere “in differita” una quindicina di canti cosiddetti “popolari”. Ogni compositore ha messo, ciascuno a suo modo,

Il Coro “Sette Torri” di Settimo Torinese

Il Coro “Sette Torri” di Settimo Torinese

la propria tecnica colta al servizio dell’incolto, cercando di strappare dall’oblio canti che, diversamente, sarebbero rimasti solo nella memoria di chi quegli stessi canti ebbe la fortuna di viverli in diretta. Questa operazione somiglia molto ad un specie di clonazione, e tuttavia non abbiamo altro modo per innestare nella storia della musica ciò che, diversamente, non avrebbe storia. Se per sopravvivere bisogna acculturarsi, ben venga dunque la cultura! Questa analisi, seppure interessante, non toglie che sia sopravvissuto, anche nella storia della musica, solo ciò che è nato, o almeno è diventato, colto. Non fa storia, senza l’acculturarsi, l’aver eseguito, potremmo dire, facendo il verso a Dante Alighieri, “non fa scienza, sanza lo ritener, l’avere inteso” [ Paradiso V, 41-42 ]. E allora bisogna che il popolare si lasci truccare dagli esperti di “musica corale” che, in buona fede, desiderano abbellirlo senza fargli perdere i connotati: qui non si tratta di dover truccare un brutto viso per renderlo meno spiacevole, ma soltanto di poterlo incorniciare per metterlo in un museo; e il museo è quello della storia, infine niente può passare alla storia senza che sia incorniciato per opera della cultura, nemmeno il popolare. Prendiamo una scena tante volte vissuta in diretta dai suoi protagonisti: una nonna che canta un canto popolare ai suoi nipotini. Un bel soggetto, sicuramente, ma che per noi non è più contemplabile: per questo non ne sentiamo più il suono. Invece, prendiamo quel soggetto, e inquadriamolo, come farebbe un pittore con un suo quadro, e mettiamolo in un museo; lì chiunque può ancora ammirarlo, seppur fuori dal contesto originale: non ci sarà il contesto ma almeno c’è ancora il testo! Se riusciremo ad incorniciare il canto popolare potremmo anche utilmente evitare che tanti cantori escano dai cori popolari per il solo motivo che lì non ci sono quadri da ammirare; invece no: sappiano questi cantori che i quadri non sono contemplabili solo nei cori polifonici di musica sacra, ma lo sono anche nei cori che hanno fatto “incorniciare” qualche canto popolare affidandolo alla maestria di artigiani capaci di fare tale lavoro “artistico”.