Intervista a Daniele Venturi

Le elaborazioni di canti di tradizione orale sono al centro dei repertori di moltissimi cori italiani di ispirazione popolare ma, sempre più frequentemente, compaiono anche nei programmi di cori polifonici o ensembles dediti a generi diversi come il vocal pop o il Novecento storico. La qualità dell’elaborazione è sicuramente il segreto della diffusione di molti di questi brani. Abbiamo deciso di parlare di canto popolare e della sua elaborazione con Daniele Venturi, compositore, direttore di coro e didatta che annovera tra le sue passate esperienze anche la ricerca etnomusicologica sul campo svolta nel proprio territorio di origine.

Come è nato il tuo interesse per il canto popolare?

È cominciato nell’ambiente domestico poiché io vengo da una famiglia di cantori popolari (sono stati importanti soprattutto i miei zii). Ho assimilato il canto fin dalla prima infanzia, molto prima di conoscere la musica e anche prima di conoscere la lingua italiana. Poi c’è stata l’esperienza corale: mio padre e mio fratello cantavano nel coro La Rocca di Gaggio Montano allora diretto da Paolo Bernardini (divenuto ricercatore dietro impulso di Giorgio Vacchi) e a un certo punto, ancora con la voce bianca, entrai a farne parte anche io come tenore primo. Cantavo con la vocalità spontanea che avevo imparato in famiglia. Era una vocalità caratteristica della mia zona. Non sempre i maestri di coro valorizzano queste particolarità, è più frequente che, alla ricerca del “bel suono” rischino di portare i propri cori ad una certa omologazione.

Sono stati importanti anche i primi LP che ebbi occasione di ascoltare in casa: quelli di mio fratello, quasi tutti di cantautori italiani, e quelli di musica corale di mio padre. Si trattava di alcuni dischi del coro della Sat di Silvio Pedrotti e di uno dei primi LP del coro Stelutis “Nella vita di un uomo c’è sempre una canzone”. Fu lì che ritrovai un suono realmente popolare, di forte impatto e risentii canti che conoscevo già a memoria, magari con alcune varianti.

Come scegli le melodie su cui lavorare? Segui dei criteri?

Ne potrei distinguere due: il primo è sicuramente la mia memoria. Lavoro volentieri su melodie che ricordo da sempre e spesso cerco di creare i controcanti attingendo il materiale tematico da altri temi tradizionali. Il secondo è l’ascolto ripetuto nel tempo e l’inevitabile meccanismo di “filtraggio” che la memorizzazione spesso comporta sui brani che più amiamo. Ti faccio un esempio: per anni ho cercato di elaborare il brano della Sat Era sera senza togliergli la grazia e la leggerezza che lo caratterizzava. Una versione l’ho poi pubblicata nel mio volume Cantare un mondo perduto. In generale l’attività di elaborazione di temi popolari mi ha sempre accompagnato ed è stata quasi un “secondo conservatorio”.

Che atteggiamento hai nell’affrontare l’elaborazione per coro di un canto o di un frammento di tradizione orale?

Di grande rispetto, sicuramente. Ma anche di estrema attenzione al destinatario dell’elaborazione cioè il coro le cui caratteristiche devono sempre essere tenute presenti durante il lavoro di composizione. Perché un brano sia effettivamente eseguibile da un coro amatoriale bisogna rispettarne le caratteristiche (estensione vocale, cantabilità ecc.) e non dimenticare la propedeuticità: anche un coro amatoriale può eseguire partiture impegnative ma deve esservi condotto con gradualità e sistematicità.

Ci sono tematiche o tipologie di canti popolari su cui lavori più volentieri?

Amo molto i canti di lavoro e le ballate ma anche le ninne nanne e le serenate. Trovo interessanti anche i canti a contrasto e quelli, in generale, su cui posso lavorare sull’imitazione vocale degli strumenti. Prediligo melodie molto semplici che, comunque, non modifico mai in nessun modo. Nei limiti del possibile cerco anche di rispettare alcune modalità esecutive chiaramente derivanti da scale non temperate, per esempio con l’uso di glissandi.

Ci sono tecniche compositive che ritieni, a priori, più adatte o meno a questo materiale?

Forse proprio il contrappunto che deve essere usato con misura: il rischio è quello di appesantire invece che arricchire la melodia originale. Nella composizione di ostinati traggo sempre il materiale tematico dalla melodia principale stessa. Cerco anche di usare, a scopo di elaborazione, alcuni tratti tipici della prassi esecutiva dei gruppi spontanei come la contrapposizione solista coro e l’allungamento delle note finali delle frasi. Mi piace anche utilizzare collegamenti armonici non classici come il quinto grado seguito dal quarto o le quinte parallele. Ma tutto deve essere al servizio di un’idea di elaborazione che vada al di là della armonizzazione. Nelle ballate, per esempio, cerco di lavorare sui caratteri, sui personaggi. Non si può prescindere, in ogni caso, da ciò che ci insegna la pratica dell’accompagnamento che deve, per sua stessa natura, sostenere il tema evitando soluzioni armoniche troppo artificiose. L’uso di dissonanze credo sia giustificato nel canto popolare solo nella misura in cui costituisca una sorta di moderno madrigalismo.

In questo ambito quali sono i compositori che ti hanno influenzato di più in passato?

Non è facile rispondere. Da ragazzo ho ascoltato quasi compulsivamente tantissima musica. Oltre agli elaboratori della prima Sat ho apprezzato particolarmente alcuni lavori di Paolo Bon come il fortunato Le Roi Renaud. I suoi continui richiami all’arcaico e il frequente uso della modalità sono divenuti parte integrante del suo stile talvolta, va detto, con un po’ di forzatura. Ho apprezzato molto alcune delle elaborazioni per coro di Arturo Benedetti Michelangeli come Serafin. In altre come La mia bella la mi aspetta ci sono oggettive difficoltà esecutive che, per un coro amatoriale, non sono trascurabili. E infine Giorgio Vacchi. Chi, come me, viene dal mondo dei cantori popolari nell’ascoltare le sue elaborazioni ha subito capito che andavano nella direzione giusta. Si può dire che egli abbia scelto nel lavoro di elaborazione, la strada più impervia, cioè quella di amplificare il clima, l’atmosfera del canto popolare. Ricordo la suggestione di Addio addio, assai efficace. Giorgio Vacchi vi impiega alcune tecniche, come i glissandi, che amplificano gli stati d’animo già presenti nella melodia. Ho trovato molto interessante anche il primo De Marzi. In un brano come Le voci di Nikolajewka complesso ma ben costruito, abbiamo davvero l’illusione di sentire l’atmosfera del canto popolare nonostante si tratti di musica d’autore. Nel suo secondo periodo De Marzi ha scritto ancora tantissimo ma, forse anche per via dell’inflazionamento che ne è derivato, non sono riuscito ad apprezzarlo altrettanto.

E tra i contemporanei chi apprezzi di più?

È una domanda impegnativa. Non sempre mi trovo in sintonia con chi scrive musica originale (non elaborazioni di melodie tradizionali) in stile neotonale e con i minimalisti il cui successo, peraltro, non deve stupire. Ripetitività e semplicità sono elementi primordiali a cui anche l’ascoltatore più distratto non può resistere. Non è facile selezionare temi efficaci. In questo senso utilizzare il materiale popolare può essere un’arma in più perché permette di avere come punto di partenza una melodia dotata di carattere e forza. Scegliere la melodia giusta è determinante per evitare di cadere nello stereotipo o, peggio, nel “finto popolare”. Tra gli autori e gli elaboratori contemporanei apprezzo Marco Maiero e Giorgio Susana entrambi di mano assai felice.

Se, tra le tue elaborazioni, dovessi sceglierne una che ti rappresenti al meglio? Per quali motivi?

Sono legato ad alcuni dei primissimi canti su cui lavorai perché si trattava di melodie che desideravo elaborare da sempre. Le ho scelte perché le conoscevo personalmente avendole apprese in famiglia in forma di variante come nel caso di L’ora che canta il gallo, oppure di È partita una nave. In qualche caso ero rimasto affascinato dall’esecuzione che ne faceva l’informatore. Nella mia pubblicazione più ponderosa ce ne sono anche alcuni come Gli scariolanti che mi sono serviti per saggiare i miei limiti di compositore: riguardandolo molti anni dopo mi rendo conto che è veramente troppo complesso per un comune coro amatoriale. Se dovessi scegliere oggi, nel 2022, un brano in cui ritrovo un buon equilibrio direi sicuramente uno di quelli che ho elaborato per il mio coro Gaudium di Gaggio Montano come O cancellier che tieni.  Lo conoscevo grazie ad un mio prozio che lo cantava spesso. È evidente che nello scrivere l’elaborazione corale di questo brano mi sia dovuto porre dei ben definiti limiti tecnici nella scrittura corale, dovuti all’eseguibilità del brano da parte di un gruppo di amatori. Vi ho impiegato alcune tecniche che ho usato molto anche in seguito come il pedale o l’utilizzo di doppi solisti. Anche nel brano Al bar della lavandera sono presenti tecniche compositive, come l’uso degli ostinati e la contrapposizione solisti e coro, che utilizzo molto volentieri perché rievocano le prassi esecutive dei gruppi spontanei. Analogamente ho fatto su altri due brani che amo molto come Nella città di Genova e Tre marinari. In altri brani contenuti nella raccolta Memorie corali pubblicata nell’anniversario della grande guerra ho, invece, sperimentato una scrittura più più articolata, prediligendo, come organico, il coro maschile. Per ciò che riguarda il numero delle voci che utilizzo nelle mie elaborazioni corali generalmente non supero le sei. Anche se, a dire il vero, nell’elaborazione del noto canto Sul ponte di Bassano, contenuta nella mia prima raccolta di elaborazioni, mi sono spinto fino a dodici voci reali, divise in tre cori battenti.

Il canto popolare ha ancora un ruolo nella coralità odierna?

È chiaro che, dal mio punto di vista, non posso far altro che rispondere di sì. Ho sempre amato il canto popolare e posso dire che sia stato il mio primo vero apprendistato musicale. Mi rendo però conto che al giorno d’oggi la distinzione tra musica d’autore e musica popolare non è assolutamente chiara non solo al pubblico ma nemmeno a tanti musicisti, addetti ai lavori o politici. Scomparendo, un po’ alla volta, i depositari della tradizione orale tutto diventa più difficile. Erano gli anziani i principali informatori senza la cui memoria la ricerca etnomusicologica sarebbe stata impossibile. Inoltre, non possiamo nasconderci che il canto tradizionale nasce, per forza di cose, da un territorio e dalla comunità che lo abita con la sua cultura e le sue varianti dialettali diverse, a volte anche soltanto a pochi chilometri di distanza, da quelle dei paesi confinanti. Questa ricchezza è alla base di ogni cultura come lo è stata, per esempio, nello sviluppo del cantautorato italiano e delle sue storiche “scuole” genovesi, romane, bolognesi. Questi stili si affermarono durante gli anni 70 e 80 non solo grazie ad alcune forti personalità ma anche perché traevano ispirazione dalle culture territoriali. Attualmente queste differenze tendono a scomparire sempre di più in nome di un’omologazione che non si diffonde solo nella produzione di musica di consumo ma anche in ambiti più di nicchia. Inoltre, il declino della musica dal vivo ha compromesso la vitalità dell’ambiente musicale che è stato una grande palestra e un luogo di scambio e di crescita per tanti musicisti. Oggi è molto diffuso l’orientamento a seguire pedissequamente alcune tendenze. La parola “contaminazione”, per esempio, non è più l’eccezione ma la regola, come se il canto popolare e di tradizione non avesse più un suo reale valore se non, appunto, contaminato con qualcosa di diverso, magari proveniente da un altro lontanissimo luogo del mondo. Anche in ambiti piuttosto specialistici come le associazioni corali regionali sembra che il repertorio di tradizione orale non possa venir proposto al pubblico se non estremamente “caricato” di spettacolarità di vario tipo e di “contaminazioni” (ancora una volta). Anche nella scuola, si sa, la pratica musicale è quasi inesistente anche nella forma che sarebbe più inclusiva cioè quella del canto corale. Nelle scuole il canto popolare italiano è pressoché sconosciuto nonostante la sua grande valenza didattica. Spesso sono proprio gli insegnanti i primi a non proporlo alle proprie classi nella opinabile convinzione che non incontri il gusto dei ragazzi e non sia sufficientemente “inclusivo” per gli alunni stranieri. Non si capisce davvero perché la conoscenza e la riscoperta delle nostre tradizioni orali regionali debba essere contrapposta alle sacrosante esigenze di integrazione che la società contemporanea ci impone. Come docente posso invece dire che i ragazzi sono affascinati da questo patrimonio culturale.

Daniele Venturi

Daniele Venturi nasce a Porretta Terme (Bologna) nel 1971.
Compositore e direttore di coro tra i più noti e apprezzati della sua generazione.
Ha studiato composizione con Gérard Grisey, Giacomo Manzoni, Fabio Vacchi e Ivan Fedele e direzione d’orchestra con Piero Bellugi, diplomandosi in Musica corale e direzione di coro con Pier Paolo Scattolin e in Composizione. È fondatore e direttore del coro d’ispirazione popolare Gaudium (1992), dell’ensemble vocale Arsarmonica (2006) e di Voices 20/21 (2020). Ha in catalogo più di centosessanta composizioni scritte per i più disparati organici e oltre duecento elaborazioni corali di canti popolari.
Suoi lavori sono stati trasmessi da enti radiofoniche e televisive quali: Radio 3 Rai, Radio Cemat, Radio Concertzender, Radio Klara, Radio France, Rai 3 televisione italiana, Radio Vaticana e RTVE Radio Clásica.

La musica di Daniele Venturi fino al 2020 è pubblicata dalle edizioni Isuku Verlag, Sconfinarte, M.A.P., Feniarco, Taukay, Da Vinci e Stradivarius.

Da maggio 2021 le sue composizioni sono pubblicate da Composers Edition.


www.danieleventuri.com